La civiltà non è una conquista irreversibile

La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017 (pp. 235, euro 19)

Terrorismo. Migrazioni, soprattutto da regioni in cui lo stato è scomparso. Disuguaglianze crescenti, fra Nord e Sud ma anche all’interno dei paesi occidentali.

Xenofobia, islamofobia, razzismo. Nazionalismi, sovranismi, populismi e imbarbarimento del discorso pubblico.
Il dizionario politico del nostro tempo non si limita a fornire una smentita ulteriore e definitiva dell’ideologia del progresso: parla di un processo di “regressione” che non è solo economica e politica, ma si estende a tutti gli aspetti del vivere collettivo (e di quello individuale: fra panico demografico diffuso in Europa e malinconia esistenziale esiste un nesso accertabile).
“Decivilizzazione” è il termine più pertinente per descrivere questa involuzione: un arretramento decisivo, e pervasivo, su quel terreno, la civiltà, che ci si rappresentava come un campo di tensioni, e minacce, ma anche come un cammino sostanzialmente irreversibile. Reso precario, invece, e oggi messo radicalmente in discussione, dai rischi globali generati da una finanza che permea l’economia reale nel quadro del neoliberismo imperante, dalle conseguenze di trasferimenti epocali di popolazione e cronici stati di guerra, da un cambiamento climatico che solo con intenti dichiaratamente provocatori si può ancora mettere in dubbio.
Come si è finiti in questa situazione e come, ammesso che sia possibile, uscirne: queste le domande cui cercano di rispondere gli autori in un libro pubblicato contemporaneamente in più paesi.
Non sono discorsi nuovi quelli che troviamo in queste pagine, ma in essi spiccano sottolineature che tentano di stabilire corrette gerarchie di rilevanza fra i problemi, diagnosi mai semplificatorie e sloganistiche ma nette e decise nell’individuare le criticità di fondo: la tendenza a un dilagante rifiuto della democrazia (Appadurai), una democrazia del resto sempre meno inclusiva e, oltre tutto, in grado di ampliare le libertà personali nel momento stesso in cui toglie potere ai cittadini (Krastev); la renitenza a riconoscere nel neoliberismo il ritorno a un capitalismo dell’esproprio (Della Porta) e contemporaneamente un’ideologia che ha egemonizzato la Sinistra, incapace di rifiutare l’alternativa fra neoliberismo progressista e populismo reazionario (Fraser) e ormai guadagnata al credo del TINA: There Is No Alternative (Streek).
Rendersi consapevoli di quello che accade è il primo indispensabile passo: far fronte a una gigantesca crisi di civiltà esige innanzitutto una rivoluzione culturale che metta in grado di riflettere e pianificare sul lungo periodo (Bauman). Presupposto essenziale è l’attribuzione di un ruolo centrale al fenomeno migratorio e al cambiamento climatico (due fenomeni più o meno mediatamente legati fa loro) e, conseguentemente, l’assunzione del fatto che lo scontro oggi è fra internazionalisti e nativisti (Krastev), da un lato, e dall’altro fra negazionisti di fatto (quelli che sanno ma non fanno) della questione ambientale e coloro che invece non fuggono davanti ad essa e individuano nel cambiamento radicale e ad ogni livello degli stili di vita l’unico comportamento all’altezza dei tempi (Latour).

Al fondo di una simile presa di coscienza, o ripresa di pensiero critico, non può che esserci il riconoscimento che la “grande regressione” non è un fenomeno naturale e neanche l’esito di una complessità ingovernabile e sfuggente, ma il risultato di un tradimento: quello perpetrato dalle minoranze privilegiate (Latour), contro il quale nulla sarà possibile senza la rivalutazione  della kantiana “unificazione civile dell’umanità” (Bauman) e la costruzione di una “nuova internazionale politica” (Žižek).

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