Il ’68 e la sua eredità ambigua, e necessaria

Paolo Pombeni, Che cosa resta del ’68, Il Mulino 2018 (pp. 128, euro 12)

Paolo Pombeni, storico, politologo, tenta un bilancio del’68: vent’anni in quell’anno; settanta oggi che ne scrive.

“Per la mia generazione – riconosce – quell’anno è stato una specie di battesimo collettivo, il rito di passaggio da un mondo a un altro.” Fra i tanti libri usciti per l’anniversario, che spesso raccolgono i “ricordi proposti dai reduci, a volte celebrativi, altre volte dominati da un desiderio di autoflagellazione”, questo vuole offrire “una modesta riflessione che viene da chi partecipò sia pure in quinta fila, a quegli eventi, ma nei cinquant’anni seguenti per varie vicende ha dovuto misurarsi con l’eredità di quella fase.”
Prima di tutto, che cosa è stato il ’68? “Molte cose, ma senz’altro in gran parte un’operazione intellettuale”, compiuta, e vissuta, da studenti universitari, cresciuti in un paese  che si era rapidamente modernizzato ma nondimeno propensi a sentirsi “defraudati della speranza di entrare con coraggio in quella che appariva la modernità”. Destinati comunque a subire – spesso cedendovi – le lusinghe di “alleati subdoli”, dall’industria culturale al mercato, così come il fascino di “cattivi maestri”. Risultato: l’abbandono del prosaico, “faticoso e impegnativo riformismo di cui aveva bisogno l’Italia”, e il prevalere della critica dell’esistente, della pars destruens, senza che venissero riservati pari entusiasmo e intelligenza alla pars costruens.

Non ci sono motivi per essere trionfalisti ma neanche per sentirsi sconsolati nel ripensare quel “momento storico”, perché tale è stato il ’68, non si può non ammetterlo: “Ci fu allora un impegno alla riflessione che, pur con tante ingenuità, non fu più rinnovato”.
Detto ciò, l’autore passa in rassegna i campi su cui questa riflessione si concentrò, le argomentazioni che elaborò, le speranze che concepì, ma analizza, anche, l’eredità non di rado “ambigua” che da quel fermento ci è giunta: la critico al sistema educativo, pur non misconoscendo il valore del patrimonio culturale in esso sedimentato, si è di fatto risolta nella “trappola del soggettivismo” in cui oggi ci dibattiamo, fra genitori avvocati dei loro fogli e insegnanti di nuovo autoritari, gli uni e gli altri – ma si tratta di atteggiamenti che vanno ben oltre la scuola – arroccati sulle loro posizioni e ostili ad ogni coinvolgimento dialettico.
Dall’operaismo, altro tratto decisivo della cultura del ’68, e dall’incontro operai-studenti – più episodico e transitorio di quel che apparve in quegli anni – si è giunti alla “chiusura dei sindacati verso le esigenze delle nuove generazioni”; la critica radicale al capitalismo e al consumismo non ha impedito che molti dei protagonisti delle lotte di quei giorni si siano acclimatati nel mondo accademico, economico, politico-parlamentare, così come il rinnovamento del mondo cattolico ha lasciato il campo a una religione intesa come “scelta personale”.
Come da tempo e da più parti riconosciuto, sono il femminismo, la ridefinizione del ruolo della donna con le sue conseguenze su quella del ruolo maschile, ad aver registrato un “successo duraturo”, mentre la contrapposizione al mondo della politica dei partiti non ha costituito un baluardo, a partire dai primi anni ’80, contro il venir meno di una “cultura riformista e riformatrice”, sfociando in alcuni casi in una critica radicale priva di orizzonti che non fossero millenaristici. E involuzione non dissimile ha subito il “comunitarismo”, la logica accogliente dei “gruppi spontanei”, altro aspetto che ha marcato il ’68, molto presto inquinati dallo spirito settario.
Eppure: il comunitarismo stesso, come il femminismo di cui si diceva, e l’idea di un’Italia “paese sbagliato” perché privo di una rivoluzione che abbia segnato una cesura nella sua storia, ma anche la distanza critica dal consumismo o l’attenzione alla dimensione internazionale sono tutti aspetti che hanno lasciato “ un’impronta profonda nella psicologia sociale”, nell’immaginario collettivo degli italiani  “per lunghi decenni”. Decenni che si sono conclusi? è lecito chiedersi, perché a questo servono gli anniversari: a cercar di capire a che punto si è riflettendo dove si era, o si credeva di essere. Nel caso concreto, a riconoscere che quella del ’68 è “un’eredità in cui sopravvivono più gli elementi utopici nell’immaginare il nostro futuro, che le componenti razionali utili a circoscrivere i problemi per provare a risolverli”. Si può essere d’accordo, a patto di ammettere anche che di “elementi utopici” abbiamo bisogno. Oggi, in Italia, più che mai.
E’ alle giovani generazioni – conclude Pombeni – che spetta il compito di raccoglierli, e calarli nel mondo globalizzato dei nostri giorni. Così dando conferma – chissà… – che quello del ’68 “non era che l’inizio”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

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