La nostalgia di chi non se n’è andato

Vito Teti, La restanza, Einaudi 2022 (pp. 160, euro 13)

“La nostalgia dell’altrove riguarda anche chi è rimasto e assiste alla fine del mondo in cui è nato”, “melanconico abitatore di un mondo da cui non si è mosso”, “nostalgico sognatore di un mondo che non conosce”: il ruolo attivo, progressivo, della nostalgia e la condizione di chi resta – la restanza appunto – come l’altra faccia di quella in cui si trova chi ha invece scelto la partenza e ha abbandonato il luogo in cui era nato e aveva vissuto. Le acquisizioni critiche che si sono lette nel precedente libro che l’antropologo calabrese aveva dedicato all’argomento (Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, in queste note nell’aprile 2021) si ritrovano in questo, come riferimenti di un unico discorso nel quale, oltre ai risultati della ricerca, entra la memoria autobiografica di un restante, quale Teti è: “La mia piccola esperienza locale è ricca di padri che partivano e di madri che restavano (…). Per me, ne ho coscienza chiara, da sempre partire e restare sono stati indissolubilmente legati”.

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La terribile malattia che la gente stupidamente chiama ‘non avere niente’

Proust. Del buon uso della cattiva salute. Lettere di un malato immaginifico, a cura di Eusebio Trabucchi, L’orma 2022 (pp. 64, euro 7)

Il titolo ricalca quello della Preghiera per domandare a Dio il buon uso delle malattie di Pascal: “Tu mi hai dato la salute per servirTi, e io (sovente) ne ho fatto un uso tutto profano.
Mi mandi ora la malattia per correggermi: non permettere che io ne usi per irritarTi con la mia impazienza! (…) Fa che io mi auguri salute e vita soltanto per impiegarla e concluderla per Te, con Te, in Te!” Basta immaginare che il Tu cui il filosofo si rivolgeva non coincida con il Creatore ma sottintenda un’altra entità – la Scrittura – ed ecco trasparire, nel volto spigoloso e glabro dell’autore dei Pensieri,quello pallido e baffuto di Marcel Proust, autorelegatosi nella famosa camera dalle pareti foderate di sughero e dedito notte e giorno alla composizione della sua grande opera.

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La pazienza, virtù inattuale

A. Tagliapietra, I cani del tempo. Filosofia e icone della pazienza, Donzelli 2022 (pp. 191, euro 34)

Lasciamo da parte i riferimenti, numerosi e puntuali, alla storia del pensiero filosofico e a quella dell’arte, che ricorrono ad ogni pagina. L’originalità di questo libro sta innanzitutto nel fare, e nel costringerci a fare, i conti con una virtù d’altri tempi, la pazienza: “Nella trama della contemporaneità, là dove l’affermazione del progetto ideologico della ragione strumentale votata alla produzione per la produzione sembra giungere a compimento, innervando con virale capillarità e pervicace ostinazione le forme della vita quotidiana, la pazienza appare una virtù del tutto inattuale. (…) L’impazienza può essere ritenuta la cifra contemporanea dell’esperienza soggettiva o, se si vuole, la causa stessa della sua mancanza, vale a dire il movente per cui si inseguono, con sempre maggiore frenesia, situazioni e circostanze che sembrano cariche di esperienze possibili, ma che, una volta raggiunte, non mantengono mai quello che avevano promesso”.

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Dalla parte del lupo

Kerstin Ekman, Essere lupo, Iperborea 2022 (pp. 208, euro 17,50)

Le stagioni, i boschi, gli animali: in alcune pagine si ha l’impressione di muoversi nel mondo di Rigoni Stern. Ma lo sguardo che il protagonista posa sui luoghi e le creature che li abitano non è nativo. È il frutto di un cambiamento lento, profondo, che da ispettore forestale e cacciatore lo porterà a un ripensamento radicale della propria vita. “Vivevo una vita normale. Forse non sarebbe durata chissà quanti anni ancora, ma in ogni caso una vita normale, perfino buona”, condivisa con la moglie, donna solida e affettuosa, con la quale si è ritirato in una proprietà lontana dalla città, fra i boschi. “E si andava avanti, vivevamo una vita normale, ce l’avevo fatta. Poi vidi il lupo”.

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Un vitalismo disincantato

Jón Kalman Stefánsson, La tua assenza è tenebra, Iperborea 2022 (pp. 608, euro 21,50)

Un uomo che non ricorda più nulla di sé, una donna che sembra riconoscerlo, come tornasse da un lungo viaggio che l’ha tenuto lontano, forse, dal suo amore… Ma non c’è da illudersi: dopo questo inizio, che potrebbe essere quello di una narrazione come tante, lineare nel suo svolgimento, la trama si complica in una miriade di vicende, racconti e racconti di racconti che non solo hanno protagonisti diversi ma si dispongono in momenti diversi entro un arco di un paio di secoli, e ritornano su sé stessi per procedere, a distanza di pagine, non in sequenza ma secondo un tracciato a spirale che, appunto, contempla riprese e avanzamenti. Non sembra curarsi, lo scrittore, della fatica che chiede al lettore, tranne che in qualche raro caso nel quale lo avverte (o avverte sé stesso?): “fermati un attimo, perché qui c’è un intoppo, una storia, un destino, e per questo abbiamo bisogno di tornare indietro, nel passato (…). Torniamo indietro nella speranza di comprendere meglio, di orientarci meglio. Quindi rallenta. O meglio: rallentiamo il tempo. Altrimenti non si può raccontare”.

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La felicità: un desiderio, non un dovere

Marco Balzano, Cosa c’entra la felicità? Una parola e quattro storie, Feltrinelli 2022

“Un racconto sulla felicità e sul potere che possiede di condizionare ogni istante della nostra vita” a partire dalle “immagini originarie che indicano la felicità” nelle lingue che l’autore conosce o sente comunque vicine (greco, latino, ebraico, radici della civiltà occidentale, e inglese, “codice universale del nostro tempo”), e l’etimologia come fecondo punto di vista critico che collega tempi diversi e come strumento per contrastare il deterioramento della lingua, e quindi del pensiero. Questo il programma di lavoro che Balzano si è posto per sondare una parola che è “forse la più soggettiva del vocabolario”, diversa da persona a persona ma anche nelle età della vita “perché a cambiare siamo prima di tutto noi con il nostro orizzonte di desiderio”. Unica invariante: tutti vogliono essere felici.

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Il Nord e il Sud di ogni scrittore

Ian McEwan, Lo spazio dell’immaginazione. Riflessioni sul saggio di George Orwell Nel ventre della balena, Einaudi 2022, (pp. 48, euro 12)

Un’altra prova, questo piccolo libro, di che cosa ci riservano i grandi scrittori – lo abbiamo verificato ad esempio leggendo i saggi critici di Gianni Celati, in queste note a fine marzo 2020 – quando parlano, come Calvino sapeva fare da mestro, dei libri degli altri.
Quelli di Henry Miller e George Orwell, nel caso di McEwan.
“Nonostante una buona dose di reciproca ammirazione, i due autori non pensavano allo stesso modo su molte cose”. Il bohémien pessimista e edonista “nutriva un profondo disprezzo per la politica e ogni genere di militanza”: “era, per usare la definizione di Orwell, “nel ventre della balena”, “con metri di grasso” che mettono al sicuro dal mondo, una condizione dalla quale l’inglese era “uscito da un pezzo” impegnandosi “nella causa antifascista [in Spagna] e nella lotta contro l’ingiustizia sociale nel suo Paese”.
Nel loro incontro, nel dicembre 1936, a Parigi, Orwell si dichiara convinto che “libertà e democrazia garantivano l’indipendenza dell’artista – compresa quella di Miller”. Questi, convinto che “la civiltà moderna fosse agli sgoccioli”, riteneva considerazioni del genere solo “fesserie”. Eppure i due si stimano, e Miller regala a Orwell, in partenza per la Spagna, una giacca. Quasi un anticipato contraccambio della tesi che quattro anni dopo l’autore di Omaggio alla Catalogna avrebbe espresso: “a Miller doveva essere riconosciuto il diritto di rifiutare, come artista, l’impegno politico”.

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Ogni cosa ha la sua fine, niente è per sempre

Kader Abdolah, Il faraone d’Olanda, Iperborea 2022 (pp. 288, euro 17,50)

La narrazione procede con il passo dei due anziani personaggi, un professore e un operaio. Il primo è un insigne egittologo olandese che dopo aver indagato per una vita sul lontano passato ha perso la memoria, ma non del tutto: non ricorda il proprio nome ma lo pseudonimo che aveva adottato; durante le sue quotidiane uscite non di rado si perde e dev’essere riportato a casa, ma non ha dimenticato nulla di ciò che riguarda la mummia che, non saprebbe dire come portata con sé dagli scavi in Egitto, conserva nella propria cantina; stenta a riconoscere anche le persone va lui vicine ma ha mantenuto l’ormai antica consuetudine con l’operaio – ecco il secondo personaggio, vero protagonista del romanzo – che gli aveva molti anni prima portato a casa una lavatrice, uno dei tanti gastarbeiter emigrato dalla terra delle piramidi in Olanda, il quale, rispolverando un’abilità acquisita nell’infanzia, ha negli anni dipinto i muri della cantina dello studioso facendone una perfetta imitazione d’una tomba faraonica.

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La non appartenenza dell’intellettuale pubblico

Tomaso Montanari, Cassandra è ancora muta, Edizioni Gruppo Abele 2022 (pp. 176, euro 14)

“Un libro dedicato al silenzio del pensiero critico nell’Italia di oggi”. La quale non è cambiata da quando è stato pubblicato la prima volta, per vedere adesso, a cinque anni di distanza, questa nuova edizione. Anzi: la pandemia e poi la guerra lo hanno zittito ulteriormente, com’era accaduto a Cassandra, condannata a vedere il futuro senza mai essere creduta. Come accade all’“intellettuale pubblico”, studioso che accumula conoscenza ma “vuole rimanere nel mondo, e condividere quella conoscenza con tutti”, senza rinchiudersi nella visione ristretta e alla comunicazione circoscritta cui costringerebbe la specializzazione, accettando piuttosto la non appartenenza, la “solitudine di chi dice la verità”. Se affermazioni del genere possono destare il sospetto di trovarsi di fronte all’ennesimo capitolo dell’eterno “dibattito tra intellettuali sugli intellettuali”, come diceva Norberto Bobbio, è dallo stesso che Montanari trae la sua “bussola”: “il primo compito degli intellettuali – scriveva infatti Bobbio – dovrebbe essere quello di impedire che il monopolio della forza diventi anche il monopolio della verità”.

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La nuova bussola del mondo, finanziaria e tecnologica

Maria Rosaria Ferrarese, Poteri nuovi, il Mulino 2022 (pp. 172, euro14)

Un libro che vuole “dare conto di una doppia dinamica avvenuta negli ultimi decenni del ’900: un trasloco e una metamorfosi del potere”, l’affermarsi di poteri nuovi che oggi governano il mondo. E questo proprio mentre la guerra in Ucraina “si presenta come una forma di violenta irruzione, proprio nel cuore dell’Europa, del potere nella sua forma più arretrata”, tale da minacciare “la narrazione di un mondo interconnesso e pacificato” nel segno della globalizzazione. “Saranno i prossimi mesi e i prossimi anni – riconosce limpidamente l’autrice nella premessa – a stabilire quanto reggano le coordinate adottate in questo libro”. Tra le quali una constatazione fondamentale: lo “scivolamento [del potere] – dagli anni ’80, “in un mondo che mancava di infrastrutture fisiche e giuridiche per far funzionare un’economia globalizzata” – verso il privato e la coincidenza con forme finanziarie e tecnologiche.

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Una specie incapace di imparare dai propri errori

W.G. Sebald, Tessiture di sogno, Adelphi 2022 (pp. 243, euro 19)

“L’inconfondibile figura del viandante solitario che si guarda d’attorno”: Sebald pensava a uno scrittore con il quale si è per molti versi identificato, Robert Walser, quando scrisse – in Soggiorno in una casa di campagna – che era la sua immagine a tornargli alla mente appena sospendeva per un attimo il suo lavoro quotidiano, ed è appunto la figura del viandante che ci conduce, nella prima parte di questo libro, a visitare luoghi, come sempre nei viaggi di Sebald fuorimano, della Corsica. Luoghi scelti per la rispondenza con il proprio stato d’animo, in questo caso la “sensazione di essere libero e senza legami”, “senz’altra occupazione sino alla fine della vita se non lo studio del tempo: del tempo passato e di quello che passa”: un definizione sintetica del tema, della ragione stessa, della scrittura di un autore che del tempo – nella duplice accezione segnalata – , della memoria e della storia, dell’osservazione disincantata e critica di ciò che si definisce contemporaneo ha fatto lo scopo del proprio lavoro.

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L’incerto confine tra gli animali e gli uomini

Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti, Sellerio 2022 (pp. 248, euro 16)

Vivono in tane arredate come appartamenti, cucinano, allevano galline e coltivano l’orto, parlano e, in alcuni casi, scrivono. Ma non sono gli animali del tutto umanizzati di Disney, né sono – come nella Favola selvaggia di Filelfo – portatori di una saggezza che gli uomini dell’Antropocene hanno perduto. E neanche, pur essendo caratterizzati secondo i clichés tradizionali – a partire dalla volpe, che non può che essere la più furba – sono ridotti a rappresentanti delle doti e dei vizi degli uomini. Zannoni non è Fedro. I suoi animali restano animali e il gusto della narrazione prevale su ogni possibile morale della favola. Che pure non manca, ma resta ancorata a una domanda che, per quanto non esplicitata, percorre il romanzo e riguarda la pretesa certezza che un confine netto distingua gli animali dagli uomini. Sono numerosi gli episodi nei quali il protagonista – Archy, una faina – si pone la questione. Quando, per esempio, non acconsente alla proposta del fratello maggiore di rispondere alla loro disperata fame divorando il più piccolo e debole di loro e ne deve quindi trarre una prima, decisiva conclusione: “Da lì cominciai a capire che fra me e Leroy c’era una leggera, orribile differenza: era più animale di me”.

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Quel nodo saldissimo fra soldati e operai

Vasilij Grossman, Stalingrado, Adelphi 2022 (pp. 889, euro 28)

Non credo sia capitato solo a me di rimandare la lettura di questo romanzo, una volta che me lo sono trovato fra le mani: inondati come siamo da mesi di notizie sulla guerra in Ucraina, l’idea di ritrovare in un libro altri racconti di violenza e distruzione e persino nomi di luoghi, di città e di oblast, come abbiamo imparato a dire, che la cronaca ci ha reso quasi familiari, mi ha consigliato di posticipare l’impresa. Perché di un’impresa si tratta: se non si è lettori di fantasy, non capita spesso di cimentarsi con opere di questa mole. Sono però bastati un assaggio, poche pagine, e la renitenza è caduta: non è semplicemente la storia a sgombrare da subito il campo dalla cronaca, ma la letteratura. Quella che sa restituirci con immediatezza le figure dei personaggi che, come si dice, la storia l’han fatta: Hitler e Mussolini, dunque, che si incontrano a Salisburgo a fine aprile, nel 1942, e il primo annuncia al collega “l’ultimo, decisivo attacco all’Unione Sovietica”.

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Due donne, un lungo duello, un’amicizia profonda

Magda Szabó, La porta, Einaudi 2022 (pp. 266, euro 17)

Due protagoniste e due comprimari. In primo piano, due donne, una scrittrice e una donna di servizio; sulla scena, al loro fianco, il marito della prima (anche lui scrittore) e un cane, raccolto dalla strada, che appartiene alla scrittrice ma riconosce come sua padrona, amandola di un amore incondizionato, la domestica. La storia si svolge nell’arco dei vent’anni trascorsi dal momento in cui Emerenc ha cominciato – dopo avere, lei, raccolto referenze sui potenziali datori di lavoro – a occuparsi della loro casa, presentandosi come una “vecchia fuori dagli schemi”, ruvida, spesso scostante, taciturna, ma grande lavoratrice, capace di gesti di attenzione che le hanno assicurato il rispetto dell’intero quartiere in diverse case del quale esercita la sua professione. Rispetto e simpatia, anche se nessuno ha mai potuto entrare nella sua casa, la cui porta resta rigorosamente chiusa, invalicabile.

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Raccontare l’Antropocene

Racconti del pianeta Terra, a cura di Niccolò Scaffai, Einaudi 2022 (pp. 318, euro 21)

Ormai è una constatazione assodata e diffusa (non a caso ricorrente anche in queste note, delle quali converrà perciò richiamare solo quelle essenziali): sappiamo molto, sempre di più, degli effetti della crisi ambientale, del riscaldamento climatico in particolare, ma continuiamo a comportarci come se non sapessimo. O meglio, “Sappiamo che stiamo scegliendo la nostra stessa fine: solo che non riusciamo a crederci”, scrive Safran Foer (in queste note nel dicembre 2019), per cui si può ben dire che “ È enorme la cosa che sta accadendo, ma lo è anche ciò che non sta accadendo”, come fa Carla Benedetti (in queste note nel giugno 2021).

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Di che cosa parliamo quando parliamo di consolazione

Delphine Horvilleur, Piccolo trattata di consolazione. Vivere con i nostri morti, Einaudi 2022 (pp. 160, euro 16,50)

Ci sono parole che, pur facendo ancora parte del lessico comune, ne sembrano tendenzialmente relegate ai margini, non solo perché usate più raramente che in passato ma anche perché il ricorso ad esse appare sempre più cristallizzato in formule che ne impoveriscono il senso. La “consolazione” è spesso ben magra, se non addirittura amara, tanto da qualificare il premio che non ci si augura di ricevere, mentre suona vagamente ipocrita, e non a caso capita sia citata ironicamente, la rassicurazione che i parenti – sempre meno frequentemente, c’è da dire – inscrivono nel necrologio o vogliono incisa sulla lapide dichiarandosi inconsolabili.

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Uomini oscuri a sé stessi

Paola Castriota, Fascisti 70. Storie di vite estreme, Liberedizioni 2022 (pp. 168, euro 15)

Attenendosi al precetto della buona scrittura narrativa – non dire, ma far vedere –, in consonanza con la sua esperienza di autrice di documentari d’inchiesta, come quello dedicato alla strage di piazza della Loggia, Paola Castriota ci introduce a ciascuna delle storie di cui è fatto questo libro dandoci i riferimenti del tempo e del luogo nel quale si produce l’evento culmine, quello cui sembra essersi indirizzata la traiettoria esistenziale del protagonista. La conclusione si annuncia già all’inizio, stagliandosi sull’ordinarietà del contesto, staccando dalla quotidianità che lo connota. La morte, inattesa sempre e pure contaminata – quando non è la propria, o quella di chi ci è caro – dalla banalità degli accadimenti prevedibili e inevitabili, assume in queste storie il senso di un approdo fatale, lentamente maturato in giorni vissuti all’insegna di un’estraneità sostanziale, se non addirittura di una sorda opposizione, alla vita. Nel viluppo di pensieri e parole, atti e relazioni nel quale la vita di fatto consiste, l’originaria, mitica unicità che i protagonisti si sono persuasi di sentir pulsare nel profondo di sé stessi sembra infatti correre il rischio di disperdersi nella pluralità delle esistenze ai loro occhi omologate, insensate e moralmente corrotte della gente comune, nelle vite mancate che i più si rassegnano a condurre.

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Un senso nuovo della caducità

Bruno Latour, Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia, Einaudi 2022 (pp. 180, euro 15)

Il filosofo prosegue la sua riflessione – rintracciabile in saggi come Tracciare la rotta, in queste note nel settembre 2018 – alla luce del confinamento che abbiamo conosciuto durante la pandemia. Non perché sia convinto che quell’esperienza ci abbia reso finalmente consapevoli della nostra situazione, ma perché in essa siamo stati costretti, al di là della consapevolezza conservatane, a fare una “specie di prova generale” di quello che ci aspetta ma che – anche se di fatto negazionisti, sia pure in quella forma di “quietismo ambientale” che ci accomuna – già ora ci sgomenta: di fronte a un bel paesaggio, ascoltando il fruscio degli alberi, non possiamo non avvertire l’inquietudine suscitata da un senso nuovo della caducità. Una caducità non inevitabile, connessa alla condizione di tutto quanto è nato, ma derivante dalle nostre azioni: “se ti senti così a disagio a guardare gli alberi, il vento, la pioggia, la siccità, il mare, i fiumi – e naturalmente le farfalle e le api – è perché ti senti responsabile, sì, in fondo colpevole di non lottare contro quelli che li distruggono”. Opponi resistenza, ma una resistenza sempre più precaria alla coscienza che tutto è cambiato, che “una metamorfosi c’è stata e non pare proprio che al risveglio da questo incubo torneremo indietro”: la pandemia è solo uno dei molti segni di una metamorfosi radicale, simile a quella vissuta dal Gregor Samsa di Kafka, che si riaffaccia in molte di queste pagine a ricordarci il carattere inedito del cambiamento ormai in corso, una metamorfosi che lui solo, non i suoi familiari, comprende.

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L’anno più caldo di sempre

Richard Flanagan, Il vivo mare dei sogni a occhi aperti, Bompiani 2022 (pp. 245, euro 18)

“(…) stava per finire l’anno più caldo di sempre”: incendi durati mesi, intere zone evacuate e divenute inabitabili, città soffocate dal fumo e a rischio di rimanere senz’acqua; incertezza – su quanto avvenuto, su quanto potrebbe avvenire – resa con l’immediatezza di un pensiero disorientato e angosciato che cerca di inquadrare la situazione. L’esperienza vissuta nell’estate di quest’anno avvicina il racconto di quella del 2019 in Australia, che l’autore inquadra nel più generale sconvolgimento indotto dal cambiamento climatico costellando la sua narrazione di riferimenti alla dimensione planetaria del fenomeno: “(…) intanto metà della calotta glaciale della Groenlandia si scioglieva, in Francia si registrava il giorno più caldo di sempre, un piccolo topo marsupiale australiano era la prima specie a essere spazzata via dal cambiamento climatico e gli ultimi rinoceronti di Sumatra morivano”.

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La città dei ‘desombrati’

Piero Bevilacqua, La città delle ombre perdute, Castelvecchi 2022 (pp. 158, euro 17,50)

Fa pensare a quei romanzi in cui succede qualcosa, non si sa cosa il più delle volte, per cui la gente smette di morire. Una ragione di felicità, all’inizio. Poi cominciano i guai: nell’isola di Luggnagg, Swift fa incontrare al suo Gulliver esseri che non muoiono ma non smettono di invecchiare: una condanna; Borges ritiene, nell’Immortale, che essere esenti dalla morte si risolva nel non essere nessuno, in un non essere, in definitiva; il Saramago delle Intermittenze della morte si diverte a raccontare con la sua ironia impareggiabile le conseguenze economiche e sociali della sparizione della morte, e il tema non ha smesso di fornire lo spunto. Per restare al vicino, Gianmaria Parrotta, ci si è esercitato con Immortali (Bartha 2021). Che cos’hanno in comune, al di là del loro valore letterario e filosofico, questi racconti? Il fatto che l’immortalità, da tutti alla fin fine giudicata una sciagura, dà il la a una serie di vicende e di considerazioni che si susseguono come rispondendo alla domanda implicita: che cosa succederebbe se…?

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Fiuto da sbirro e renitenza indisciplinata

Massimo Tedeschi, Il giardino dei cedri. Una nuova indagine del commissario Sartori, La nave di Teseo 2022 (pp. 207, euro 17)

Uno scrittore il cui “immaginario si colloca sulle sponde del lago e racconta una provincia fatta di personaggi comuni e nel contempo esemplari”, nel bene e nel male – come i “fascisti da operetta” che non mancano nei suoi romanzi, vista l’epoca in cui si svolgono. Sembrano parole pertinenti per richiamare la figura dell’autore bresciano, e invece – cambia il lago, quello di Como al posto del Garda – e trovi Andrea Vitali, così come ce lo restituisce il sintetico profilo che in internet se ne può leggere. Ma il parallelo si ferma qui, o comunque approfondirlo è fuori dalla portata di questa nota sull’ultima indagine del commissario creato nel 2016 da Massimo Tedeschi. Le analogie non mancano, e del resto Italico (Italo) Sartori è solo alla sua quinta prova: avrà modo di conquistare – soprattutto da quando le sue storie ci raggiungono nella veste conferitagli da un editore di prestigio e vasta diffusione – schiere di lettori oltre quelle che già si possono dire affezionate al personaggio, ai luoghi, alla grana di storie dall’intreccio sempre coinvolgente (e lineare, il che non è di tutti i polizieschi).

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