Chichita, amore mio

Italo Calvino, Lettere a Chichita 1962-1963, a cura di Giovanna Calvino, Mondadori 2023 (pp. 192, euro 14)

La conoscenza con Esther Judith Singer, detta Chichita, giunge dopo due anni in cui Calvino non ha scritto opere narrative: “Io forse non scrivo più e vivo bene lo stesso”, è arrivato a dire, nel maggio del ’61, all’amica Natalia Ginzburg. A un anno di distanza, tuttavia, il desiderio di lavorare a nuovi progetti è tornato: “Sono stanco della vita che faccio. Il lavoro editoriale (…) un mare di libri che non si ferma mai, occuparmi di tutti i libri di tutti gli altri, ma non potermi occupare dei libri miei”.

Ma a questa espressione di insoddisfazione, non rara in Calvino, si accosta, nella prima delle lettere alla futura moglie, una confessione che a prima vista poco si accorda con l’immagine consacrata che si ha dello scrittore: “E la mia vita amorosa è come la vita dell’industria editoriale, occuparmi di donne, donne, donne, un mare di donne che cambiano sempre, che ho bisogno di cambiare sempre, e nessuna sento come la mia donna. Capisci che vita sbagliata che faccio io!” Ma Calvino era anche questo: predilezione per auto sportive, come la sua Giulietta, per hotel di un certo livello a St. Moritz e giornate di sci a Cervinia, che continueranno anche dopo l’incontro con Chichita. Quanto alle donne, invece, le cose cambiano subito: “Chichita, amore mio, finalmente una donna con cui sino felice”. Con la partecipazione alla Resistenza e l’ingresso all’Einaudi, l’amore per lei – riconoscerà lo scrittore – rappresenta un momento decisivo, una svolta esistenziale, senza paragone con la relazione, appassionata fino all’ossessione, con Elsa De Giorgi, chiusa pochi anni prima e anch’essa produttrice di una quantità di lettere che forse leggeremo in futuro, ma che per il momento restano custodite presso il Fondo manoscritti dell’Università di Pavia, la cui curatrice, Maria Corti, assicurava trattarsi del più grande epistolario d’amore del secondo Novecento italiano.

Nell’impossibilità di confronti, sempre che se ne possano fare, un domani, l’innamoramento per Chichita ha il carattere dell’eccezionalità, vissuto immediatamente da Calvino come l’inizio di un’“era di miglioramento spirituale”: “mi sei indispensabile come vicinanza fisica e dialogo. Perché con te si può abitare contemporaneamente nel particolare e nell’universale” e “a me piace molto parlare con te e mi piace che mi piaccia parlare con te e mi piacerebbe che ti piacesse (che ti piacesse che mi piaccia)”. Dichiarazioni come questa, in cui passione e allegria si confondono nel rappresentare inequivocabilmente momenti di vera, consapevole felicità, ricorrono in queste lettere, che non escludono comunque momenti che rivelano un confronto reale, il riconoscimento di un’alterità che l’amore non tende a cancellare ma, anzi, esalta: “Certo penso sempre di essere costituzionalmente un egoista (…) e perciò sono sempre pronto ad ammettere di avere torto, ma sarebbe molto istruttivo per me avere delle critiche estremamente localizzate e precise. (…) quello che mi lega a te non è il desiderio d’una vita affettiva, ma una profonda comprensione reciproca (spero), una (rarissimo fatto in un rapporto amoroso) vera amicizia (…) Forse questo è poco, dirai tu: ebbene, a me questo non era mai capitato (…) adesso sono in un momento in cui (…) l’idea che avevo messo insieme di molte cose (e che resisteva a tutte le crisi) (molte cose: letteratura, funzione dell’intellettuale, politica, futuro del mondo, etc.) è giunta anche per me a una crisi, e l’unica persona con cui riesco a vivere questo approfondimento di me stesso – accidenti! – sei tu.”

Alla riflessione sul proprio amore – che il fatto di essere “una coppia che parla lingue diverse” non ostacola – si intrecciano i riferimenti ai doveri imposti dalla casa editrice, tra cui la presenza alle cerimonie dei premi letterari, la partecipazione a giurie tutte di vedettes, a compagnie mal assortite di letterati, a incontri i cui uditori non sono a volte propensi ad accogliere i giudizi severi, non di rado pessimisti, di Calvino – come capita in occasione di una conferenza che è chiamato a fare nella “communist-affluent-society” dell’Emilia, cui pure va il suo riconoscimento di “via emiliana al socialismo (…) la sola che trionferà ed è anche la mia”.

Resta il fatto che il lavoro editoriale e quello creativo si contendono il tempo, un problema vissuto, questo, ma non subito: “È sicuro che la maggior parte del mio tempo lo dedico alla casa editrice ma questo lo accetto volentieri, anzi è una mia scelta: primo, perché il lavoro editoriale mi diverte e appassiona; secondo, perché bisogna partecipare a qualcosa di extra individuale; terzo, perché la mia vita è impostata così da quindici anni e mi mancasse uno dei suoi elementi – il lavoro editoriale o il lavoro personale o le ragioni di scontentezza per l’uno o per l’altro – mi sentirei subito diminuito di qualcosa.” Al fondo, una convinzione che accompagna Calvino per tutta la vita: “io ho sempre creduto che quel che dà senso al lavoro individuale è la partecipazione al lavoro collettivo”.

Chichita non vive comunque ai margini della frenetica vita del compagno, pur abitando lei a Parigi e lui a Torino (per quel che gli riesce, essendo continui i viaggi a Roma e San Remo o alla volta di diverse città europee). A parte le proprie conoscenze letterarie, di cui lei lo mette a parte, Calvino la rende partecipe delle sue imprese, dalla cura dell’opera poetica di Pavese (per il quale Chichita sente di nutrire un sentimento che nel suo italiano approssimativo definisce “endopatia”) alla composizione di un nuovo ciclo di avventure di Marcovaldo, ispirate dalla convinzione che “sia giusto insegnare all’infanzia che esiste anche la sconfitta, lo scacco, la malinconia”. Così come troviamo tracce suggestive del lavoro che porterà a La giornata di uno scrutatore e alle Cosmicomiche. Più sorprendenti sono però un paio di testi che si sono potuti leggere anche nell’edizione delle opere nei Meridiani Mondadori, ma scopriamo essere nati come resoconti a Chichita. Il primo è stato scritto in occasione di un ricovero ospedaliero. Si tratta delle “note sui personaggi conosciuti in questi giorni, che forse inaugurano un mio nuovo genere letterario”. Calvino ne è consapevole: la descrizione del chirurgo e della suora, delle infermiere del giorno e di quella della notte rivelano uno sguardo che si smarca dai punti di vista consueti per osservare e interpretare figure altrimenti assimilate a stereotipi che le disumanizzano. Altrettanto preziose le considerazioni suscitate dall’esperienza del deserto, in un viaggio in Libia: “A prenderla in mano la sabbia è finissima ed estremamente secca al tatto ma spessa, gialla, quasi grassa alla vista (…). La sensazione che dà il deserto è quella della sua infinita unità e nello stesso tempo non si dimentica mai che è formato da minutissimi granellini”. Notazioni che non possono non far pensare a quelle che Calvino scriverà vent’anni dopo, in Collezione di sabbia.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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