Il tempo del lago

“Credevo di aver trovato finalmente un posto per vivere”. Tornato dopo molti anni nel luogo dove era nato e aveva vissuto fino alla prima giovinezza, Remo trova altro: l’occasione ineludibile di fare un bilancio del proprio lavoro di fotografo che si allarga a una riconsiderazione della propria vita, dei desideri e degli amori che l’hanno attraversata.
L’approdo è una consapevolezza nuova: “È il posto per guardare questo che ho ritrovato. Il posto dove sto imparando a guardare. Da solo. Senza sentire come una condizione indispensabile che ci sia qualcuno, vicino a me, a condividere il mio sguardo”.
E sono il lago, il suo ambiente, il suo paesaggio il tramite di questo cambiamento, vissuto in tempi nei quali la fatica di vivere è gravata da un inedito, pervasivo senso di insicurezza: “Imparare a guardare non chiede maestri né compagni. Significa arrivare a sentire che il lago, il monte, il cielo, le piante, gli uccelli che guardi non sono lì per te, a lasciarsi osservare come se tu ne fossi fuori, non ne fossi parte. Imparare a guardare signifi ca arrivare a non vedere altro che un mutamento sempre in corso. Di tutto. Anche di sé stessi. Anche di questo lago”.

Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:

Mi sembra di non averlo mai visto tanto vicino, il monte dall’altra parte del lago: a seconda dell’ora, della luce, del vento che spira sulle acque, sembra allontanarsi, perdersi in una massa indistinta, quasi del tutto uniforme nei colori, chiuso in sé stesso, o venire a farsi vedere invece, come un animale in cerca di attenzione. I crepacci che per un buon trat­to lo tagliano dall’alto fino a mezza costa sembra­no rughe profonde, come quelle scavate dal sole e dall’aria nella nuca dei contadini. La cresta, con le sue cime, è nascosta nelle nuvole. Le case dei paesi a lago, nitide, lucenti, sembrerebbe di poterle contare una ad una.
Ha piovuto tutto il giorno. Solo adesso, alla fine del pomeriggio, prima di tramontare dietro i monti della nostra sponda il sole ha illuminato il lago, che però è rimasto di un colore fra il blu e il grigio, riflesso dei nuvoloni densi, foschi, che pesano bassi sulle acque ma lasciano vedere il verde brillante del­le pendici del Baldo.
Sul balcone sono rimato solo io. I pochi ospiti che non hanno ancora lasciato l’albergo già a me­tà settembre, sono andati a cena in uno dei paesi vicini o, quelli che s’accontentano dello spuntino freddo che di questi tempi è tutto ciò che l’albergo offre, si sono rifugiati nelle loro camere al primo rinfrescare dell’aria.
Non una vela, né motoscafi. Il lago è vuoto.
È acqua, monte, nuvole, brezza che ondula le acque, fremito degli ulivi e dei lecci qui sotto.
Smetto di scrivere.
Guardo.


Eravamo in viaggio da poco più di sei ore quan­do, appena fuori dalla galleria sopra Salò, il lago è apparso. Lucerna, Bellinzona, Como: le soste che avevo messo in conto, arrivato il momento, aveva­no perso ogni richiamo.
Poi Salò, Gardone, Villa: dove ci fermiamo? hai prenotato un posto dove dormire? mi ha chiesto quando erano ormai le sei del pomeriggio. Non le ho risposto, solo un cenno di rassicurazione: quan­do abbiano parcheggiato la macchina nel piccolo spiazzo del Miralago ha pensato che mi fossi ferma­to per guardare il panorama spettacolare che si gode da quel punto, e poi proseguire per uno dei paesi di cui le avevo fatto il nome.
L’ho guidata attraverso la sala fino al balcone, l’ho fatta sedere all’ultimo tavolino, quello da cui si vedono il lago e il Baldo come dalla prua di un battello, e in quello stesso momento Piero ci ha portato due bicchieri di vino bianco: benvenuti, vi aspettavamo. Sono il fratello di Remo, piacere…
Aurélie mi ha guardato, ha riso, ha alzato il bic­chiere ma poi l’ha rimesso giù e ha abbracciato Pie­ro, che ho visto arrossire, commosso.
Un volo di anitre, a fior d’acqua, mi ha fatto di­stogliere lo sguardo. Le ho seguite per un lungo trat­to finché sono sparite alla vista mentre distinguevo, lontano, le sagome dei due traghetti che nel loro andare e venire fra Maderno e Torri si incontrano a mezza strada e visti da qui sembrano sfiorarsi, come a scambiarsi un saluto, ogni volta.
Il lago era lì.
Era sempre stato lì.


È steso a terra, il muso poggiato su una zampa, e guarda, di sotto in su, qualcuno che lo sta foto­grafando.
Monte, il cane dei nonni, sussurro, come lo di­cessi solo per me quel nome che chissà quante volte avevo chiamato e che da più di cinquant’anni non pronunciavo. Monte. Il cane che aveva accompa­gnato gli anni della mia prima infanzia.
Era il cane dei nonni, il mio cane quando non avevo ancora sei anni: ricordo persino il giorno in cui la signora che aveva affittato delle stanze in una casa vicina, una villeggiante, gli aveva fatto questa fotografia. Poi ce l’aveva mandata evidentemente, ma questo no, non lo ricordavo.
Piero dice qualcos’altro ad Aurélie, ma io non li ascolto: resto a guardare Monte. I suoi occhi.
Non ho mai fotografato animali, se non lontani, immersi nel paesaggio. Non ho mai fotografato il loro sguardo. Mi è sempre risultato insostenibile. Una vicinanza e insieme una distanza che evocano la morte. Un nodo di fratellanza ed estraneità che non ho mai saputo sciogliere. E adesso stavo sotto lo sguardo di questo cane cercando di non fuggire il dolore che mi suscitava, un dolore che sentivo di non poter addomesticare, di non poter in nessun modo aggirare, perché non c’è rimedio all’ingiusti­zia scandalosa della morte di esseri come Monte. Innocenti, mi è venuto da pensare, per via della lo­ro onestà, della loro coerenza, della loro adesione al presente, alla realtà. Le altre fotografie che avevamo visto, tutte immagini di persone morte, per quanto care non avevano generato in me un senso altret­tanto tagliente del non più. Perché?


Ho pensato che di una persona, la fotografia dà un’immagine che subito leggiamo come parziale, casuale, per sua natura contraddetta, o comunque messa in questione, dal prima e dal dopo del mo­mento in cui la foto è stata scattata; di un animale offre invece un’immagine totale, del tutto aderente al chi era. Definitiva.
Mi sono tornate alla mente le parole di un auto­re che della fotografia ha detto cose indimenticabili: che cosa c’era prima della fotografia? si chiedeva, e la risposta era sorprendente: la memoria. Ecco, mi sono trovato a pensare davanti alla fotografia di Monte: forse la memoria è il modo umano di fare i conti con il non più. La fotografia ne offre uno diverso – da tempo, ma ancora perturbante – e sotto questo profilo è, nella sua essenza, violenta. Capace di ridare, in un’immagine come quella che avevo davanti, il senso bruciante di perdita che in ciascuno torna di quando in quando, come non ne aspettasse che l’occasione, a risvegliarsi. Non più, mai più: una cosa è pensare in astratto a questo vuoto lancinante e irreversibile, da filosofi, un’altra esserne attraversati alla luce dello sguardo vivente di un essere singolare, che la fotografia ci restituisce all’improvviso.
Di un essere del quale mi erano di colpo torna­te presenti le movenze, la voce, il modo di stare al mondo, e sentivo dunque, nella carne, l’irripetibi­lità.


Ora saprei dirlo, solo ora saprei dare forma alla domanda che io stesso mi ero fatto su quelle mie fotografie del lago che avevo scattato su commissio­ne, per lavoro: non c’era solo l’intento di destare la meraviglia di un altrove che sfuggisse ai cliché della carta patinata, che desse l’emozione dell’ecceziona­lità, dell’unicità del paesaggio dell’alto lago. Questo era quello che mi dicevo allora, ma c’era altro, l’ave­vo capito col tempo. Volevano essere, quelle, anche foto ricordo, foto che conservavano in sé il calore della memoria, di una memoria che non era solo la mia, quella sopravvissuta al mio abbandono del lago, ma era la memoria che non può non apparte­nere ad ogni fotografia di paesaggio. Ad ogni foto­grafia, anzi: l’immagine di un luogo non è diversa in questo da quella di un volto, o di una cosa. Ci deve essere del tempo in una fotografia. Lo si deve sentire, lo deve comunicare il sentimento del tempo.
Non si tratta di cercare espedienti per farlo ri­sultare evidente, come in quella foto famosa di una vecchia che guarda nell’obiettivo e tiene fra le mani, mostrandola bene, un’altra fotografia di lei quand’era ragazza. No, è negli occhi velati, nella pelle avvizzita di quella stessa donna, nelle sue mani deformate dall’artrite, nel modo di stare, insaccata sulla sedia, davanti alla macchina fotografica che sta il tempo.
Il tempo c’è, in quel che si sta fotografando: si tratta di farlo venire alla luce, di renderlo percepi­bile, protagonista.
La memoria del lago: forse il titolo di quel libro non significava solo che le immagini raccolte custo­divano il passato dei luoghi. Forse voleva dire che i luoghi hanno una propria memoria, e quelle foto­grafie avevano cercato di rappresentarla.
Ha ancora una memoria il lago? sopravvive la sua memoria ai milioni di fotografie che non la vedono, non la cercano, la ignorano senza averne il minimo sentore? La memoria dei luoghi è una relazione, fra i luoghi stessi e chi li guarda. E non diversamente il ritratto. E allora, anche qui: resiste la verità di una persona, la verità che sta in quel che è, in quel che è diventata, in fotografie come quelle che i turisti si scattano reciprocamente sullo sfondo del lago, o è proprio il sorriso che ci si mette in faccia quando si è fotografati a cancellare ogni sto­ria, non solo il passato che si è vissuto ma anche il futuro che ci si attende, e quell’altro che ci aspetta, che aspetta tutti?
Non si sorrideva una volta, nelle fotografie, e se lo si faceva era perché l’occasione lo chiedeva: una festa, una gita, un anniversario… Se no non lo si faceva.


Guardo accendersi i paesi dell’altra sponda, e ma­no a mano confondersi uno con l’altro: lo facevamo, Aurélie ed io. Lo faccio ancora, quasi ogni sera: pen­sare che questo avveniva anche prima che noi due stessimo a guardarlo, e continuerà ad avvenire dopo, quando neanch’io sarò più qui, attenua lo strappo che sento ancora nell’esserci da solo, mi fa apparire piccolo l’intervallo che separa il tempo in cui i nostri occhi guardavano insieme da questo in cui i miei non hanno compagni.
Il Baldo si spegne per ultimo, ma intanto si è via via allontanato, come se si lasciasse sprofondare nel ri­cordo di quel che era solo un paio d’ore fa, e non atte­nua il senso di commiato, che avverto in questo lento cambiamento del volto del grande monte, un pensiero che non sa in questi momenti farsi certezza: che do­mani tornerà a risplendere maestoso, imperturbabile. Sempre sono stato portato a vedere più le fini degli ini­zi, ma è soprattutto in momenti simili che si ripresenta questa mia inclinazione.
Al di sopra della linea di luci che segnano la strada a lago, oltre i grappoli di quelle dei paesi che risalgo­no di poco le pendici del monte, se ne vedono poche, isolate: è un monte disabitato, il Baldo. Non ha gli altipiani e i paesi in quota della nostra sponda. Ci sono case abbandonate, là, addirittura un intero borgo disabitato – mio fratello me ne ha detto il nome, che non ricordo più.
Resta visibile nel crepuscolo, più in alto, un casale bianco, là dove termina il bosco e iniziano i pascoli: il malgaro che ci abita nella bella stagione scenderà solo a ottobre. E più in alto ancora, lungo il crinale, solo col buio si vede la luce di quello dei tre rifugi del Baldo – il primo appena sotto la cima più alta, gli altri due vicini, più sotto – che, ho sentito, resta aperto tutto l’anno.
Non so staccare gli occhi dalla massa scura del monte: mi appare più antico del lago, anche se solo la notte in grado di far valere questa sua superiorità severa, paziente, risolta in sé stessa.
Un’altra luce si è accesa a poca distanza dal casale bianco. Un’altra malga probabilmente. Immagino i due uomini che vivono lassù, coi loro animali, soli, non incontrarsi mai quando sono là e poi, l’inverno, bere allo stesso tavolo d’osteria.
La prima stella brilla sopra Torri. Non è una stella, probabilmente: è Venere, credo.
Proprio dritto sopra la luce della malga è ora ap­parso un chiarore, simile a quello che si vede all’alba, appena di là dal monte: sta sorgendo la luna. Dal mo­mento in cui ne spunta un sottile arco luminoso, la si può seguire e vederne il cammino. Pochi attimi ed è fuori, staccata dal monte, libera. E allora sembra fer­marsi, adeguandosi all’immobilità solenne di quello che le sta attorno, come il ritardatario che entra in chiesa a messa già iniziata.
Il lago, che s’era fatto buio – abbandonato da ogni colore, più che nero – è attraversato da una striscia ri­splendente che fa rivivere le acque illividite: la strada di luce le fa palpitare, fremere in una brezza che non c’è.


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Recensioni

Dal Giornale di Brescia del 16 marzo 2021.
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Da Bresciaoggi dell’8 aprile 2021.
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Dal Corriere della Sera Brescia del 16 aprile 2021.
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Dall’Eco di Bergamo del 28 giugno 2021.
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Da Brescia si legge, 12 marzo 2022.
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“Il tempo del lago”: il Garda come approdo dell’anima e palestra dello sguardo, nel romanzo di Carlo Simoni

di Francesca Scotti

Talvolta è necessario andarsene per poter un giorno ritornare e, ritornando, trovare veramente se stessi. Proprio come accade all’anziano fotografo Remo, quando si decide a ritornare nel luogo che gli ha dato i natali e in cui ha vissuto sino alla prima giovinezza: il lago di Garda. Questo ritorno sarà infatti il pretesto per ricucire il rapporto a lungo interrotto con un luogo che si rende conto di non aver mai guardato con occhi attenti, in un dialogo con il paesaggio che diventa dialogo con il proprio io e che permette di esplorare nuovi orizzonti di pensiero.

Le riflessioni di Remo e il suo rapporto con il Garda sono i veri protagonisti del libro “Il tempo del lago” (LiberEdizioni 2021 – acquista qui), nuovo romanzo dello scrittore bresciano Carlo Simoni. Un libro raffinato, poetico e disincantato, le cui pagine non promettono una lettura divagante, bensì un’immersione totale nelle rapide di pensieri, ricordi e prese di coscienza del protagonista. Un romanzo profondo, che apre la mente e che disvela ai lettori nuovi significati dei verbi “guardare” e “fotografare”.

Sullo sfondo e tutt’attorno, un Garda non descritto nelle sue principali attrattive, nei suoi scorci più celebri e nei suoi angoli più frequentati e turistici, bensì nella sua anima di elemento naturale e di luogo geografico che ha la pazienza e il silenzio eloquente di una persona rimasta ad aspettarci. Non il Garda delle brochure e dei siti web di vacanze, quindi, ma il Garda tridimensionale di chi lo vive, di chi ci è stato e di chi vorrà esserci. Perché, nel suo eterno mutare a ogni refolo di vento e raggio d’alba, il lago è anche un custode del tempo: di un tempo che è memoria del paesaggio, ma anche dell’esistenza di tutti coloro che vi si sono specchiati.

Tutto inizia con un ritorno

Di un guardare determinato si trattava in questo caso: del guardare il lago. Questo lago. […] Questo era il passaggio essenziale che in qualche modo, non sapevo ancora quale, sentivo coinvolgere anche me. Seguire questo filo mi ha portato a riflettere sul fatto che se mio padre non aveva opposto divieti o minacce alla mia decisione di mollare la scuola e andarmene a Milano, non era stato solo perché ben altro lo preoccupava in quel momento, ma anche perché aveva riconosciuto in me l’aspirazione a rompere con la propria condizione, l’energia necessaria per vedere le cose da un diverso punto di vista, la determinazione a cercare altrove di realizzare quello che non importa se confusamente si desidera. Un altrove che lui non aveva avuto bisogno di cercare lontano; che per me era essenziale fosse distante. Dal lago.

Carlo Simoni, “Il tempo del lago”, p. 55

Il sessantenne Remo ritorna dopo anni sul lago di Garda, il luogo natale che ha abbandonato per Milano nella prima giovinezza. A incontrarlo ci sono il fratello Piero e la sorella Amelia, figli del secondo matrimonio del padre ormai defunto e gestori dell’albergo Miralago. Lo accompagna Aurélie, una gallerista d’arte di trent’anni più giovane che ha conosciuto grazie al suo lavoro di fotografo.

Ciò che si propone inizialmente come una tranquilla vacanza all’insegna di tuffi, scatti fotografici e rispolverate di ricordi familiari, si rivela tuttavia molto di più. Ben presto, infatti, Remo si ritrova a fare un bilancio della propria vita, della propria professione di fotografo e dei propri affetti. In un’età dell’esistenza in cui anche gli ultimi amori si dileguano, il lago di Garda diviene per lui non solo l’antico luogo di casa o un qualunque posto a cui non si riserva che un effimero ritorno, ma un autentico approdo dell’anima.

E sarà proprio il Garda, insieme ai paesi della riviera e dell’alto lago in cui hanno vissuto i genitori e i nonni, a insegnargli tutto quanto credeva di sapere già, senza averlo mai realmente afferrato, riguardo al guardare e al fotografare. Ciò lo porterà ad acquisire una nuova concezione di se stesso, che solo i posti che l’hanno visto crescere e che l’hanno lasciato libero di andarsene si dimostreranno capaci di dischiudergli.

Guardare in profondità e fotografare la memoria

Guardare il lago non è solo vederlo, per quel che è oggi, per quel che oggi è diventato. È immaginare anche quello che forse sarà.

[…] Torno allora a guardare. Senza cercare niente. Aspettando se mai. Aspettando il momento che mi lasci intravedere lo scorrere del grande fiume nel lago che ogni giorno mi sembra di ritrovare uguale davanti a me. Aspetto, come avessi il ricordo di aver potuto vedere, anche se per poco, quello scorrere e quello stare come fossero una condizione dell’altro. Al punto, anzi, di non poter distinguere l’uno dall’altro.

Carlo Simoni, “Il tempo del lago”, p. 120

In un’era nella quale scattare fotografie con il proprio cellulare è ormai un rito compulsivo e quasi una convenzione sociale, tendiamo a immortalare ciò che già vediamo in brochure e dépliant, ciò che ammicca dalle locandine delle agenzie di viaggio e che troviamo, a portata di click, sui siti web turistici o anche solo scorrendo gli archivi di Google. Fotografiamo per poter dimostrare che ci siamo stati, che abbiamo visto una tale attrazione dal vivo, che eravamo in un dato posto in un dato momento e con determinate persone.

Che ne è allora del guardare? È ridotto a una pura ammirazione subito mozzata da uno scatto necessario, senza il quale ci sembrerebbe di non aver vissuto nulla, perché nessuno sa che siamo stati in un dato luogo e pertanto, se nessuno sa, nell’era dei social media è come se non fosse mai accaduto?

È proprio sul senso del guardare e del fotografare che si interroga Remo, mentre rivisita posti che, racchiusi nella cornice del lago di Garda, lo spronano a un tenace confronto con se stesso, oltre che con la memoria della sua famiglia e dei luoghi che essa ha abitato e abita. Guardare non è vedere, né posare gli occhi con superficialità, ma nemmeno è fermarsi all’aspetto presente delle cose: guardare è voler abbracciare ciò che si guarda nella sua totalità, nel suo passato e presente, immaginando al contempo ciò che sarà in futuro.

Perciò, anche quando si scatta una fotografia, come se volessimo fermare il tempo e intrappolare il soggetto nel suo stato presente, dovremmo scattarla in modo tale da instillare in chi guarda il desiderio di considerare tale soggetto da tutti i punti di vista. Così, anche un lago cessa di essere unicamente un lago, ma diviene, come tutte le cose, un’entità che dispone di una propria memoria, arricchita dai ricordi di tutti quelli che vi hanno vissuto e che ancora ci vivono.

Ed ecco allora l’invito del breve ma fortemente intenso romanzo di Simoni: quello di oltrepassare i confini del mero vedere e di imparare a guardare veramente ciò in cui siamo immersi. È l’inizio di un lungo cammino per imparare a guardare, senza remore e con assoluta sincerità, dentro noi stessi, riallacciando i rapporti con il passato, perdonando il presente e capendo che il futuro dipende da ogni prezioso attimo dell’oggi.

“Scrivere è una solitudine finalmente abitata”

Carlo Simoni è nato a Brescia nel 1949. Storico della cultura materiale, è autore sia di narrativa che di saggistica. Ha pubblicato, fra i tanti altri, romanzi che ricostruiscono figure e paesaggi del lavoro fra Settecento e Ottocento – “L’orizzonte del lago”, “I tempi del mondo”, “Il segreto dell’arte” (Cierre Edizioni, 2010 e 2012) – e che spesso incrociano le vicende di scrittori e artisti – da Goethe e Klimt (“L’ombra dei grandi”, LiberEdizioni, 2006) a Thomas Mann (“L’incompleto conoscersi”, LiberEdizioni, 2016) – restituendone aspetti inediti e offrendo pregnanti e attuali spunti di riflessione.

Con Castelvecchi Editore, ha dato alle stampe due romanzi di particolare interesse: “Il miserabile” (2018), in cui compare Walter Benjamin, e “Quei monti azzurri” (2019), incentrato sulla figura di Giacomo Leopardi.

Il lago di Garda, la sua riviera e i suoi comuni sono per Simoni luoghi dell’anima a cui torna ripetutamente in cerca di un ritiro benefico che non è mai fuga, ma ricettacolo di riflessioni profonde che fa confluire con eleganza ed esattezza nelle sue opere.

È di sua penna una splendida e illuminante definizione dello scrivere: “Occorre lasciare la città per scrivere, non allontanarsene tanto da non veder vivere gli altri. Scrivere è una solitudine finalmente abitata. La casa dove non inviti nessuno ma a nessuno vieti d’entrare. L’isola che un istmo lega alla costa.”

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