Scrivere è sicuramente esporsi, ma anche la lettura non è un’operazione passiva e gratuita, ha le sue implicazioni. Aprendo un libro ci si dichiara disponibili all’intimità non solo con la parola scritta, ma anche con chi l’ha scritta. Si corre il rischio di un’eccessiva prossimità, di venire a sapere troppo di lui.
Nel contempo si entra in una sfera di complicità che può far perdere l’orientamento, fin a farti dubitare della paternità delle parole distese sulla pagina: le si sta leggendo o le si è scritte in un’altra vita?
Non che possa venire il dubbio di aver scritto in prima persona quella storia nel suo insieme, ma quella frase o forse solo quelle due parole in quella successione perfetta, proprio quella, sarebbero potute uscire dalla penna del lettore stesso. O forse questo è quello che nell’intimo si sta desiderando: avere messo al mondo quell’equilibrio.
A volte, certi passaggi, non per forza nei nodi cruciali della storia, anche solo alla periferia del racconto o in parole che per altri potrebbero risultare marginali, istituiscono per quel lettore una magica aderenza a quello scrittore. Inspiegabile ma perfetta. E il lettore e lo scrittore, da quel momento in poi, non sono più gli stessi, singolarmente e insieme. Soprattutto insieme. Non si sta più insieme allo stesso modo dopo certi libri. Magari alla superficie la metamorfosi non è evidente e il ritmo delle onde appare immutato. Ma i due, il lettore e lo scrittore, lo sanno. Non si guardano più allo stesso modo, non si percepiscono più come prima, pur nell’incompleto conoscersi. Qualcosa è cambiato ed è qualcosa che conta anche se non si vede. Come è noto, non tutto ciò che conta risulta visibile, anzi.
A volte si è traditi dalla semplice inflessione della voce, altre da uno sguardo più sfuggente, come intimoriti dall’aver così tanto condiviso. Forse è il pudore che induce a ritrarsi. Un anglosassone passo indietro per non urtare sensibilità, per non sembrare invadenti, come a garantire di aver solo buttato uno sguardo nell’animo dell’altro, non di più.
Come se per errore si fosse entrati in bagno mentre l’autore faceva pipì, ci si ritrae fingendo di non aver visto nulla. Ma, paradossalmente, non è il segreto dello scrittore che crea l’impasse, è quello del lettore che lo scrittore ha messo a nudo. Non è chi legge che varca la soglia del bagno altrui, è lo scrittore che, incautamente, entra nel bagno di chi legge. E l’imbarazzo sta proprio nel sentirsi scoperti, nel veder squadernata la propria intimità, quando si credeva che di sé fosse visibile giusto il naso.
Forse è che i segreti si assomigliano, così come la vita di tutti. E’ che le angosce non sono poi così originali e ci si può autenticamente chiedere se siamo noi che osserviamo o se in realtà, in alcune pagine, siamo stati osservati. Qualcuno impunemente ha frugato nell’animo nostro.
Certo è che leggendo certi libri, dopo ma anche durante, si comincia a vederci meglio. E non si vedono bene tanto i segreti, ma tutto l’insieme, pur in quella confusione del guardare e dell’essere guardati che forse è ciò che ti consente di vedere. Anzi è proprio quando si cammina incerti, incespicando, quando non si rifugge l’ambiguo confondersi e si accarezzano gli indefinibili confini della nebbia, che si generano meraviglie.
Si legge e si scrive senza soluzione di continuità. Non si riesce a scrivere se non si impara a leggere. Non si può leggere se non si accetta il rischio che la scrittura propone, se non ci si apre alla parola.
Si scrive e si legge non sempre in successione. A volte si scrive mentre si leggono le parole significative di altri, come raccogliendo una gugliata di filo per terra e srotolando una matassa di lana. A volte si leggono nelle parole di altri i propri pensieri, altre volte si scrivono le emozioni di altri, percepite sulla pelle quasi per caso, assorbite in conversazioni o in semplici sguardi.
E in questo gioco di nascondimenti e di svelamenti, si aprono la porta del bagno di chi legge e di chi scrive e si continua a leggere e a scrivere per restare in vita.
Diari
Con le parole degli altri: diari di lettura che, attraverso la riproposizione di passaggi tratti da opere narrative e saggistiche di autori diversi, suggeriscono riflessioni su temi nodali e questioni che ci interrogano. Leggi di più
Maria Zambrano: perché si scrive
Non per imparare a scrivere, ma per capire perché si scrive conviene leggere quello che chi si dedica a questa pratica ha detto della propria attività. Non sempre però, o raramente anzi, si trovano spunti illuminanti nei testi che programmaticamente si propongono di rispondere alle domande decisive: perché e per chi si scrive? da dove nasce il desiderio di scrivere e il piacere di farlo?
Il più delle volte è in passaggi brevi, di fatto o apparentemente incidentali – in racconti, romanzi, saggi che parlano d’altro – che si trovano spunti interessanti.
Ci sono però eccezioni. Come lo scritto di María Zambrano del quale si propongono qui alcuni passaggi essenziali (il testo integrale si può leggere in María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Milano, Cortina, 1996).
Se lo scopo di questa sezione del nostro sito è quello di raccogliere, oltre che riflessioni e resoconti, anche citazioni più o meno corpose attinenti all’esperienza dello scrivere, iniziare con la rilettura delle risposte della Zambrano alla questione che lei stessa pone, perché si scrive, può essere un buon inizio.
(secondorizzonte/c.s.)
MARÍA ZAMBRANO
Perché si scrive
Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento effettivo, ma comunicabile, nel quale, proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta di rapporti tra esse.
E’ una solitudine, però, che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno cioè di giustificazione. Lo scrittore difende la sua solitudine, rivelando ciò che trova in essa e in essa soltanto.
Se esiste un parlare, perché scrivere? Ma l’espressione immediata, quella che sgorga dalla nostra spontaneità, è qualcosa di cui non ci assumiamo interamente la responsabilità, perché non emana dalla totalità integrale della nostra persona; è una reazione sempre dettata dall’urgenza e dalla sollecitazione. Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. Ma la parola non ci pone al riparo, né pertanto ci crea, anzi, il suo uso eccessivo produce sempre una disgregazione; per mezzo della parola vinciamo il momento e subito dopo siamo vinti da esso, dalla successione di momenti che superano il nostro assalto senza lasciarci rispondere. È una continua vittoria, che alla fine si trasforma in sconfitta. Leggi tutto