Quattro idee per curare il dolore della perdita

Silvia Stucchi, Farsi coraggio. Forme della consolazione nel mondo antico, Marietti 1820, 2020 (e-book)

“Incuriosire, distendere e, forse, anche far riflettere”: nell’intento dichiarato a conclusione del saggio di prefazione a “questo percorso nella saggezza e nella sensibilità antiche” è facile cogliere il nesso fra la proposta di Silvia Stucchi e gli studi di Pierre Hadot e di Michel Foucault, da punti di vista diversi – e che hanno conosciuto momenti di confronto esplicito – convinti del permanere di un significato attuale di pensatori stoici, epicurei, platonici e neoplatonici. Anche se non di autori greci, ma latini, sono le parole che leggiamo in questo libro (Cicerone, Seneca, Plinio il Giovane, ma anche autori “all’apparenza imprevisti” come Petronio), un po’ come avviene in quelli di Ivano Dionigi (da Quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio, Seneca e noi al recente Parole che allungano la vita). È tuttavia su un tema preciso che l’analisi di Stucchi si concentra, o per dir meglio: su un “genere letterario codificato, che si avvaleva di argomentazioni ricorrenti”. La precisazione non è superflua se si tiene conto dei malintesi che non tener conto di una circostanza simile può indurre: è il caso dei pensieri di Marco Aurelio – avvertiva Hadot –, spesso letti come una sorta di diario intimo e non per quel che sono, “parti del sistema stoico, che Marco Aurelio ripete a se stesso”.

Ciò detto, è il tema a imporsi per l’attualità perdurante e, possiamo dire, purtroppo rinverdita dagli effetti devastanti della pandemia in corso che sembra aver reso meno distanti i tempi nei quali si praticava il genere della “consolazione”. Un genere alimentato dalle “argomentazioni che il mondo classico seppe elaborare per consolare chi, provato da un dolore bruciante come quello della perdita di una persona cara, si interroga sul perché, spesso senza riuscire a darsi risposta”. Argomentazioni che erano sostanzialmente fissate già in Omero e poi in Erodoto e soprattutto nei tragici e si possono ricondurre a “quattro concetti chiave”, che vale la pena di considerare in dettaglio: la morte e la perdita di una persona amata sono esperienze, per quanto dolorosissime, non peculiarmente riservate a un solo uomo, ma toccano l’intera umanità”, e – come ci ricordano Ovidio, Orazio e Lucrezio – tutti devono morire, anche i più nobili e insigni tra gli uomini; “morire, in fondo, è un bene, perché ci libera dai mali; meglio morire piuttosto che soffrire, giorno dopo giorno, pene indicibili”, posizione che sottintende con evidenza una visione radicalmente pessimistica della condizione umana; “alla lunga il tempo è il medico migliore, perché cancella, o almeno lenisce, tutti i mali”, e infine: “chi è morto, paradossalmente, è al riparo da ogni dolore; se ha perso il bene della luce del sole, ha perso, però, anche la possibilità di ammalarsi, di piangere, di patire, di essere infelice”.

È inevitabile notare che, con poche variazioni, sono gli stessi argomenti che ancora oggi si possono sentire quando si fa visita a una casa dove il defunto attende le esequie, o ci si trova in un obitorio o in un “Luogo del Commiato” (come le Funeral Homes sono state ribattezzate da noi), o si partecipa a un funerale. Ma che cosa, tuttavia, ci distanzia da queste considerazioni consolatorie? Forse la consapevolezza che chi si piange non è altro da noi e più che ricevere consolazione si tratta di imboccare la via dell’elaborazione, l’elaborazione del lutto, con tutte le resistenze che insorgono, le ambivalenze che affiorano nelle forme del rimpianto o del rimorso, le lacerazioni inevitabili che andare avanti comporta, nella sottile consapevolezza – come osservava Benedetto Croce – che “con la nostra vita ulteriore, seppelliamo per la seconda volta spiritualmente i nostri morti, che già una prima volta coprimmo di terra”.

Del resto, “affliggersi in un dolor supervacuus” oltre che, appunto, inutile – avvertiva Plutarco –, è anche sconveniente, illogico, poco decoroso: un’osservazione che – senza voler ignorare differenze sostanziali di epoche e di culture – non può in qualche modo non richiamare alla mente posizioni molto attuali. Si pensi al Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali nella sua ultima edizione (DSM-5), là dove include fra i disturbi mentali da sottoporre a cura quello “da lutto persistente e complicato”: un lutto che dura oltre i dodici mesi non è un lutto “normale”. È un lutto “patologico”.

Ma si sa: i classici – proprio in quanto classici – continuano ad aver qualcosa da dirci e, secondo gli auspici dell’autrice, ci fanno riflettere: come non collegare allora l’“inedita tematica consolatoria” di Seneca (che cos’è la disperazione di fronte alla morte rispetto al “pensiero della fine del mondo”?) all’angoscia sottotraccia determinata dalla crisi ecologica? E la preoccupazione eccessiva per la sorte del proprio corpo – contro la quale si scagliava Diogene il Cinico – non richiama alla mente il ricorso crescente alla pratica della cremazione, o addirittura – anche sulla scorta dell’ultimo libro di Marc Augé, Risuscitato!) a quella della criogenizzazione?

In conclusione, richiamando il titolo di questo libro e la conclusione della sua premessa, è bene comunque rileggere le parole di un lettore profondo e geniale degli antichi come Giacomo Leopardi, che in una delle sue Operette Morali, il Dialogo di Plotino e di Porfirio richiamava il valore di un incoraggiamento solidale: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. […] e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Sacralizzare la natura

Serge Latouche, Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro, Bollati Boringhieri 2020 (pp. 96, euro 10)

Interpretato riduttivamente come un programma immediatamente operativo – non senza qualche responsabilità del suo ideatore, c’è forse da dire –, o addirittura caricaturizzato in chiave regressiva o pauperista, il progetto di una “decrescita felice” di Latouche e dei suoi seguaci, gli “obiettori di crescita”, viene ancora una volta esposto dal caposcuola che, soprattutto in questa occasione, mette in particolare rilievo il carattere etico-politico del suo discorso. A partire dalla critica, serrata e brillante, del capitalismo come religione (per riprendere il titolo di un saggio che Walter Benjamin scrisse nel 1921), una “religione” che di fatto costituisce l’orizzonte dell’immaginario contemporaneo formatosi a partire dal calvinismo e dalla successiva emancipazione dell’economia come sapere oggettivo per trovare infine nella fede nel Progresso la sua principale forza promotrice, ancora attiva nonostante le sue evidenti, spesso tragiche, smentite. Quello di una crescita continua si è così fatto dogma incontestabile, e il punto di vista economico è divenuto la lente attraverso la quale si guarda il mondo: non è sempre stato così, né è questo – per il momento, almeno – l’immaginario ovunque dominante, anche se la globalizzazione ha ormai quasi ultimato “una colonizzazione profonda dell’immaginario da parte dell’economico sostenuto da una vera e propria teologia del Progresso. Come diceva Mark Twain, “Quando si ha un martello nella testa si tende a vedere tutti i problemi in forma di chiodi”. L’aveva del resto previsto Schopenhauer quando rivolgendosi ai suoi contemporanei affermava che “Il Progresso [la crescita, nella sua attuale versione economicista] è il sogno del XIX secolo come la resurrezione dei morti era quello del X, ogni età ha il suo”. La nostra è dunque quella in cui “Riducendo la vita alla quantità di PIL, la vecchia opposizione progresso materiale/progresso morale scompare. Ben-essere e Ben-avere si confondono e diventano praticamente identici”. Spianando in questo modo la strada alla “banalizzazione del male, ovvero alla strumentalizzazione degli uomini e della natura senza complessi da parte dei responsabili e spesso anche con il tacito consenso delle vittime”.

Dopo la parte critica, quella propositiva, che prende le mosse da due encicliche: senza appello il giudizio sulla Caritas in veritate di Benedetto XVI, dove invano si cercherebbe una condanna senza riserve al capitalismo nelle sue diverse e distruttive manifestazioni. Infatti, “Accanto agli eccessi e alle perversioni – pur richiamate – ci sarebbe un buon profitto, una buona divisione internazionale del lavoro, una buona globalizzazione, una buona finanza e un buon capitale”. Una fiera degli ossimori, insomma.

Tutt’altro il discorso della Laudato si’ di Francesco, anche se la lettura attenta e sotto molti aspetti condivisa che Latouche ne fa, non gli impedisce di vederci, più che la inequivocabilità del progetto della decrescita (per altro richiamato nell’enciclica), una sostanziale adesione alla filosofia del piccolo è bello, e dunque, alla fin fine, un “radicalismo a responsabilità limitata”.

Tuttavia – e qui sta la maggior novità del nuovo contributo di Latouche – il progetto della decrescita non può eludere la dimensione della spiritualità. Il che pone una domanda ineludibile: la religione del capitale e il culto feticistico del PIL possono dunque essere affrontati solo da una nuova religione? e sarebbe la decrescita questa religione?

La risposta richiede di mettere in campo il concetto di “disincanto”, frutto non tanto del prevalere della scienza sul pensiero magico e sul mito – come voleva Weber – quanto della “sovrabbondanza artificiale” messa a disposizione dall’“uso massiccio di un’energia fossile fornita gratuitamente – si fa per dire – dalla natura”: la conseguenza è la distruzione di “ogni capacità di meraviglia di fronte alla bellezza del mondo, ai doni del creatore e alle capacità artigianali dell’attività umana”.

Il “reincanto” a suo tempo prodotto dalla scienza e dai suoi successi è ormai “appassito”, banalizzato nelle pratiche quotidiane e contraddetto, inquinato per meglio dire, dalle disfunzioni provocate dai progressi della tecnica. Ma tutto questo non basta a incrinare la religione della crescita. E allora? La costruzione di una società della decrescita non può comunque prescindere da “un certo reincanto del mondo”, da perseguire non attraverso nuove (o vecchie) religioni né pratiche neopagane o in stile New Age o deep ecology. Quello che il movimento della decrescita – o dell’acrescita, come sarebbe più appropriato dire – si propone di promuovere è un “ateismo economico”: “Bisogna abolire la fede nell’economia, rinunciare al culto del denaro, al rituale del consumo e diventare degli agnostici del progresso”, aggiungendo “ingredienti di natura spirituale alle argomentazioni filosofiche e scientifiche”. “La via della decrescita non si propone né come una religione né come un’antireligione, ma piuttosto come una saggezza”.

E torniamo così al punto dal quale si era partiti: il progetto della decrescita non è un piano in attesa di road map, master plan, project management, cronoprogrammi e via sproloquiando: è un “utopia concreta”, ossia l’orizzonte entro il quale costruire “un futuro ideale ma possibile”, giocare “una scommessa rischiosa, ma talmente necessaria che vale la pena di essere tentata” in un’ottica di “trascendenza immanente”, che dà senso a una nuova “sacralizzazione della natura”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un Thomas Mann mancato

Hermann Broch, I sonnambuli. I.1888 – Pasenow o il romanticismo, Einaudi 2020 (pp. 230, euro 20)

I personaggi sono cinque: tre uomini – Joachim von Pasenow, suo padre, e Eduard von Brentand – e due donne – Ruzena e Elizabeth.

L’indecisione di Joachim, giovane aristocratico prussiano, fra la povera e sensualmente equivoca Ruzena e l’irreprensibile e ricca Elisabeth, è anche indecisione fra la norma paterna e la sua trasgressione, o superamento che sia, impersonata dall’amico Eduard: tutto qui, non fosse che la dolorosa oscillazione del protagonista è quella di chi vive il passaggio fra due mondi, quello dell’“onore” e dei valori della vecchia Europa ottocentesca e l’altro che sta implacabilmente subentrando, il mondo della borghesia che irride al romanticismo d’antan, ancora capace di riconoscersi nell’uniforme, che Joachim indossa, contrapposta all’abito del borghese, cui Eduard è invece passato abbandonando la carriera militare. E così Joachim si dibatte, fra il proprio conservatorismo, che l’altro definisce “pigrizia sentimentale”, e la consapevolezza di essere un ufficiale prussiano che non disdegna di essere “l’amante segreto di una donna pagata da altri uomini”. Anche lui un “senza patria” che ha perduto il “sentimento cristiano”, in definitiva.

Mentre il decadimento mentale di suo padre avanza – riproducendo su scala individuale il tramonto dei valori che il vecchio aveva creduto di trasmettere al figlio, dopo che il primogenito era caduto in guerra, “sul campo dell’onore” –, l’amletico, e nevrotico, Joachim si deciderà infine a sposare Elizabeth, saggiamente rassegnata a non seguire il vero amore che Eduard avrebbe potuto darle: l’immagine dei due sposi, che trascorrono la prima notte di nozze distesi l’uno accanto all’altra – lui senza essersi levato l’uniforme – guardando il soffitto della camera, chiude il romanzo. O meglio: il primo, da poco ripubblicato da Adelphi, dei tre romanzi che formano l’opera, essendo che dopo 1888 – Pasenow o il romanticismo, seguiranno 1903 – Esch o l’anarchia e 1918 – Huguenau o il realismo. Una duplice ambizione, infatti, quella di Broch: raccontare il decadere dei valori nell’Europa degli anni che si concludono con la Grande guerra, da un lato, e dall’altro costruire una struttura romanzesca la cui unità non può contare né sulla continuità della vicenda né su quella dei personaggi in scena.

Un Thomas Mann mancato, se si guarda al primo obiettivo: così almeno faceva notare Vanni Santoni in una recensione illuminante (comparsa su “La lettura” dello scorso 12 aprile), sottolineando come I sonnambuli esca all’inizio degli anni Trenta, quando il pubblico che aveva accolto cinque anni prima La montagna incantata stava scomparendo sotto i colpi dell’affermazione del nazismo.

Un innovatore destinato ad aprire una nuova strada se si guarda invece alla concezione letteraria: lo sostiene – nelle “Note” riportate dall’edizione Adelphi in coda al testo – Milan Kundera, che non esita a collocare I sonnambuli fra “gli altri grandi ‘affreschi’ del Novecento”, quelli di Proust, di Musil, e di Thomas Mann, appunto. E questo proprio in forza del fatto di voler individuare il filo rosso della narrazione non nell’azione o nella biografia, ma nel permanere dell’attenzione su “uno stesso tema (quello dell’uomo di fronte al processo di disgregazione dei valori)”.

Una postilla preziosa, quella di Kundera – da integrare, se se ne avesse interesse, con la sua prefazione all’edizione della trilogia dovuta a Mimesis nel 2010 – , senza la quale l’innegabile carattere datato del romanzo potrebbe finire per oscurarne il significato per altri versi ancora attuale: “Basta esaminare la nostra stessa vita – sulla scorta di quella di Pasenow – per vedere fino a che punto (un) sistema irrazionale influenzi i nostri comportamenti, vincendo la riflessione della ragione”. Rendendo per molti versi anche noi dei sonnambuli.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Le storie degli uomini e lo sguardo degli alberi

Luca Doninelli, L’imitazione di una foglia che cade, Aboca Edizioni 2020 (pp. 110, euro 14)

“Si esce di casa e per anni si prende sempre una certa direzione, sempre la stessa. Poi un nuovo lavoro o nuove amicizie inducono nuove abitudini, lasciando nuove impronte sulla nostra vecchia pigrizia e cancellando le precedenti. Succede così che, anche quando si esce a fare due passi, non viene più nemmeno in mente di imboccar le vie di una volta, di riguadagnare le vecchie direttrici; che in realtà non sono più vecchie ma, semplicemente, non esistono più. (…) In tutto questo non ci sarebbe nulla di strano se, quando camminiamo per le vie di una città, non si camminasse anche dentro noi stessi (…). Quando cambiamo abitudini è come se si accendessero nuove luci e altre si spegnessero, lasciando intere parti di città, vie e palazzi, stanze e corridoi della nostra vita nella più completa oscurità. Ciò avviene senza che nulla venga distrutto. (…) Così le parti dimenticate rimangono, dentro quel buio, e possono rimanerci per anni, o per sempre”.

Evidenti suggestioni calviniane percorrono il racconto di Luca Doninelli, ma non sono l’unico aspetto che sembra collegare i due scrittori. Anche intrecciare costantemente allo scrivere riflessioni sullo scrivere stesso richiama Calvino: “Non appena avevo messo il punto finale, tutto quello che avevo scritto mi appariva vecchio, banale, ingenuo, sgangherato. Scrivere era come il mangiare e il bere: dopo un po’ torna la fame, torna la sete, e quello che hai mangiato ieri non serve più”. Ma questo avveniva, precisa l’autore, al tempo in cui era stato scritto il primo romanzo, rimasto manoscritto e solo dopo una ventina d’anni ritrovato: nel frattempo il protagonista ha fatto della scrittura la sua professione e la lettura di quelle sue prima pagine lo riconduce “non soltanto a un mondo che avev(a) perduto ma anche a un certo modo – non meno perduto – di stare al mondo”. Perché nel frattempo è intervenuta, quale corrispettivo della scrittura, la pubblicazione, il “libro rilegato con titolo, copertina, casa editrice, prezzo, codice a barre”: cose che “formano un argine contro il Tempo e, insieme, ne istituiscono uno nuovo, È come se le parole varcassero i confini di un nuovo paese, nel quale vige una giurisdizione completamente diversa. (…) Una volta entrate nel meccanismo della pubblicazione, le mie parole sarebbero diventate prigioniere dell’aspetto economico del lavoro, del comprare e del vendere, e avrebbero perso la capacità di stabilire un rapporto fisico e mimetico con la geografia circostante: gli angoli delle vie, per esempio, o i cancelli, l’odore dei tigli e dei gelsomini, il piacere dei passi”. Queste lunghe citazioni intendono offrire al potenziale lettore un saggio della scrittura di Doninelli: piana, apparentemente colloquiale, e pure capace di evocare una pluralità di dimensioni e trasmettere risonanze che innervano il racconto della concreta esperienza del protagonista, portato a ripercorrere la propria vita – arricchita dall’incontro con personaggi unici, come il libraio Pineaut e, tramite quello, con un inedito Roland Barthes – sull’onda dei sentimenti in lui suscitati da quel quaderno manoscritto e dalla foglia d’acero che si era conservata fra le sue pagine, una foglia “screpolata e in più punti ridotta alla sola nervatura”, capace di dargli “una sensazione di gioia e, insieme, di panico”, segno del Tempo come sanno esserlo gli alberi, testimoni silenziosi – come l’ulivo del giardino condominiale – delle storie degli uomini, e di altri segreti avvenimenti se sono cresciuti in luoghi lontani dalle città, disabitati dagli umani: “l’incontro d’amore di due pettirossi, il lamento di un alce alla vista del proprio figlio ucciso e divorato da un orso (…). Oppure semplicemente il cielo, il suo mutare (…) il fiorire dei prati a primavera, la nascita di nuove gemme, il profumo di resina”. Ed ecco, nella conclusione, riaffiorare la scrittura, il suo senso: quasi potesse assumere lo sguardo attento e comprensivo degli alberi, infatti, “In ogni vero romanzo, per quanto parli di mare, esistono non dette anche le montagne, e nella scena più cruenta vibra il velo di una tenerezza immaginata, o perduta.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Tempo perduto e tempo curvo

Francesco Guglieri, Leggere la terra e il cielo. Letteratura scientifica per non scienziati, Laterza 2020 (pp. 173, euro 17)

La passione dell’autore, ancora ragazzo, per l’origine dell’universo, i buchi neri, la relatività e la fisica quantistica: questo il punto di partenza. Il piacere di leggere tutto ciò che riguardasse l’origine dell’universo e la sua struttura, senonché “arrivava sempre un punto del libro in cui smettevo di raccapezzarmi (…) a un certo punto, immancabilmente, mi perdevo”. La curiosità da un lato, l’insufficienza dei propri strumenti dall’altro: un’esperienza nient’affatto ignota a molti, adulti compresi. Un’esperienza che non capita invece con questo libro. Perché? “Alla fine del liceo mi iscrissi a Lettere, e Shakespeare prese il posto di Hawking, il tempo perduto di Proust sostituì il tempo curvo di Einstein”. Ecco il punto: l’autore non è uno scienziato, e neanche un divulgatore, sul tipo di Gianfranco Pacchioni (L’ultimo sapiens. Viaggio al termine della nostra specie, il Mulino 2019, in queste note lo scorso 15 settembre). Guglieri è un umanista – un professore di Letterature comparate – che ci racconta dei libri che lo hanno assistito nella sua volontà di sapere. 19 capitoli, 19 libri, sempre messi a confronto però con altri libri, Hawking – per dire – con Philip K. Dick, la scienza con la letteratura, con la fantascienza in particolare. E così inizia il viaggio fra gli scogli dell’astrofisica e i misteri della biologia per giungere alla possibile “fine della terra”, fra evoluzione delle pandemie, possibilità (imminenza?) di una sesta estinzione e difficoltà, parrebbe insormontabile, a pensare la realtà del cambiamento climatico. “Dopo aver dedicato praticamente la totalità della mia vita adulta allo studio della letteratura”, e aver sperimentato “quella particolare qualità dei romanzi, il potere di sciogliere la malinconia”, è nei “libri di scienza” che l’autore scopre la stessa qualità. Le culture non sono due: basta saper viaggiare dall’una all’altra con la stessa apertura mentale, con lo stesso desiderio di sapere per rendersi conto dell’imprescindibile unità della cultura.

Risulta ben chiaro a questo punto, al lettore, come mai in esergo fosse citato un letterato alieno dalla cultura scientifica e pure ad essa sempre più interessato fino a intesserne le proprie narrazioni: “Se non tengo presente l’universo – diceva Italo Calvino – perdo il senso delle proporzioni”. Che è come dire: se non rischio ad addentrarmi in un sapere che non è il mio, quello in cui mi sono formato e nel cui ambito continuo a lavorare, mi mancheranno le coordinate per inquadrare anche la realtà di cui parlo. Se poi qualcuno, non tanto diverso da te sotto il profilo culturale, si prende la briga di raccontarti i passi che ha fatto è senz’altro il caso di seguirlo. Ossia di entrare in un libro come questo che – secondo la sintesi di chi l’ha scritto – “parla dell’inevitabile impossibilità di capire del tutto quello che sta succedendo in torno a noi, l’inevitabile tentativo di farlo, e l’imprevisto piacere che ne deriva”. Perché “occorre prendersi cura” della propria “curiosità”, ascoltando “storie e idee apparentemente lontane da noi”. E accettando conclusioni autorevoli, come quella di Steven Weinberg, pioniere della teoria del Big Bang: “Quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La sindrome del corpo sfiduciato

Domenico Starnone, Spavento, Einaudi 2020 (pp. 290, euro 12)

Meglio se hai imboccato la via della vecchiaia (o ti pare di averlo fatto), meglio ancora se sei uomo (o, se donna, moglie di un uomo del genere): nel suo ultimo romanzo Starnone – l’avevamo lasciato allo Scherzetto del 2016, in queste note il 29 gennaio dell’anno seguente – si gode il piacere di raccontare una dettagliata, spiritosa, amara fenomenologia delle percezioni e dei sentimenti di un vecchio alle prime armi – 69 anni –, capace di notare l’ansia che lo prende a guidare di notte, per esempio, e a dedurne “che cos’è la vecchiaia: mancanza di fiducia; per il timore che il corpo perda colpi, ti abitui a sottoutilizzarlo; ma il corpo sottoutilizzato si abitua a perdere i colpi: un deprimente circolo vizioso”, che dà luogo a una ben precisa sindrome: “la sindrome del corpo sfiduciato”. Che se poi diventa un corpo assediato dai sintomi (uno per tutti: sangue nelle urine) ti trascina in un viaggio del tutto nuovo, nel quale sei portato a rievocazioni e bilanci. Il pensiero della morte, per esempio. Non che prima non ci fosse, ma era altro: “da bambino morivo spesso”, quando si giocava alla guerra, beninteso; da giovane, “la morte mi pareva solo una parola suggestiva”, almeno fino a quando era arrivata la morte della madre: “Quella morte mi aveva reso da un giorno all’altro il più mortale dei viventi e per una ventina d’anni avevo vigilato sulla mia salute ossessivamente”; poi però, attorno ai 40 anni, “un matrimonio abbastanza felice, figli senza problemi gravi, notorietà, agiatezza”…: la morte aveva perso consistenza. Ma adesso? Adesso il lavoro – scrittore, di sceneggiature ma non solo – non desta più l’interesse legato a tutto ciò che si è amato: “ne vedi la banalità, la frivolezza” e, sull’onda della prospettiva di una salute ormai incerta, al protagonista pare che “la vera malattia grave (sia) proprio lo sforzo inutile, ma che avevo compiuto per tutta la vita, di dar(s)i un ordine”, sicché il male sembra venire dalla radicata “pretesa di sbrogliare il garbuglio irredimibile del vissuto”: “avrei dovuto – ecco la spina del rimpianto – vivere tutta la vita senza affannarmi, e prendermi cura del mondo ma con disincanto (…) trovando la misura giusta tra svago e paura della fine”. E qui il discorso prende nuovo respiro: è La morte di Ivan Il’ič a tornare alla mente, il grande racconto tolstoiano che non a caso poche pagine dopo entra esplicitamente nella vicenda, quando il protagonista – in ospedale per accertamenti ed esami che lo angosciano – se ne fa portare dalla moglie una copia.

Attenzione però: il protagonista, si è detto. Ma quale? E qui sta un secondo piacere che Starnone coltiva (e il lettore segue, prima con qualche perplessità, poi stando piacevolmente al gioco): quello di intrecciare fino a confonderle la vicenda del personaggio e quella dello scrittore che l’ha messo in scena, complice la precarietà che affligge anche la salute di quest’ultimo. Ma, qui, di chi sta parlando? Ci si chiede a volte passando da un capitolo all’altro: lavoro superfluo. Avanti con la lettura, basta affidarsi al gioco e partecipare del gusto dell’autore di mescolare le carte.

E siamo arrivati così al terzo livello del discorso che percorre questo romanzo, quello attinente alla scrittura: “Cercai il notes sul comodino, ma era buio per scrivere (…). Non che sentissi una qualche particolare urgenza creativa, ma mi pareva necessario continuare a fare quello che facevo di solito: didascalia per qualsiasi cosa accadesse, nel mondo e a me”. La scrittura, vecchio, sperimentato espediente: “Questo reparto in cui mi hanno ricoverato può, volendo, entrare nel racconto”, occorre “mettere a frutto ciò che mi sta capitando”: “per calmarmi, per combattere la solitudine”. Per combattere il pensiero della morte: qualcuno ha detto che non per altra ragione si racconta, si scrive… Anche se il dubbio che la cosa funzioni non è di quelli che si lascino tacitare facilmente e da risorsa la scrittura può di colpo apparire lo “stupido inganno (di) credere di avere un dentro da riversare per tutta la vita su fogli bianchi, in forma di ghirigori di nero inchiostro”.

Se prima era venuto in mente Tolstoj, adesso a risuonare è il Calvino che nelle ultime righe di Collezione di sabbia si interroga “su cosa c’è scritto in quella sabbia di parole scritte che ho messo in fila nella mia vita”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un laboratorio di cultura militante

Piergiorgio Bellocchio, Un seme di umanità. Note di letteratura, Quodlibet 2020 (pp. 263, euro 19)

Come può accadere, quando si alzano gli occhi sulla libreria di casa e si scorrono i dorsi dei volumi lentamente accumulati nel corso degli anni, la prima impressione è quella di una congerie stratificata a secondo delle epoche, o delle nazionalità degli autori o anche degli editori che hanno pubblicato quei libri. L’arte di disporre secondo un ordine i propri libri è varia, e anche il lasciarli accostati in una sequenza casuale è pur sempre una scelta. Tra tutti spiccano in ogni caso alcuni titoli, alcuni scrittori che sembrano rivelare tra loro un nesso, sia pure indefinibile. Qualcosa del genere capita all’autore di questa raccolta di Note di letteratura, in gioventù soprattutto divoratore di romanzi: fra le tante sue letture, in molti casi “caotiche”, deve prender atto che “la parzialità delle (sue) scelte non è stata del tutto casuale” ma “indica piuttosto “reali preferenze”, che hanno via via privilegiato “quegli autori e quei libri con cui sentiv(a) di avere una particolare sintonia”. La propria biblioteca come diario del proprio cammino culturale, per certi versi esistenziale, quindi. Un cammino che, nel caso di Bellocchio, ha portato a un’impostazione saggistica “sempre piuttosto didascalica”, “a me congeniale oltre che – sottolinea – doverosa”: notazione tanto più apprezzabile in tempi nei quali recensioni e schede librarie oscillano fra il prevalere esclusivo del gusto soggettivo, che di fatto non dà un’idea del contenuto del libro, e l’intento scopertamente promozionale, che puntualmente vi individua un capolavoro. Decisamente altro l’orientamento che preliminarmente Bellocchio dichiara – lui che nei suoi “Quaderni piacentini” aveva per un certo periodo tenuto una rubrica in cui segnalava i “libri da non leggere” (a costo di prendere cantonate di cui poi pentirsi, del tipo includere fra i libri da evitare Lolita di Nabokov).

Sono queste le avvertenze che leggiamo nella breve Premessa e che ci avviano alla lettura di saggi capaci di delineare in pochi tratti il personaggio in questione: Giacomo Casanova, ad esempio, si riassume nella figura di un uomo il cui “talento teatrale” fu “esercitato nella vita anziché sulle scene”, a ciò portato, forse, anche dalla sua “origine bastarda” e dall’”abbandono dei genitori”, circostanze che contribuirono di certo a segnare il suo “destino di sradicato”, segnato da quelle “lacune” originarie che lui per altro “non sentì mai alcun bisogno di compensare, refrattario sempre a ogni legame stabile e legittimo”. Fino a ritrovarsi vecchio, solo e povero: “Unica proprietà il suo passato”, che gli dà l’opportunità di “rivivere la sua vita scrivendola”, nelle Memorie (a lungo lette con superficialità da molti, non escluso Fellini).

Analogamente, la figura di Flaubert emerge con nettezza dal ritratto che ne traccia Bellocchio: una “dedizione assoluta alla scrittura” come “suo peculiare modo di osservare la borghese religione del lavoro”, una religione tuttavia “eretica”, segnata sempre da un “odio del borghese” che non si trova neanche nella “coeva letteratura anarchica e socialista”. Diverso il modi di porsi di Dickens, tormentato dal “bisogno morboso di essere sempre a contatto con il suo pubblico”, un bisogno nel quale occorre d’altro canto riconoscere il segno del suo “rifiuto dell’integrazione”, e dunque la vicinanza ad un pubblico “affamato di libri che, dopo gli sconvolgimenti di un mondo pieno di fermenti rivoluzionari e di delusioni, cerca nel mondo fittizio dei romanzi un surrogato della realtà, una guida nel caos della vita, e un conforto per le illusioni perdute”.

E infine, per fare un altro esempio, più vicino ai giorni nostri, la breve notazione dedicata all’uomo, prima che allo scrittore, Fenoglio: una passione e una fermezza, le sue, che “richiamano il concetto di religione”, ma coerentemente rifiutano non solo il cattolicesimo ma anche “il carattere confessionale e chiesastico” del comunismo, in favore se mai di una “religione del dovere, dell’impegno, della fedeltà fino alla morte”.

In passaggi simili, ricorrenti in queste pagine, risulta evidente il carattere di una critica letteraria intesa, anche, come laboratorio di una cultura politica militante, che simpatizza naturalmente con autori come Čechov, alieno dalle “speranze in un avvenire migliore” e che dunque “non avrebbe mai approvato le teorie leniniste”, ma – con il suo Reparto n. 6 – non poteva trovare un lettore più intelligente e reattivo di Lenin”. O come Orwell, spesso travisato e mal interpretato, ma del quale non si può passare sotto silenzio l’errore decisivo ci credere “che occorresse un apparato di polizia mostruosamente esteso e perfezionato per mantenere il popolo nell’obbedienza”.

Non solo gli autori, tuttavia, vengono riletti criticamente, anche intere stagioni culturali come quella del ’68, quando “Alcuni dei più celebrati profeti del movimento, da Mao a Marcuse, furono in realtà pochissimo letti e men che meno meditati (la sinistra dei padri aveva letto molto di più, anche se in una sola direzione)”. Ma si badi – leggiamo in una nota di uno dei saggi dedicati a Böll – “bisogna affermare che il ’68 è stato un evento di eccezionale portata”, e nonostante “errori e equivoci” che l’hanno attraversato, occorre riconoscere che “Tutti i maggiori problemi che le lotte di quel periodo avevano posto all’ordine del giorno sono rimasti inevasi e anzi si sono aggravati”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un racconto epico

Sara Loffredi, Fronte di scavo, Einaudi 2020 (pp. 154, euro 17,50)

Ci sono la montagna, e il camminare in montagna, in questo romanzo, e anche il rapporto con il padre: abbastanza per avvertire, a tratti, un’assonanza con le otto montagne di Cognetti. Ma qui la montagna è l’avversario contro cui si lotta, “una lotta ad armi pari”: “Lei ci allagava, minacciando di rovinare sulle nostre teste per seppellirci tutti”, ma “sapevo che alla fine ce l’avremmo fatta”. A parlare è il protagonista, Ettore, un giovane ingegnere impegnato alla grande opera, il traforo del Monte Bianco, nel 1961. “Questa è una storia vera – avverte l’autrice nella Nota finale – e insieme non lo è”. Ci sono personaggi storici e riferimenti documentati “alle modalità di scavo e all’avanzamento dei lavori”, al pericolo dei crolli e degli allagamenti, agli incidenti e alle otto morti che l’impresa costò, ma anche figure che sono frutto dell’immaginazione e portano nella vicenda le loro storie, segnate da dolori antichi e rimorsi indelebili, o impersonano la saggezza della cultura della montagna. come nel caso del malgaro guaritore capace di curare le sofferenze del corpo e di comprendere quelle dell’anima. Ci sono l’amore, l’amicizia, la stima reciproca che solo il lavoro fatto bene, insieme, sa far nascere, ma soprattutto Lei, la montagna, perturbante prima, e poi finalmente amica: “C’era troppa neve per andare a camminare, eppure ogni sera mi allontanavo qualche centinaio di metri dal cantiere per ritrovarmi faccia a faccia con le cime, invaso dalla loro presenza. La voce della Regina Bianca aveva smesso di farmi paura”.

Il fronte di scavo evocato nel titolo non è solo la parete di roccia con la quale il lavoro dei minatori si deve misurare, è anche un’insuperabile barriera interiore, che si manifesta nel sentimento radicato di una propria sostanziale “inadeguatezza”, nelle “scorie” che si sono accumulate e continuano a ingombrare la mente. Ed è proprio su questo fronte che il protagonista – accettando di vivere in pienezza la dimensione collettiva del lavoro, quella contraddittoria di un amore impossibile, e fin l’esperienza inattesa di un rapporto paterno con un bambino che non è suo figlio – riuscirà finalmente a sciogliere quel nodo che si portava dentro: “Ero dentro un vortice e non mi facevo domande. Il sonno mi aggrediva a tratti, ero esausto ma per la prima volta in vita mia completamente presente a me stesso”.

La “storia che volevo raccontare – conclude la scrittrice – (era) quella di uno scavo nel ventre della montagna e nell’animo di Ettore”. Riservandoci, alla fine della sua Nota, una notizia illuminante che risale agli anni dell’infanzia passati in Val d’Aosta: “Mio padre ha lavorato al tunnel, negli anni Settanta: un alpinista che amava la sua montagna si è trovato a contatto con il varco che la attraversava. Quello sguardo è anche il mio.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Per non dimenticare i giorni del coronavirus

Paolo Giordano, Nel contagio, Einaudi 2020 (pp. 63, euro 10)

Massimo Tedeschi, Il grande flagello. Covid-19 a Bergamo e Brescia, Scholé – Editrice Morcelliana 2020 (pp. 328, euro 19,90)

Perché leggere oggi il piccolo libro di Giordano, perché scegliere, fra i molti nel frattempo usciti, proprio il più vecchio? Eh sì, è uscito solo quattro mesi fa, a marzo, ma era il marzo del nuovo tempo inaugurato dal contagio, e proprio qui sta una buona ragione per leggerlo, se non lo si è già fatto: perché ha preceduto la serie di instant book che ci ha inondato, rivelandosi spesso semplici aggiornamenti di libri usciti prima o che erano lì lì per uscire (e allora aggiungi “covid” nel sottotitolo e magari un ultimo improvvisato capitolo e il gioco è fatto). No, quello di Giordano registra davvero reazioni e ragionamenti in tempo reale: di fronte al primo diffondersi del virus (“Sars-Cov-2” o per brevità “Cov-2”, non “Covid-19”, che è la malattia) l’impressione è quella di una “sospensione dalla quotidianità”, di un “vuoto” che l’autore – come altri, chi c’è riuscito almeno – decide di colmare scrivendo, “per tenere a bada i presagi, e per trovare un modo migliore di pensare tutto questo”. Il che, per lui, significa occuparsi del lato matematico della faccenda, oggi come al tempo della scuola, perché “molto prima della scrittura, la matematica era il mio trucco per tenere a freno l’angoscia”. E difatti, prima che un romanziere, è un fisico, Giordano. Non un virologo o un epidemiologo o un infettivologo come quelli che abbiano ascoltato ogni giorno. Dunque il suo è un punto di vista diverso, e anche questa è una ragione per leggerlo. È lui stesso a sottolinearlo: “la matematica non è davvero la scienza dei numeri, è la scienza delle relazioni”, e “il contagio è un’infezione della nostra rete di relazioni”.

Attenzione però: quello che ci viene proposto è un discorso scientifico, con il suo apparato di concetti e il suo lessico, ma Giordano è uno scrittore, e dunque ci sa comunicare anche speranze e timori. Timori soprattutto, che purtroppo possiamo già veder confermati: “non voglio perdere ciò che l’epidemia ci sta svelando di noi stessi. Superata la paura, ogni consapevolezza volatile svanirà in un istante – succede sempre così con le malattie”. La paura: non tanto quella di ammalarsi, precisa l’autore, quanto quella “di scoprire che l’impalcatura della civiltà che conosco è un castello di carte. Ho paura dell’azzeramento, ma anche del suo contrario: che la paura passi senza lasciarsi dietro un cambiamento”.

 Facile profeta, si dirà, passando oltre. Oppure ci si potrà fermare, meditare su sentimenti e presagi tanto precoci e confrontarli con quelli venuti dopo, e che non abbiamo ancora smesso di sperimentare: “se non abbiamo anticorpi contro Cov-2, ne abbiamo contro tutto ciò che ci sconcerta. Vogliamo sempre conoscere le date di inizio e di scadenza delle cose. Siamo abituati a imporre il nostro tempo alla natura, non viceversa. Quindi esigo che il contagio finisca fra una settimana, che si torni alla normalità. Lo esigo sperandolo”.

Ma andiamo più in là: speriamo, certo, speriamo che il timore di una seconda ondata sia contraddetto dai fatti. Non dimentichiamo però che la pandemia non è (stata?) “un accidente casuale né un flagello”. Non un fatto inedito e irripetibile: “è già accaduto e accadrà ancora”. Perché “i virus sono fra i tanti profughi della distruzione ambientale (…) non sono tanto i nuovi microbi a cercarci, ma noi stanare loro. (…) Il contagio è un sintomo. L’infezione è nell’ecologia”.


Difficile, o quantomeno riduttivo, definirlo un instant book – per quanto “costruito con la tempistica del giornale quotidiano”, come l’autore stesso premette –, perché questo libro è una cronaca dettagliata e documentatissima che diventa pagina dopo pagina storia, dando corpo a un bilancio ponderato, a una riflessione coinvolgente. “È la prima accurata, documentata, ricerca sulla pandemia di questo annus horribilis e indimenticabile”, ha scritto Tino Bino nelle pagine bresciane del Corriere della Sera lo scorso 18 giugno.

E dunque, dalle intuizioni di Giordano alle constatazioni di Tedeschi su questa “vicenda tragica e corale”, al suo riuscito tentativo di “mettere ordine al fiume di notizie che ci ha investito, a volte sovrastato, spesso frastornato dalle settimane iniziali dell’epidemia e fino al 4 maggio”. Questo il periodo esaminato; lo spazio è quello che include le due provincie da subito e con più violenza colpite, Bergamo e Brescia, terreno di straordinarie manifestazioni di “tenuta e coraggio” ma anche di “errori strategici e lacune organizzative, limiti strutturali e scelte sbagliate” che “richiedono – e qui il resoconto si fa proiezione sul futuro immediato che ci attende – risposte approfondite, dettagliate, coraggiose, sempre meglio documentate”.

“Memoriale” si intitola la prima parte, che si propone – per usare le parole del Camus della Peste, citato in esergo – di “dire semplicemente quel che si impara in mezzo ai flagelli”: inutile cercar di rendere la forza con cui si propongono le situazioni richiamate; le testimonianze raccolte – a partire da quella di un medico rianimatore –; la rapida successione delle notizie (documentata anche nel Diario proposto nella terza parte) e la mole imponente dei dati messi a confronto e che non restano mai numeri ma lasciano trasparire la realtà umana cui si riferiscono, quella della “generazione bruciata” degli anziani innanzitutto; i riferimenti a una dimensione, provinciale ma non periferica, in grado – nel caso delle due città lombarde su sui ci concentra l’analisi – di offrire “al mondo il racconto di cosa può rappresentare l’epidemia in terre moderne, dinamiche, tecnologicamente attrezzate, produttivamente all’avanguardia”; le immagini incancellabili che le parole evocano, dagli sguardi muti fra malati e medici ai camion militari carichi di bare il 18 marzo a Bergamo.

L’evocazione cede tuttavia il passo alla considerazione obiettiva, in un’alternanza che avvince e non cessa di alimentare l’attenzione: “cuore del cuore produttivo d’Italia e d’Europa”, Brescia e Bergamo rivelano anche criticità nodali, la qualità dell’aria in primo luogo. Sicché gli studi sulla correlazione fra epidemia e inquinamento atmosferico” sono “molti e controversi” fin dalle prime settimane: è anche questo, il libro di Tedeschi, una mappa, cronologicamente organizzata, dei discorsi che si sono susseguiti e degli argomenti via via balzati all’ordine del giorno a nutrire speranze e timori fin dentro le nostre case, nelle parole che ci siamo scambiati giorno dopo giorno, nelle telefonate, nei messaggi. Uno strumento, quindi, per far memoria di un tempo sospeso, di una durata che sembra eccedere il suo effettivo arco temporale, che ci appare già lontana e allo stesso tempo non ha abbandonato la nostra mente, il nostro umore, gli strati più profondi del nostro immaginario. Uno strumento che sa rispondere alla necessità da più parti avvertita di non dimenticare e al di là delle intenzioni rimuovere quanto accaduto: “Impossibile non pensare a come ricordarlo – scriveva del resto, già alla fine di aprile sul suo giornale, lo stesso Tedeschi – con un segno pubblico, solido ed eloquente”. Come il suo libro, appunto, espressione di una sensibilità individuale, di una capacità affinata nel lavoro di giornalista, di un impegno civile che non tralascia di individuare “il punto di domanda più sostanzioso, più radicale” nelle “sorti del Sistema Sanitario Nazionale e di quello lombardo in particolare”, allargando tuttavia lo sguardo a render conto anche di altri privilegiati punti di vista con le interviste, raccolte nella seconda parte, oltre che ai sindaci e ai vescovi delle due città, anche al medico, all’infermiere, all’infettivologo.
Nulla di meglio delle parole dello stesso autore per sintetizzare, in conclusione, il senso del suo lavoro:
“Dopo in evento così enorme l’esercizio del ricordo non può venir meno.
A ciò si vorrebbe contribuisse questo libro.
Questo diario.
Questo memoriale”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il lavoro feriale e collettivo di essere uomini

Carlo Ossola, Trattato delle piccole virtù. Breviario di civiltà, Marsilio 2019 (pp. 120, euro 15)

“Dodici stazioni per divenire un po’ più uomini”. Così l’autore definisce, nella premessa, le “piccole virtù” cui gli uomini della sua generazione – quella dei nati nell’immediato secondo dopoguerra – venivano ancora educati. Prima che arrivassero “l’intemperanza e l’imprudenza del Sessantotto che trasferì all’energia del collettivo quello che al singolo restava troppo arduo da conseguire”. Questo versante della mentalità di quegli anni – a volte ammesso anche da chi ha continuato a ravvisarvi una decisiva carica di rinnovamento – venivano comunque dopo la pervasiva “tecnicizzazione” di ogni ambito della vita che aveva reso “brutali e precise” le movenze quotidiane, eliminando “dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo”: lo rilevava già Adorno, nel suoi Minima moralia, tradotto in Italia alla fine degli anni Cinquanta.

Non sono la buona educazione o il galateo che l’autore rimpiange, ma un ben più sottile e pervasivo atteggiamento quotidiano, fatto di “discrezione del non apparire”, di capacità di ascoltare, di “contegno pieno di riguardo” per gli altri. Tutto il contrario della “competizione, emulazione, valutazione comparativa” che “ci privano della prima tornitura, quella del sé”, allenandoci invece “alla vanità dell’orgoglio”. Eppure, si erano susseguiti nei secoli i “Maestri delle piccole virtù”: da Castiglione e Guicciardini a quel meno noto Giovan Battista Roberti da Bassano del quale si riporta in appendice il settecentesco Trattatello sulle virtù piccole. Sino a giungere alla Ginzburg e alle sue undici brevi prose della raccolta titolata, appunto, Le piccole virtù: “Virtù comuni – chiosa l’autore – che occorre esercitare ogni giorno nella fatica dell’essere in società, che non sono piccole se non perché come tali sono percepite, ma che richiedono un costante esercizio di sé, una vigile coscienza del limite, proprio e altrui”. Modi d’essere e di fare essenziali “nel lavoro, feriale e collettivo, di essere uomini”.

Si passano così in rassegna – in un rimando continuo ad autori di ogni epoca – queste dodici “impercettibili” e ordinarie virtù, partendo sempre però da un preciso quesito, da una breve riflessione o da un episodio vissuto. Uno per tutti, ad aprire il discorsetto sull’“affabilità”: “Il volo Air France è pieno; solita coda nel corridoio di cabina: arrivo al mio posto in fondo ma è occupato da una hostess, elegante e impassibile: Madame, quello sarebbe il mio posto!; Monsieur, per questo stavo ad attenderla! Come l’affabilità moderi con garbo una vana impazienza”.

Affabilità, dunque: una virtù esercitabile persino nei confronti dell’avversario. Lontanissima, inutile dirlo, dal “rottamare” come dall’“asfaltare”.

Una storia di ordinaria cattiveria familiare

Junichirō Tanizaki, La gatta, Shozo e le due donne, Neri Pozza 2020 (pp. 128, euro 17)

Lui, anche se ormai adulto, è soggetto alla madre, e del resto è fatto così: si adegua a quello che gli altri decidono per lui. La madre, preoccupata della pigrizia e della mancanza di iniziativa del figlio, si dà da fare perché lui scacci la moglie e si metta con un’altra, dotata di una buona dote e dunque in grado di assicurargli un futuro quando lei non ci sarà più.
Non ci sono cuori spezzati in questa storia di ordinaria cattiveria familiare. In gioco non ci sono l’amore e il dolore dell’abbandono, ma l’orgoglio e l’umiliazione. La prima moglie non accetta di esser stata scartata come una cosa e vuole rivalersi riprendendosi il marito; l’altra donna sorveglia come una carceriera l’uomo con cui si è messa perché non sopporterebbe l’offesa di vederlo tornare dalla prima.

Una comune storia borghese.
Non fosse che sulla scena agisce – o meglio: osserva in silenzio, senza giudicare si direbbe – un altro personaggio: una gatta. C’è lei al centro del triangolo: amata dall’uomo e mal tollerata o addirittura odiata dalle donne, che ne sono o ne sono state gelose.

Questo è un romanzo che soprattutto chi vive con un gatto saprà apprezzare.
Tanizaki aveva di sicuro questa esperienza. Non avrebbe altrimenti saputo scrivere pagine come quelle dedicate alla relazione che si instaura fra l’animale e il suo padrone, che osservando la sua gatta camminare col capo chino, smagrita dall’età ormai avanzata, sente di “avere sotto gli occhi una lezione sulla fugacità della vita” e non sa confrontare il dolore che proverebbe nel caso lei morisse con quello che gli provocherebbe la scomparsa di una persona vicina. Ma anche la moglie – che non aveva amato l’animale e, una volta scacciata dal marito, l’aveva rivoluto con sé solo allo scopo di indurre l’uomo a tornare da lei – sente ad un certo punto di saper “comprendere con chiarezza i pensieri della gatta dallo sguardo triste, vecchia e silenziosa” e “di tanto in tanto avvicina la bocca all’orecchio della gatta e le sussurra: Non sapevo che tu fossi tanto più ricca di me di sentimenti umani”.
Sarà sempre lei, la gatta, a guardare con saggia indifferenza il precipitare della situazione.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il disordine delle vite

Sandro Campani, I passi nel bosco, Einaudi 2020 (pp. 248, euro 19,50)

Siamo ancora là, nell’Appennino tosco-emiliano, come nel romanzo che avevamo letto  quasi tre anni fa (Il giro del miele, Einaudi 2017, in queste note il 16 luglio di quell’anno): anche in questi Passi nel bosco  troviamo una storia di famiglie, di amori e disamori, speranze e fallimenti, di destini che si credeva di aver scongiurato e invece negli anni l’hanno avuta vinta; vite che avrebbero potuto essere diverse, e non si sa cessare di interrogare per sapere perché sono andate come sono andate. E intorno il bosco, che circonda il mondo degli uomini e custodisce i loro segreti, sempre altro da loro anche se a loro soggetto. Anche se i tempi sono i nostri infatti, e si vive soprattutto di turismo e c’è chi sta recuperando uno dei tanti borghi disabitati da allestire ad “albergo diffuso” per accogliere i cittadini votati a velleitari ritorni alla natura, – di fare il periodico taglio del bosco si tratta, ed è questa operazione che ha riunito i diversi personaggi, modulati entro una gamma che si dispone fra un estremo e l’altro, e va dal vincente – si fa per dire – Luchino al perdente Daniele.

L’autore è uno di quelli che in Appennino è nato e continua a vivere, sia pure essendo passato dall’originaria montagna modenese a quella reggiana. Il bosco lo conosce bene: “I faggi sono quel che ti protegge dagli spiriti maligni: lo capisci già dalla corteccia, liscia, di quel grigio pieno d’occhi”. Così come da una lunga consuetudine nasce il personaggio attorno al quale in diverso modo gravitano tutti gli altri: Luchino, che prima di comparire in questo romanzo è stato protagonista di una canzone, E dove andrai, Luchino, perché Campani è anche cantante e chitarrista e scrive musica e testo di molte delle canzoni della sua band, gli Ismael. E i temi sono quelli: l’abbandono di una montagna che non si lascia abbandonare facilmente, che resta dentro.

Luchino era, nelle parole della canzone, quello che se ne va – “con la moto di tuo padre, dove noi non abbiamo il coraggio” – e qui, nel romanzo, che a un certo punto cita letteralmente il testo della canzone, è quello che torna e come sempre quando riappare scompiglia la vita della piccola comunità: “Arriva come il sole, come quelli a cui non importa niente. Per questo ce l’hanno con lui; eppure lo cercano al bar, quando torna, non possono ancora farne a meno, appesi a lui come all’unica vita che sarebbe valsa la pena di vivere”. Perché lui è uno che cade sempre in piedi, che gli altri amano, o odiano, o comunque invidiano. Un beniamino della vita, anche se in versione vagamente maudit: lui è “il filibustiere (che) arriva e incanta, i bimbi lo attorniano, i gatti lo seguono, tutto gli è sempre perdonato”. Anche da Daniele, il più fedele dei suoi seguaci: “Luchino era il furbo, Daniele l’entusiasta. Uno ha lanciato il sasso, l’altro non ha ritirato la mano”. E adesso Daniele – o Danielone, come lo chiamano, dopo che si è lasciato ingrassare a forza di birre, con il gusto di ostentare la propria bulimia disperata –, è uno sbandato, irascibile e aggressivo, dipendente dai soldi che chiede al padre, e al fratello. Tutto diverso da lui, Antonello: notaio come il padre Francesco, pragmatista e privo di scrupoli, “se lui ha deciso di fare una cosa, sicuramente c’è una strategia”, e “non potrà mai fare nulla di buono senza che gli venga attribuito un doppio fine”. Anche se in passato ha spesso garantito per il fratello, regolarmente licenziato da chi era stato persuaso ad assumerlo perché inaffidabile sul lavoro, ladro di portafogli dei compagni di lavoro, e dunque è Francesco, il padre, a cercar di farlo ragionare, a rincorrerlo, a cercarlo quando sparisce.

Ma i personaggi sono di più, e ciascuno – tutti tranne Luchino, significativamente – prende la scena a turno, raccontando i fatti dal suo punto di vista, come in uno spettacolo teatrale (di cui a inizio libro compare appunto il cartellone, ossia l’elenco dei nomi e dei ruoli).

Romanzo corale in cui le voci non si fondono in un coro, e le questioni del passato come le tensioni del presente restano in sospeso, filtrate da un linguaggio irto di espressioni e vocaboli ricalcati sul dialetto locale.
Inutile cercare una sia pur malinconica soluzione in questa storia: non è il taglio del bosco di Cassola, questo.  Qui non è con il dolore di una perdita, con un lutto che si ha a che fare. È con il disordine delle vite.
Non c’è un senso da ritrovare in esistenze residuali, in bilico fra rimpianti e delusioni, rancori e rimorsi. 

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una non-fiction scritta da storici e filosofi

Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Un caso di parricidio nel XIX secolo, a cura di Michel Foucault, Einaudi 2020 (pp. 352, euro 24)

Nel 1976, quando per la prima volta Einaudi lo pubblicò, questo libro si collocava in un clima di critica della psichiatria e più in generale delle istituzioni totali: L’istituzione negata di Franco Basaglia era uscito nel ’68, e Basaglia era lettore attento di Foucault e delle sue ricerche sul “disciplinamento” imposto da carceri e manicomi, prima che da un potere diffuso, microfisico e biopolitico: la Storia della follia in età classica si è leggeva in Italia fin dal ’61 e Nascita della clinica dall’anno successivo.

La ricostruzione della vicenda del contadino bretone Pierre Rivière forniva dunque un concreto, inedito riferimento a un interesse che andava oltre l’ambito specialistico, ma suggeriva anche, soprattutto per chi viveva dalle nostre parti, la possibilità di stabilire analogie con un fatto accaduto una quindicina di anni prima: il “mostro di Tremosine” era una figura ancora viva nella memoria dei bresciani, colpiti dal gesto di quel Giuseppe Rossi, diciottenne gardesano che aveva ucciso padre, madre e sorella sparandogli a bruciapelo con una doppietta, un comune fucile da caccia. Un massacro suscitato da un motivo futile – il padre si era rifiutato di prestare 30mila lire al figlio che doveva ripianare un debito –, maturato comunque entro la rete dei rapporti familiari e in questo simile, dunque, a quello perpetrato dal ventenne francese a colpi di roncola.

Foucault e altri studiosi suoi collaboratori (che nel libro compaiono quali autori dei saggi della seconda parte), nel corso delle loro ricerche archivistiche tese a chiarire l’evoluzione dei rapporti fra psichiatria e giustizia penale, si erano imbattuti in un documento sorprendente: la Memoria scritta da un parricida nel 1836. Scritta su sollecitazione dei medici, che in questo modo ritenevano di poter stabilire il grado di salute mentale del soggetto e la sua eventuale simulazione di follia; accolta dai magistrati fra le prove in base alle quali formulare il giudizio; ampiamente citata dai fogli di informazione che all’epoca diedero ampio spazio al fatto: a fermare l’équipe per più di un anno sulla vicenda fu proprio “la bellezza della memoria di Rivière”, ammette Foucault in apertura. “Tutto è iniziato dalla nostra stupefazione” di fronte a un discorso, come quello del giovane capace appena di leggere e di scrivere, in grado di introdurre un sostanziale elemento di “disturbo” nella “battaglia di discorsi” che cercavano di stabilire se il suo era il “discorso d’un pazzo o d’un criminale”.

Il primo impulso, in chi legge, è di saltare dall’introduzione di Foucault direttamente a questa Memoria, tralasciando i documenti che la precedono. Ma non conviene, e la ragione sta nel loro montaggio: non tipologico, in base cioè alla loro natura – medica, giudiziaria, cronachistica – , ma cronologico. E dunque si legge innanzitutto del crimine, poi di quel che avviene tra il fatto e l’arresto, si passa quindi all’istruttoria per giungere alla commutazione della pena dall’esecuzione capitale al carcere a vita (cui metterà fine il suicidio del recluso). Quello che ne esce è qualcosa di simile a un romanzo, a una non-fiction si direbbe oggi (A sangue freddo di Truman Capote, riferimento obbligato di questo genere, era stato scritto solo una decina d’anni prima, a metà anni ’60): i verbali redatti quando i corpi sono ancora lì dove sono caduti sotto i colpi di Pierre si intrecciano al racconto dei testimoni, le relazioni del procuratore del re agli articoli di giornale, mentre l’interrogatorio dell’omicida e la sentenza istruttoria forniscono le coordinate per comprendere la Memoria, uno “scritto di circa cinquanta pagine – spiega l’Istruttoria – al quale Riviére aveva lavorato dal momento del suo ingresso nella prigione” ma, lo sapremo da lui stesso, concepito già prima dell’assassinio, in un rapporto stretto fra il discorso sull’atto e l’atto stesso. E a questo punto si arriva finalmente al testo cruciale, una ricostruzione puntigliosa e angosciante dei litigi familiari, del coinvolgimento in essi dei figli, delle vessazioni della moglie sul marito: è per riscattare quel buon uomo del padre dalla prepotenza e dalle offese della madre che Pierre decide di intervenire, nel modo che sappiamo. Uccidendo la colpevole, la madre, ma anche la sorella che stava dalla sua parte, e il fratellino. Perché anche quest’ultimo, cui il padre era tanto affezionato? Per apparire crudele ai suoi occhi, agli occhi del padre che così non avrebbe sofferto per la sorte del primogenito: una giustificazione che rivela per alcuni la follia dell’assassino, per altri la sua volontà di confondere le acque, tanto da fornire una testimonianza che sfugge alla logica di chi l’aveva sollecitata e di fatto “paralizza” la volontà del magistrato quanto quella del medico affermando l’autonomia dell’autore, del fatto e del testo insieme. Un’autonomia che rimanda ad altro che sta fuori degli ospedali e dei tribunali riallacciandosi alla protesta muta che atti per nulla isolati come quello di Riviére rivelano: una ribellione senza parole contro la povertà delle campagne, che la Rivoluzione dell’89 non aveva risolto, e il nuovo potere borghese ad essa seguito aveva acuito.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La pandemia presentita da un ipocondriaco

Lorenzo Marone, Inventario di un cuore un allarme, Einaudi 2020 (pp. 284, euro 18)

“Penso che condividere le paure possa servire a destabilizzarle”, “fare gruppo aiuta: vedere che c’è un altro che soffre delle tue stesse ansie ti fa stare meglio, c’è poco da fare. (…) Sempre più ricerche dicono che avere buone amicizie alza il livello di Qr, il quoziente di resilienza; biologi, nutrizionisti, psicologi sono d’accordo nel ritenere che l’amicizia sia uno dei principali fattori per combattere virus e germi, incidendo sul funzionamento del sistema immunitario. (…) Cioè, perlomeno si tira avanti, che è una forma di vittoria, giusto?”. Giusto, a patto però che si tenga conto del fatto che queste considerazioni fiduciose risalgono a parecchi mesi prima, cioè sono state scritte a.C. (ante Coronovirus), il quale coronavirus non era dunque contemplato fra i “virus” sopracitati. Non è stata l’esperienza del lockdown a suggerire queste parole, ma quella di un ipocondriaco. Di un ipocondriaco che ha deciso di scrivere senza remore delle proprie angosce perché crede “che la condivisione sia un modo per venirne fuori”. “Parliamone quindi – esorta gli ipocondriaci che non ha dubbi si trovino fra i suoi lettori, dato che “Siamo tutti, chi più chi meno, ipocondriaci, ahimè, bombardati ogni giorno da infauste notizie” –, confidiamoci, raccontiamo, svisceriamo, non abbiamo timore di sembrare deboli”.

Ma la convinzione del messaggio si squaglia appena espressa: “tutto questo può valere per le persone normali, per chi cioè attraversa un momento difficile”. Non è questa la situazione dell’ipocondriaco: “Il periodo difficile per un ipocondriaco è la sua stessa vita, nella quale la paura è una costante”, “una sorta di acufene. Sapete cos’è, vero? Se la riposta fosse negativa, buon per voi, sareste persone normali impegnate a vivere”. Avvertenze come questa chiariscono subito che questo libro non è una “storia lamentosa”, ma neanche un manuale di sopravvivenza, tanto meno di guarigione, per malinconici e ansiosi in apprensione continua per il proprio stato di salute e che della paura della malattia sono arrivati a fare “una ragione di vita”. È bene, anzi, che chi si trova in questa condizione si convinca che non deve “rompere i coglioni di continuo a chi (gli) è accanto”. Se lo fa, del resto, si rende conto, come il protagonista, che né moglie né amici lo prendono più sul serio. Né lo farebbero i lettori, a meno che già le prime pagine garantiscano che se ne parlerà così, un po’ alla Woody Allen per intenderci, non a caso ricorrentemente citato. E allora lo seguiamo sorridendo, il nostro ipocondriaco, nelle sue elucubrazioni amletiche, nei suoi incontri con medici preti psicoterapeuti e santoni, nelle sue relazioni (moglie, figlio, parenti, amici, colleghi) pesantemente condizionate dallo stato d’animo d’un individuo che “ha un terrore fottuto di qualsiasi morbo, ma allo stesso tempo ha una paura fottuta di accorgersene”. Lo seguiamo in un lungo monologo denso di divagazioni scientifico-filosofiche che spesso assumono – anche con risultati apprezzabili – il tono della divulgazione. E così, paura dopo paura, catastrofe incombente dopo catastrofe imminente, ci arriviamo: alla pandemia. Una pandemia solo possibile, per l’autore, che infatti per darne un’idea prende quello che ha a disposizione, la peste del Trecento e quella del Seicento, e la Spagnola – “Mi chiedo spesso cosa avrei fatto se mi fossi trovato a vivere a quei tempi” –, ma sa anche andare al di là, con accenti che suonano, ahimè, vagamente profetici: che cosa succede “quando l’enorme giostra che abbiamo costruito per non pensare al nostro essere mortale viene d’un tratto meno”? “Se si fermasse quest’ultima, resteremmo scoperti, e mi domando chi saremmo davvero, io chi sarei: quello che scappa, quello che attende l’aiuto di un medico vestito da menagramo, colui che si dà alla fede, chi si dispera, o chi infine decide di godersela? Almeno nella fantasia, senza paura di essere smentito, mi piace pensare che farei parte di quelli che si danno all’alcol e al sesso. Non in questo ordine.”

C’è ragione di credere che il nostro sia stato smentito, contrariamente alle sue previsioni. Qualche ipotesi si può forse fare se si tiene presente che, a quanto pare, non solo l’ipocondria, ma anche altre nevrosi, e persino la paranoia nelle sue forme e gradi diversi, conoscano una fase di remissione in epoche di calamità (in parole povere, si allineino al proverbio secondo il quale il mal comune ha fra i suoi effetti collaterali un mezzo gaudio). Quel che sappiamo per certo è comunque che l’autore ha in queste settimane scritto un nuovo racconto destinato a essere diffuso in formato e-book con l’invito a fare una donazione all’ospedale Cotugno di Napoli per l’emergenza Coronavirus. Titolo: La primavera torna sempre.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Oltre l’Alto Adige dei turisti

Lenz Koppelstätter, Omicidio sul ghiacciaio, Corbaccio 2020 (p. 319, euro 16,90)

Portachiavi, calendari, palle di vetro con la neve e la figura di Ötzi, ma anche ombrelli, bastoni da passeggio, flaconi di shampoo, accendini: tutti con l’immagine dell’uomo di Similaun rinvenuto sul confine tra Italia e Austria nel 1991. Mancava solo un giallo a fregiarsi del sicuro appeal della mummia alpina. E ce lo si poteva aspettare, vista la fortuna del filone giallo-montagna (da Faggiani a D’Andrea, da Tuti a Manzini), che prima o poi anche Bolzano e le Alpi Venoste diventassero teatro di un intrigo. A scioglierlo, un commissario locale e a un ispettore immigrato napoletano (anche questa del poliziotto spaesato è ormai una costante).

Senonché a impedire che il racconto scivoli nella scontatezza, ci sono pagine dedicate al contesto da un autore che l’Alto Adige di oggi, da giornalista qual è, lo conosce bene e ci offre quindi motivi di confronto con le immagini che della regione ognuno di noi serba. Ne sa richiamare “la cultura tirolese e il tocco mediterraneo”, fra canederli e pizza; l’internazionalità e insieme un plurilinguismo fatto non solo di tedesco e italiano, ma di dialetti che variano da valle a valle e da paese a paese, ognuno geloso della sua specificità al punto che “un commissario di Bolzano (è) nient’altro che il braccio di Roma”, anche se da sempre residente nella Valle Isarco. Se basta tanto poco a far sentire forestiero il commissario figuriamoci l’ispettore, che non si orienta in un posto dove sembrano “esistere molti più punti cardinali dei quattro che aveva imparato”, per cui “da Bolzano a Merano si va aui (su), nella Val Senales invece eini (dentro) e in Svizzera ummi (di là)”. Ma, quel che più conta, basta cambiare di bar e dall’Alto Adige dei turisti si passa a quello della gente del posto, che esclude diffidente chi viene da fuori.

E Ötzi che cosa c’entra? C’entra eccome: è a lui che conducono gli indizi raccolti sul ghiacciaio dove un uomo è stata assassinato, con una freccia. Come Ötzi appunto. L’arma del delitto risale infatti ad allora, è stata trafugata dal Museo di Bolzano in cui la mummia è conservata, e a questo si aggiunga che la vittima era un misantropo ridottosi vivere più o meno come il progenitore neolitico. Ma, analogie a parte, è un’altra la domanda cui occorre rispondere: Ötzi era solo un cacciatore oppure era un capotribù, o uno sciamano? Un quesito di natura culturale, si direbbe. E invece no: la sua soluzione porterà il commissario Grauner a seguire la traccia giusta.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Si è quel che si è fatto di ciò che la famiglia aveva fatto di noi

Giorgio Fontana, Prima di noi, Sellerio 2020 (pp. 891, euro 22)

La “famiglia singolare” è “la mediazione fra l’universalità e l’individuo”. La famiglia singolare, la mia famiglia, che non si esaurisce nei componenti che tuttora la compongono ma comprende le generazioni che hanno preceduto l’attuale; l’universalità: tutti gli altri che alla mia famiglia non appartengono, la società, ma anche il divenire della società, la sua storia.

Le parole di Sartre, sulle quali il filosofo ha fondato – nelle sue Questioni di metodo – la ricerca confluita nella monumentale opera su Flaubert (L’idiota della famiglia, Il Saggiatore 2019) possono fornire la cornice entro la quale collocare il grande romanzo di Giorgio Fontana. Perché c’è l’Italia del Novecento, e della prima decade  del nuovo millennio, in Prima di noi, ed è sicuramente, questa, una pista di lettura dell’opera, feconda, ma non unica, a meno che la si complichi di quella “mediazione” fra il singolare e l’universale, il particolare e il generale, e allora a trasparire come filo essenziale, che tiene insieme la storia, è il confronto fra le figure che via via prendono la scena e quelle che a lungo vi compaiono e vi conservano comunque un posto anche quando di scena sono uscite.

Continuità sotterranee e rotture eclatanti costellano il divenire della famiglia Sartori, dalla prima guerra mondiale ad oggi, nella forma di somiglianze di carattere, di affinità di comportamento e dì comunanza di aspirazioni, ma anche di drastiche ridefinizioni di questi elementi esposti all’influenza irresistibile dei tempi, all’evoluzione dei costumi, all’irrompere di mentalità nuove.

Torniamo a Sartre: “Il dato che superiamo ad ogni istante, per il semplice fatto di viverlo, non si riduce alle condizioni materiali della nostra esistenza, ma in esso va compresa la nostra stessa infanzia. Questa, che fu insieme un’apprensione oscura della nostra classe, del nostro condizionamento sociale attraverso il gruppo familiare, e un superamento cieco, uno sforzo maldestro per sradicarcene, finisce per iscriversi in noi sotto forma di carattere”. Lo stampo che la famiglia imprime sui diversi personaggi è subito messo in questione dagli stessi: reinterpretato, fatto proprio, o ancora più spesso combattuto nel proprio intimo, giocato anche aggressivamente nelle relazioni familiari, contestato sulla base della propria esperienza pubblica. Maurizio è ormai altro, è fatto di una pasta diversa rispetto al padre, intriso della pazienza cupa dei contadini; i suoi figli sono a loro volta diversi da lui ma anche, si badi, diversi fra loro, perché i singoli processi di individuazione, di distacco dalle figure genitoriali, da quella  paterna in ispecie, divergono: se Gabriele, cattolico, coltiva, e coltiverà per tutta la vita, le proprie aspirazioni letterarie, suo fratello Renzo, comunista, è nella fabbrica e nelle lotte sindacali che cercherà la sua verità, nella propria rabbiosa tenacia rivelando un tratto profondo di continuità con il padre. Così come la madre, nella sua ferma dirittura, nel suo quieto e coraggioso bastare a se stessa, sembra non aver perso radici antiche, che la riporteranno alla campagna che la famiglia aveva lasciato. E questa dialettica fra continuità e discontinuità, somiglianza e differenza rispetto sia a chi li ha preceduti sia ai coetanei, connoterà i figli di Gabriele così come quelli di Renzo, ormai calati nei “tempi miseri” che ai giovani gli ultimi decenni hanno offerto, minando ogni sentimento di appartenenza, non esclusa quella familiare: “Un cognome non vuol dire nulla”, dichiara Dario, “l’ultimo della stirpe, l’ultimo dei Sartori”: “I Sartori non esistono”, giunge a dire. Non è tuttavia su questa constatazione, che sembra voler destituire di senso la lunga storia che abbiamo letto, che il romanzo si chiude, ma sul gesto di Letizia che si reca alla tomba del nonno Maurizio da cui tutto è partito. Maurizio, disertore nella Grande guerra, traditore della fiducia della ragazza che gli aveva creduto e dalla quale solo perché costretto era tornato, eppure a lei legato poi per una vita: Letizia “mise una mano sulla lapide e la sentì calda e ruvida. Una sorta di frenesia la colmò. Ora non c’erano più segreti né condanne, non esisteva ragione di vergognarsi o avere paura. Il cognome su quella pietra era pronto a sbiadire (…). Pietà dunque” per ciascuno dei Sartori, e soprattutto “per un ragazzo e una ragazza che si amano in un bosco, mentre intorno la guerra incendia la terra e loro ancora non sanno che lei verrà abbandonata – e ancora non sanno che lui ritornerà”.
Quel ragazzo e quella ragazza che sono stati i bisnonni dell’autore: “cos’ho voluto raccontare con queste quasi novecento pagine? – si è chiesto Fontana, raccontando il suo libro sul blog Letteratitudine.  Forse innanzitutto un’inquietudine di fondo che anima i Sartori, diciamo una difficoltà radicale di stare al mondo: ognuno reagisce alla diserzione del capostipite inseguendo un sogno preciso che comunque non porta quiete – la rivoluzione, la religione, la poesia, la conoscenza, l’arte… Tutto è un modo per combattere la stortura ricevuta in eredità: ma tutto resterebbe inerte se ad esso non si aggiungesse una forma di pietas, una luce compassionevole, forse persino una preghiera rivolta al passato – alle vite inventate sepolte laggiù, negli abissi del tempo, prima di noi, e che irradiano il loro mistero”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Sulle tracce di Simenon

Jean-Luc Bannalec, Intrigo Bretone. Omicidio a Pont-Aven, Superbeat 2020 (pp. 233, euro 18)

“Spostati, Maigret. È arrivato il commissario Dupin”: esagera la fascetta di cui il libro si fregia, ma un che di Simenon lo ritroviamo in questo romanzo, non fosse che per l’atmosfera tutta francese che lo pervade. Dupin infatti, dalla sua Parigi, ha dovuto spostarsi in Bretagna, a Concarneau e, contro ogni sua previsione, se ne innamora, di un amore che dura anche dopo che ha risolto il caso: l’omicidio di un albergatore novantunenne seguito da quello dell’erede, nella vicina Pont-Aven. Un luogo leggendario, sede della mitica Scuola artistica dominata dalla figura di Gauguin, meta di pittori che cercavano “il primitivo, il semplice, l’incontaminato e lì trovavano il mondo rurale”, la tradizione: “In fin dei conti, la Bretagna – sostengono i suoi quattro milioni di orgogliosi abitanti – apparteneva alla Francia solo dal 1522, ‘da cinquecento ridicoli anni’.”

Paesaggio e contesto culturale sono dunque assicurati ed è su questo sfondo – qualcosa di più di un sfondo, in vero – si muove il nostro commissario, che quell’ambiente assimila, sì, come un Maigret, che arriva a conclusioni decisive presentando un’attenzione ai dettagli che non saprebbe giustificare, e prende nota anche dei “rituali che la gente s’(inventa) per il corso della giornata” essendo che “in nient’altro – ne era convinto – si (rivela) più chiaramente l’essenza di una persona”. Un Maigret tuttavia che pur amando cibo e vini buoni si scorda a volta di mangiare e s’ingozza di caffè, un uomo nervoso, spigoloso e reticente con i suoi sottoposti, che reprime a fatica reazioni o addirittura espressioni offensive come quelle che a Parigi l’avevano messo in cattiva luce presso i superiori. Non è però un ruvido e trasgressivo Rocco Schiavone, tutt’altro: “gli mancavano quegli eccessi che sembravano essere un requisito, o quanto meno una costante, della sua categoria professionale: consumo di alcol o droga, nevrosi o depressione a livelli clinici, qualche eclatante passato criminale, corruzione di alto livello, o un paio di matrimoni drammaticamente falliti. Lui non vantava nulla di tutto ciò”. E con brevi digressioni come questa, l’autore ci dà la misura di quanto sia consapevole che nei polizieschi quel che si cerca, più dell’intreccio, è ormai una figura originale di investigatore. Quante siano le varianti ancora a disposizione è problema degli scrittori che si provano nel genere.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il confuso desiderio di non sapere troppo

Fred Vargas, L’umanità in pericolo. Facciamo qualcosa subito, Einaudi 2020 (pp. 216, euro 17)

Se non “prima di cena” – come proponeva Safran Foer (Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda 2019, in queste note all’inizio dello scorso dicembre) – comunque “subito”. Perché, confessa l’autrice, anche se “ho il fondato sospetto che avreste preferito vedermi sfoderare un bel poliziesco di pura evasione (…) adesso no, non posso. Una specie di implacabile necessità mi incalza a scrivere freneticamente questo libro”, riprendendo un testo scritto nel 2008 che nel frattempo non ha smesso di essere letto: addirittura, alla Cop24, la Conferenza sul Clima del 2018. E, “visto come stanno andando le Cop” – vedi il fallimento della Cop25 a Madrid, nello scorso dicembre (e per il futuro, il futuro del dopo Covid c’è da sperare?)  –, conviene rileggerlo anche noi quel testo, purtroppo attualissimo: “Madre Natura, stremata, contaminata, esangue, ci chiude i rubinetti. (…) Il suo ultimatum è chiaro e spietato: Salvatemi, oppure crepate insieme a me”. E così scopriamo che di problemi ambientali Vargas si preoccupa “da quando (aveva) vent’anni”. Lo stesso anno, il 1997, in cui diventa ricercatrice presso il Centro nazionale francese per le ricerche scientifiche, scrive il suo primo polar, come dicono i francesi (polar: policier + noir). E allora perché non scrivere un altro “agile libretto dello stesso genere”? Questo che leggiamo ora, appunto. Non semplicemente la riflessione di una scrittrice – che pure non guasterebbe: si veda Amitav Ghosh (La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza 2017, in queste note il 17 settembre 2017) sul silenzio assordante della letteratura – e neanche “cazzate da militante esaltata”, ma i risultati di una indagine approfondita, condotta essenzialmente su dati e testi scientifici ricavati dal web. Il che non esclude prese di posizione esplicite e inequivocabili: i Soldi e la Crescita sono i due pilastri di un sistema fatto di multinazionali che comandano e politici che obbediscono. E della Gente naturalmente, di noi insomma, “massa anonima” richiesta di comprare e consumare mentre viene tenuta all’oscuro di quel che dovrebbe sapere.  Certo, siamo a conoscenza del fatto che “la Terra sta male”, ma in modo tanto generico e vago da poter continuare a “vivere spensierati”, “come se alla fine tutto potesse sistemarsi”, senza contare il nostro “confuso desiderio di non sapere troppo”. È questo vuoto di sapere – di cui siamo dunque in parte responsabili –, questa sostanziale incoscienza che il libro vuole contrastare. Senza aggirare il senso di impotenza diffuso: “Mi direte: Ma a parte firmare petizioni, non si può fare niente!” Non è così: le azioni possibili, a portata di noi tutti sono l’altro versante del discorso. Ma “per agire dobbiamo sapere”. E allora via con i dati, ma sempre, programmaticamente, “senza abuso di termini tecnici” e con “un lessico colloquiale standard”.

Senonché i dati citati sono davvero una valanga, e non giova che il discorso non conosca pause e gerarchie, capitoli e paragrafi. Aiutano i corsivi che qua e là punteggiano il testo: “Chiedo scusa, sul serio, per questo lungo elenco. Che però ci permette di capire che lo sconvolgimento di tutti i nostri sistemi di produzione è inevitabile già nella prima parte del secolo!” Le soluzioni, dunque, non sembrano – almeno fino a questo punto – di quelle che ciascuno può tentare: è di riassetti e mutamenti tecnologici che si parla, anche se riserve sostanziali sulla “geo-ingegneria” sono ben evidenziate.

Ma ecco un rimedio, parziale certo ma efficace: usare il meno possibile l’auto (e l’aereo), in attesa di veicoli elettrici (ma se per fabbricarli si usa energia prodotta con fonti non rinnovabili il beneficio è relativo, senza contare il problema dello smaltimento del litio delle batterie). E via con informazioni e numeri e controindicazioni: è una scelta di cui l’autrice non sottovaluta i rischi: “Vi annoiate? È normale. (…) Ma non abbandonatemi proprio adesso…”. Gli ammiccamenti al lettore accompagnano la trattazione di ogni nuovo argomento con relative elencazioni (“Senza insistere troppo a lungo, altrimenti questo libro vi cadrà presto di mano…”), così come gli incoraggiamenti: “Aspettate, non lasciatevi abbattere [dai dati sulla deforestazione], noi possiamo fare qualcosa, e lo faremo”. Visto, per esempio, che “l’Europa è la regione del mondo che, con le sue importazioni, genera più deforestazione in altre aree del globo”, dopo l’olio di palma, mettiamo al bando anche la soia, “primo responsabile della nostra forest footprint”, non acquistiamo legnami tropicali o esotici, non usiamo biocarburanti (ricavati da vegetali la cui coltivazione danneggia l’ambiente di altre parti del mondo).

Ma soprattutto – e qui Vargas è d’accordo con Foer – dobbiamo mangiare meno carne, addirittura il 90% in meno, perché l’allevamento e l’agricoltura che lo consente sono “la prima causa di riscaldamento” e di distruzione di risorse, acqua in primo luogo. E dunque basta con la carne: “senza aspettare un’iniziativa delle autorità. E perché? Perché non ci sarà”, e allora non tanto a un libro come questo –ammette l’autrice – ma ai social occorre far ricorso per divulgare la notizia. Non tacendo gli effetti del consumo di carni (rosse soprattutto) sulla salute: “Ci hanno avvertiti, i ministri della Sanità? No, hanno lasciato che ci ingozzassimo di carni e salumi senza fornirci la minima informazione”. E il pesce, “un tempo considerato, con i suoi omega 3, il più sano degli alimenti”? Anche qui, la disinformazione: si acquista pesce senza essere a conoscenza dei metodi devastanti con cui li si pesca e dell’inquinamento da mercurio degli oceani, sicché “tocca ancora a noi arrangiarci, se vogliamo capire”. Né carne né pesce, dunque? Tutti vegetariani? “Sul fronte della frutta e della verdura – e del vino, ammonisce implacabile l’autrice – c’è poco da stare allegri”, visto l’uso dei pesticidi. E allora ecco le liste dei vegetali che conviene mangiare: “vi serviranno a scegliere meglio frutta e verdura”. Ma la via è un’altra: quella di rivolgersi esclusivamente a prodotti bio, di stagione, a chilometro zero, più cari, come si sa, ma “tocca ai governanti pensarci e sovvenzionarli” in modo da calmierarne i costi. Insomma, sul fronte dell’alimentazione, a conti fatti “noi, la Gente, abbiamo in mano una potentissima leva in grado di modificare le pratiche agricole” e “la presa di coscienza”, almeno su alcuni fronti come quello della proliferazione della plastica, “è in corso e azioni per il futuro sono già quasi operative”. La denuncia circostanziata si coniuga dunque a un moderato ottimismo e, fra una lista e l’altra – c’è anche quella degli alimenti di cui fare proprio a meno –, lo scopo del libro si fa sempre più chiaro: non un’informazione persuasiva, ma un vero e proprio vademecum del consumatore responsabile e, soprattutto, aggiornato.

Senonché il discorso torna poi alle questioni a scala planetaria, ma anche qui qualcosa da fare c’è. Si tratta di ricorrere alle energie alternative, alle fonti rinnovabili: l’importante è non opporre al cambiamento drammatico in corso “il diniego, la rimozione, il rifiuto di sapere, il desiderio di ignoranza”; non assecondare la tendenza della “nostra psiche (a) proteggersi dall’angoscia che suscita un futuro tanto minaccioso”; non iscriversi al partito dei “collassologi” – il termine non richiede spiegazioni –  o a quello più estremista dei “survivalisti”, profeti di “un’imminente catastrofe totale” di fronte alla quale non ci sarebbe che “immergersi nella natura” e “sopravvivere senza comfort” (o costruendosi bunker pieni di scorte, se si è ricchi): “progetti semplicemente idioti, e di una crassa ignoranza”. Ma anche degli “speranzisti” conviene diffidare, non essendo altro che parenti stretti dei collassologi (il sistema è prossimo al collasso, però… chissà…). Eppure – ammette l’autrice – degli speranzisti, in fondo, fa parte anche lei. Lei e i giovani, indisponibili ad accettare l’interessato immobilismo dei governanti. Segue elenco finale – l’ultimo di molti – di quel che tocca fare ai governanti e di quello che possiamo invece fare noi, gente comune, a partire dalla scelta di eleggere solo rappresentanti politici che “presentino un autentico programma ecologico”, di votare “per rappresentanti consapevoli, attivi, sinceri”.

Con il che si ha la prova che la conoscenza più dettagliata può accompagnarsi a un candore disarmante.

Forse, quello che ci si può aspettare da un scrittore è altro: che usi gli strumenti di cui dispone – la letteratura – per intaccare la nostra resistenza a credere davvero a quel che sta accadendo, o quantomeno a cessare di comportarci come se non ci credessimo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il coraggio di non dimenticare

Romina Casagrande, I bambini di Svevia, Garzanti 2020 (pp. 400, euro 18,60)

“Migliaia di bambini (quattro mila all’anno nei periodi più duri, ma troppi di contrabbando per sapere con esattezza quanti) dai cinque ai quindici anni, per tre secoli – dal Settecento a metà del Novecento –, hanno attraversato le montagne. Soli, con uno zaino sulle spalle, dall’Italia, dal Ticino, dal Sud dell’Austria, lasciando paesi poverissimi e famiglie che li avevano venduti, per lavorare nelle ricche fattorie dell’Alta Svevia”.

Questo il fatto che la Storia, una Storia poco nota, ci consegna. Come farne un romanzo? Ripercorrendo la Storia in una storia, ovviamente: quella di delineare una vicenda coi suoi tempi e i suoi personaggi sullo sfondo di un’epoca e degli avvenimenti in essa accaduti è la ragion d’essere stessa del romanzo, la sua missione. Coniugare l’universale e il singolare in modo che ne escano reciprocamente illuminati. E dunque, fra quelle migliaia di bambini zumare su Edna e Jacob, delinearne i caratteri, raccontarne la relazione che li terrà in qualche modo uniti anche dopo che un drammatico tentativo di fuga dalla fattoria in cui si erano incontrati li separerà.

Ma c’è di più, in questo romanzo. La narrazione marcia sui due piani del passato e del presente, la cronaca e i flash back si alternano fino alla fine delle sue quasi quattrocento pagine, senonché  questo modo di procedere, di costruire l’intreccio, non deriva semplicemente da un espediente narrativo collaudato: il fatto è che se Edna, ormai vecchia, ripercorre il cammino fatto da bambina per andare a trovare Jacob, una volta che ne ha inaspettatamente rintracciato notizie, è perché “il passato, anche quello più lontano, si può aggiustare purché lo si voglia”, purché si conservi – come Edna – la capacità di credere che “le persone non (scompaiono) mai completamente. A meno che non (sia) tu a volerlo”. E allora si tratta di scegliere, per esempio se accettare le cure affettuose di una vicina e sistemarsi in una casa di riposo o invece eluderle e fuggire, di nuovo, per tornare là dove tutto era cominciato. I due piani temporali su cui corre il racconto si articolano così ulteriormente: mentre quello della vita dei due bambini e dei loro compagni nella fattoria sveva evoca l’atmosfera dei lager che romanzi e film sulla Shoa hanno reso efficacemente, spesso crudamente, il racconto del viaggio di Edna e delle figure con cui viene in contatto si risolve in una successione di episodi e colpi di scena che richiamano la narrativa nord europea, da Paasilinna allo Jonasson del Centenario che saltò dalla finestra e scomparve.  Il destino drammatico dei bambini di Svevia non cessa tuttavia di rappresentare il motore della narrazione, anche quando le avventure della vecchia Edna e del suo inseparabile, e altrettanto attempato, pappagallo Emil catturano l’attenzione del lettore. Un destino che, non si fosse complicato nelle loro vicissitudini presenti, nell’incontro con la generosità svagata di giovani marginali  e nelle riflessioni che ne conseguono, sarebbe rimasto solo un documento del passato, un’ulteriore testimonianza delle innumerevoli ingiustizie della Storia e della violenza cieca degli uomini, senza saper raggiungere la forza di un’evocazione vivida e allo stesso tempo capace di aprirsi – attraverso l’indimenticabile protagonista – al sorriso e alla speranza, con il coraggio che solo “tener fede a ciò che si è” può dare. 

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Imparare a vivere nel tempo

Mauro Bonazzi, Creature di un sol giorno. I Greci e il mistero dell’esistenza, Einaudi 2020 (pp. 160, euro 12.50)

“Siamo soggetti temporalmente determinati, e dobbiamo imparare a vivere nel tempo”: tutto qui. Proprio tutto. E i Greci ne erano ben consapevoli, anche se sul modo in cui imparare non erano sempre d’accordo. Quanto all’autore, che ci accompagna in un viaggio che va da Omero a Platone, Aristotele ed Epicuro, ci fa fin dall’inizio una raccomandazione precisa: “riconoscersi nella propria incompletezza, senza però arrendersi, continuando piuttosto a farsi domande”. Come i Greci, appunto.

E dunque, prendiamo atto che oltre che mortali siamo “esseri desideranti”, animati dalla mancanza di unità che sentiamo in noi e da cui deriva “un desiderio che non può mai essere soddisfatto”: questa “una delle scoperte più originali e affascinanti di Platone”, di cui Freud è debitore: prima di lui, è stata la Diotima del Simposio a mettere in chiaro che “la forza che (ci) spinge a fare in modo di riprodursi” combatte contro un nemico ben individuato. La morte. E allora, dal momento che “La natura mortale cerca per quanto le è possibile di essere sempre e di essere immortale (così Platone), “produrre un altro individuo simile a sé” è il modo dei viventi – non solo degli uomini, anche degli animali e delle piante – di “partecipare, nella misura del possibile, dell’eterno” (così Aristotele): “individualmente siamo destinati a scomparire, ma possiamo prendere parte alla sopravvivenza della nostra specie, contribuendo alla sua immortalità”.  Ossia: “conserviamo la vita – più o meno, visti i trend demografici attuali… –, ma quanto di noi stessi, di ciò che realmente siamo, dei nostri pensieri, dei nostri desideri e delle nostre azioni, rimane?” Siamo daccapo, senza poi contare che nell’unione sessuale si gioca anche altro che con la vita a poco a che fare, anzi: quel che sotto sotto agisce è “una sorta di nostalgia per la condizione di indeterminatezza primordiale”, per cui, indistintamente, si persegue “una specie di estinzione di sé nell’inorganico”. Anche qui Freud, certo – quello di eros e thanatos –, ma prima di lui i Greci. I filosofi, ma anche i poeti, come Pindaro: “Creature di un solo giorno – eccolo, il titolo –: che cos’è mai qualcuno che è mai nessuno? Sogno di un’ombra è l’uomo”. Il problema è quello, e resta. L’ha detto bene Hannah Arendt: “Questo è l’essere mortale: muoversi in linea retta in un universo dove tutto ciò che si muove segue semmai un moto ciclico”. Non restano che espedienti perciò, come la gloria che gli eroi di Omero non fanno che cercar di assicurarsi, assillati dall’oblio incombente, dalla prospettiva della “caduta nel nulla, nell’insignificanza”. “La conquista della gloria è la prova che non si è passati invano”, che si è stati “unici”.

Questo è Omero, ma dal campo di battaglia si passa poi alla polis, da Achille a Pericle: il riconoscimento cui si punta non è più individuale ma collettivo, perché questo vuole essere per l’appunto la polis, un “individuo collettivo”. Dalla vita eroica alla vita politica, quindi. Ma a ben vedere qualcosa in comune caratterizza i due campi: la forza, l’impulso a dominare, in nome di una legge che “non abbiamo stabilito noi”, avverte uno storico questa volta, Tucidide: “l’abbiamo ricevuta che già c’era e a nostra volta la consegneremo a chi verrà dopo”. “Il nazismo – conclude senza mezzi termini l’autore – è uno sviluppo possibile di un percorso che è iniziato nella Grecia antica”. Una tragedia, in definitiva: l’azione, che sia militare o politica, partita dal desiderio di combattere la morte finisce col produrre morte.  E allora meglio la vita contemplativa, l’unica vita felice, afferma Aristotele, perché l’unica che realizza la nostra “semenza”. E così siamo a Dante, che pure fa finire in un naufragio il desiderio di conoscere del suo Ulisse. Il naufragio cui sono destinati gli uomini se contano solo sulle loro forze intellettuali, se non riconoscono il loro limite (il limite della scienza e delle sue applicazioni, per gli uomini di oggi…).

Si ha l’impressione che dopo tanto arrabattarsi, sia Epicuro a dare la soluzione. Ne sembrava convinta persino un’intelligenza implacabile come quella di Wittgenstein: “La morte non è evento della vita. La morte non si vive. Se, per eternità, s’intende non infinita durata del tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente”. Se siamo i nostri corpi, di cosa ci dobbiamo preoccupare? La loro fine è la fine di tutto. Senonché – ecco il punto – si può non aver paura della morte, ma averne del dover morire, del dover abbandonare tutto quello che siamo stati e siamo, tutte le nostre speranze, i nostri desideri. Desideri immaginari, e proprio per questo inestinguibili, ammonisce Epicuro: desiderare di lasciar traccia di sé avvelena la vita, si tratta di “rifiutare la schiavitù del tempo futuro” e vivere il momento presente, riconoscere – consapevoli che si è nati per caso – il sentimento dell’“esistenza pura”, un’esistenza attenta solo a bisogni reali. Il cui soddisfacimento non aumenta con la durata della vita: per questo si può dire che “il tempo per chi è felice non conta”. Però. Però noi siamo nel tempo e siamo i nostri progetti, non rinuncia a sostenere l’autore. E dunque: non ha senso rifiutare la paura della morte. Perché siamo mortali. È la nostra condizione. Una felicità inevitabilmente venata di malinconia, sembra potersi alla fine ricavare da queste pagine, ed è quello cui realisticamente possiamo aspirare.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Vite disincantate e appassionate

Tracy Chevalier, La ricamatrice di Winchester, Neri Pozza 2020 (pp. 287, euro 18)

“Le ricamatrici di Winchester sono state così gentili da mostrarmi i loro modo di lavorare, spiegandomi i punti che adoperano”, “I campanari della Cattedrale di Winchester mi hanno consentito di assistere alle loro sonate”: potrebbe essere la protagonista a esprimere questi ringraziamenti e invece è l’autrice, nella nota che conclude il romanzo. Per scriverlo, Chevalier ha dovuto impratichirsi in campi a lei prima estranei, gli stessi nei quali si avventura Violet, la protagonista di una storia leggendo la quale si ha spesso l’impressione di aggirarsi nel mondo di Jane Austen. Impressione che la stessa Violet prova, a un certo punto, e che ha comunque presentito fin dal momento in cui, visitando la Cattedrale di Winchester si è imbattuta nella tomba della Austen e non ha potuto non notare che “la nuda lapide sul pavimento non citava neppure la sua attività di scrittrice”. Una comune sorte sembra avvicinare donne tra loro distanti come la grande romanziera e la dattilografa ormai trentottenne, come tale destinata a ingrossare le file delle “donne in eccedenza”, rimaste senza possibilità di accasarsi in un’Inghilterra da poco più di un decennio uscita dalla Grande guerra dalla quale molti uomini – fra cui il fratello e il promesso sposo della protagonista – non hanno fatto ritorno. È tutta qui la storia di Violet: nella sua volontà di lasciare un segno della propria esistenza, una determinazione pacata che non ha nulla di eroico se non nell’accettare la vita toccata in sorte e nel vivere orgogliosamente la propria solitudine. Con consapevolezza e realismo, ma senza ombra di rancore, senza l’impressione di aver subito ingiustamente torti irrimediabili, restando aperti al mondo quindi, e agli altri. Sapendo perciò cogliere un’identica disposizione nel campanaro che coltiva un proposito analogo: imparare a far bene qualche cosa che abbia senso e non soccomba alla futilità dei gesti e alla labilità delle intenzioni. Come Violet nutre “il desiderio di ricamare il meglio possibile, pur sapendo che forse nessuno se ne accorgerà”, così Arthur è appagato dalla coscienza di suonare meglio che può, “anche se pochi sono in grado di distinguere una buona suonata da una mediocre”. Perché se il suono delle campane non dura nel tempo, dura nella memoria.
E così, questi due personaggi, sommessi e per nulla eccezionali, restano nella memoria a lettura finita, emblemi di un saper vivere disincantato ma affatto privo di passione.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.