Il modo più sano di essere malati

Susan Sontag, Malattia come metafora e L’Aids e le sue metafore, Nottetempo 2020 (pp. 238, euro 18)

“Il mio intento è descrivere non ciò che realmente significa emigrare e vivere nel regno dei malati” – nei reparti di terapia intensiva, ci viene subito da pensare –, “ma le fantasie punitive o sentimentali elaborate attorno a questa situazione”: dove ho sbagliato, come ho fatto a prendere il virus anch’io? e adesso? cosa mi aspetta, qui, da solo?

È impossibile leggere il classico saggio di Sontag, più di quarant’anni dopo la sua pubblicazione e da poco riproposto, senza rapportarlo alla nostra esperienza e all’immaginario che il Covid 19 ha determinato. “La mia tesi – dichiara fin dalla prima pagina l’autrice – è che la malattia non è una metafora, e che il modo più veritiero di concepirla – nonché il modo più sano di essere malati – è quello che meglio riesce a purificarsi dal pensiero metaforico, e a opporvi resistenza”. E, vista la tendenza oggi dominante, a opporre resistenza alla psicologizzazione della malattia, tentativo contemporaneo di “fornire un controllo su esperienze ed eventi” del tutto o quasi refrattari alla nostra volontà.

La tubercolosi nel secolo scorso e il cancro oggi. Queste le due malattie sui cui in particolare il discorso verte, in quanto “sovraccaricate dalle bardature della metafora”, ma sono le note riservate alla seconda – di cui la stessa Sontag è stata vittima – a risuonare maggiormente in noi: “una malattia vissuta come un’invasione spietata e furtiva”, che sottopone i malati “a pratiche di decontaminazione” e fa percepire il contatto con loro una sorta di “trasgressione”, nella cerchia amicale ma anche all’interno del nucleo familiare, pur non trattandosi, nel caso del cancro, di una malattia contagiosa quanto piuttosto di un male (“un brutto male”, si diceva fino a qualche decennio fa) circondato da un alone metaforico difficile da smantellare. “Non c’è niente di vergognoso in un attacco di cuore”, mentre la “malattia oncologica” (questa l’espressione oggi usata in ambito medico-scientifico, ma che nessun malato né i suoi familiari usano…) “la si considera oscena – nell’accezione originaria del termine: nefasta, abominevole, ripugnate per i sensi”.

Manuali di medicina di ieri e di oggi, dizionari, opere letterarie: il libro è da leggere anche per i rimandi che l’autrice ha ritenuto necessari per argomentare la sua tesi e ricostruire i diversi percorsi dell’immaginario relativo alla tubercolosi e al cancro nelle loro relazioni con il corpo, il sesso, la morte.

Si direbbe che Sontag esplori i caratteri e l’evoluzione della percezione della tbc al fine di mettere in luce, per contrasto, quelli attinenti al modo di rapportarsi al cancro: nello stesso senso possiamo muoverci noi leggendo Malattia come metafora, non tanto cercandovi corrispondenze puntuali o conferme di una generica attualità, ma rintracciandovi stimoli a riflettere su quel che stiamo vivendo da un anno a questa parte. E lo stesso vale per l’altro saggio, contenuto in questa edizione, sull’Aids: anche la diffusione di questa infezione appare legata all’aumento degli scambi e dei contatti, ed ha evocato significati di punizione, o meglio, di responsabilità: individuale, legata ai comportamenti sessuali, nel caso dell’Aids; collettiva, derivante dall’indiscriminato sfruttamento del pianeta, per quanto riguarda il Covid 19.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La centralità perduta delle montagne abitate

Sara Luchetta, Dalla baita al ciliegio. La montagna nella narrativa di Mario Rigoni Stern, Mimesis 2020 (pp. 146, euro 14)

Degli autori amati – quelli dei libri che teniamo separati dagli altri, riservandogli uno spazio a sé, privilegiato – è piacevole leggere profili e commenti scritti da chi condivide la nostra predilezione. Non saggi accademici, ma testimonianze di letture partecipi quanto la nostra ma più della nostra documentate, sistematiche, penetranti. È il caso di questo libro, dedicato a un autore che ci ha lungamente accompagnato, Mario Rigoni Stern. Ed è la sua montagna innanzitutto, una montagna vista con l’occhio dell’insider e insieme dell’outsider – quale Rigoni è stato – a venirci incontro dalle pagine di Luchetta: non la montagna “delle ascensioni, delle vette, dell’alpinismo, dell’immaginario simbolico legato al turismo”, ma la “montagna minore, abitata, intermedia, spesso lontana dalle riviste patinate”. Un territorio contraddistinto dalla “coralità” della “saga stratificata delle sue genti”, per cui sono più riferimenti e simboli collettivi che personaggi singoli a risultare fulcro della narrazione, più “la baita e il ciliegio” che personaggi pure indimenticabili come Tönle o Giacomo, perché quella di Rigoni è una “letteratura senza eroi”, la sua narrazione “non vuol essere romanzo”, i suoi racconti “volutamente nascondo la mano di chi scrive o vedono lo scrittore osservarsi come uno tra i tanti nella saga altopianese”.

Chiariti questi presupposti, la lettura dell’opera dello scrittore si articola nell’analisi di temi specifici, essenziali nella sua visione del mondo come nella sua poetica: una natura “senza maiuscola”, in primo luogo, lontana dalla retorica della wilderness e coincidente con “la naturalità come prodotto domestico” e come domesticazione del “selvatico”; il senso del tempo, in secondo luogo, che emerge dalla fedeltà ai nomi dei luoghi – non per acribia toponomastica, ma per rispetto delle “temporalità diverse”, storiche e geologiche, sedimentate in quei nomi – ma anche dal racconto della “mobilità di uomini e animali”, del “movimento di diastole e sistole che è di ogni montagna, in dialogo con le sue stagioni e la varietà delle sue risorse” e scalza il “cliché spesso anche autogenerato di un forzato e innaturale immobilismo da nonno di Heidi”, così come lo “schema” etnografico che ha a lungo insistito sui “caratteri comunitari” degli insediamenti montani, in cui è invece possibile distinguere i segni concreti “di una cooperazione necessaria alla manutenzione di un territorio difficile e alla gestione oculata delle sue risorse”.

Lo sviluppo di questi temi si realizza pagina dopo pagina in una trattazione che al suo centro trova la lettura puntuale dei romanzi di quello che Paolo Cognetti ha definito “il nostro più grande scrittore di montagna”. Un autore di riferimento per ogni discorso sui temi ambientali che, come lui stesso diceva a proposito del suo Uomini, boschi e api, non ha mai tenuto a dire di “primavere silenziose” e di “alberi rinsecchiti” quanto ad augurarsi che “tutti potessero ascoltare il canto delle coturnici al sorgere del sole, vedere i caprioli sui pascoli in primavera”, manifestando un atteggiamento imprescindibile per un impegno ecologista che voglia efficacemente basare le proprie necessarie e fondate critiche e denunce sul prerequisito essenziale che consiste nel contatto diretto – incantato, nel senso più pieno della parola – con la natura.

La sintesi offerta in apertura da Mauro Varotto – docente della stessa università, a Padova, in cui la giovane autrice si è laureata sul ruolo dei nomi di luogo in Rigoni Stern – mette opportunamente in luce l’intento di libri come questo, ravvisabile nell’appello a ridare alle “montagne abitate” una centralità che hanno perduto.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

L’estinzione dell’Homo ruralis

Dörte Hansen, Tornare a casa, Fazi 2020 (pp. 310, euro 18,50)

L’atmosfera, il paesaggio, i personaggi fanno tornare alla mente Heimat, il fluviale film del 1984 di Edgar Reitz. Oggi la si chiamerebbe una serie, forse. Era la storia di un villaggio di campagna nella Germania profonda, nella regione della Renania-Palatinato: la vicenda del paese di Schabbach e della famiglia Simon, dagli anni Venti agli Ottanta del Novecento.

Il villaggio, nel romanzo di Hansen, si chiama Brinkebüll, uno dei tanti sparsi in una terra, la Frisia, in cui “di bellezza (non c’è) neanche l’ombra. Solo terra nuda, una terra che sembrava devastata e sfinita”. Una terra che non sembra avere altra storia che quella che Ingwer, ricercatore universitario, cerca sottoterra, nei reperti che trova. Una terra inospitale che trova un corrispettivo nella brutalità della sua gente, violenta, invidiosa, vendicativa.

La famiglia è quella dell’oste Sönke Feddersen e della moglie Ella, con la figlia Marret e il nipote Ingwer. Sönke “aveva fatto tutto il possibile affinché quel bambino senza padre, figlio di Marret Fine-del-mondo, venisse su più o meno normale”, ma quello se n’era andato, in città, a studiare, rifiutandosi di continuare a servire boccali di birra nella locanda come gli avevano fatto fare fin da bambino. Se n’era andato, via dai nonni e via dalla madre che si era guadagnata quel soprannome perché per lei “i pesci morti (…), l’estate senza cicogne e i campi senza lepri erano tutti presagi della grande catastrofe”, della fine del mondo appunto. Il paese si era abituato a queste profezie strampalate: Marret era svitata. Ce n’era uno in ogni paese di personaggi del genere.

Senonché, Igwer non può restare lontano: il tempo è passato, il nonno ultranovantenne si ostina a restare dietro il bancone della locanda ma non ce la fa più, anche perché la moglie è andata fuori di testa e se non le badi scappa di casa. Del resto, la vita universitaria è stata avara di soddisfazioni e quella privata ancora di più: “La sua vita sentimentale era entusiasmante come una serata di giochi da tavolo in casa di riposo. Forse anche meno. Status relazionale indefinito, né carne né pesce. Due uomini, una donna, un triangolo strampalato, una convivenza fuori dagli schemi” condotta in nome della rivoluzionaria convinzione che “Chi ama una persona sola, in realtà non ama nessuno, tutti e tre avevano letto Erich Fromm. Nessuno di loro aveva mai voluto sentir parlare di casa di proprietà e di matrimonio e di tutti quei discorsi sul nido”. Però lui, Ingwer, è arrivato al capolinea. Non si è mai davvero ambientato in quella convivenza, perché “Hai voglia a laurearti con i massimi voti, prendere summa cum laude alla tesi di dottorato, Ingwer si sentiva ancora come l’impostore con il curriculum gonfiato che non stava al posto suo. Ingwer Feddersen di Brinkebüll, che aveva rifiutato la sua vita ereditata. Che aveva detto no a una locanda sul Geest, ai quindici ettari di terreno, alla casa e alla fattoria. No a tutto quello che Sönke Feddersen, il vecchio, voleva dargli. No alla moglie e ai figli. Semplicemente no, grazie mille. Ma a cosa aveva detto sì? Se Brinkebüll non faceva per lui e neanche la casa condivisa a Kiel, qual era la sua strada?”

E allora torna. Perché nonostante tutto “Lui era affezionato a quella terra ruvida, logora, come si è affezionati a un peluche sdrucito dalle coccole, a cui manca un occhio e che non ha più pelo sulla pancia”, ma anche perché “Lui voleva chiudere le cose per bene, avrebbero giocato a padre-madre-figlio scambiandosi i ruoli. Questione di mesi, forse un anno, ormai a loro non doveva restare molto. Ingwer Feddersen, studentello, topo di biblioteca, per una volta avrebbe fatto qualcosa di utile, di normale. Pulire, cucinare e stare al bancone … Mantenere la posizione finché Sönke Feddersen non avesse abbandonato la nave, in sostanza si trattava di questo. Ma anche di saldare un debito”.

Una storia dura, insistita nei suoi toni aspri, ancorata a un registro malinconico, ma capace di non chiudersi nella vicenda dei suoi protagonisti: l’accorpamento delle proprietà imposto dalla riforma fondiaria e il progresso tecnologico che surclassa i metodi di coltivazione e allevamento in uso da sempre scompone il precario equilibrio del paese. Mentre quelli che possono tentano di ammodernare le loro fattorie ma, senza saper bene che cosa hanno perduto, si riducono spesso in una disperazione cupa, senza futuro, fino a giungere al suicidio in molti casi, arriva la “gente di città”: “Tutta quella gente di Berlino e di Amburgo che improvvisamente si trasferiva nei paesini, non si capiva cosa stesse cercando. Compravano fattorie dismesse, vecchie fucine e scuole di paese abbandonate, stazioni ferroviarie in disuso e mulini che non andavano più. Sembrava che volessero prendersi tutto ciò che era particolarmente vecchio e sgangherato e fatiscente. (…) C’era stato un grosso equivoco. La gente che veniva dalla grande città cercava la natura e le radici, ma nei paesi se ne stavano disfacendo”: “Era come se si stessero vendicando di quello che avevano subito in passato, estirpando tutto ciò che volesse crescere, verdeggiare, fiorire e consumare inutilmente. Via tutto ciò che era storto, logoro e misero, da contadino, da bifolco. Si liberavano dalla natura come schiavi dai loro padroni (…). La gente che veniva dalle grandi città (…) non capiva che i propri vicini avevano un conto aperto con quel territorio. Loro abitavano lì da poco, su quella terra, non sapevano cosa volesse dire vivere di quella terra”.

È qui che il romanzo diventa potente, capace di render conto – senza mai rischiare di abbandonare il terreno della narrativa gravandolo di digressioni saggistiche – dei guasti irreversibili che una modernizzazione guidata solo da criteri economici e accelerata dalle innovazioni tecniche inevitabilmente porta con sé disgregando comunità già minate e destituendo di senso le vite dei singoli.

“Il tempo dei contadini giungeva al termine. Avevano spento il fuoco, tolto le tende e abbandonato gli ultimi residenti. Homo ruralis. Quasi estinto. Le ere cominciano e finiscono, niente di trascendentale. Per uno del mestiere – come il professor Ingwer Feddersen – era sorprendente averci messo così tanto a capirlo”.

Sua madre Marret-fine-del-mondo, a suo modo, aveva visto quel che stava accadendo. Ma “quel posto se ne infischiava totalmente dell’inezia umana”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Impedire che il mondo vada in pezzi

Albert Camus, Conferenze e discorsi, Bompiani 2020 (pp. 339, euro 22)

Alcuni libri più di altri possono essere letti in modi diversi. Questo può essere letto per esempio cercando, e trovando, conferma dell’attualità di Camus anche oltre La peste, il romanzo che è sembrato a molti la lettura più pertinente nella fase del (primo) lockdown. Il Camus che leggiamo qui non è il romanziere, infatti, né il saggista, ma il conferenziere, l’intellettuale che si pronuncia sulla condizione dell’uomo a partire dalla situazione seguita alla seconda guerra mondiale, che si interroga sulla crisi della nostra civiltà,senza abbandonare la speranza che l’uomo possa ritrovare “quell’inclinazione verso l’uomo senza la quale il mondo sarà sempre un’immensa solitudine”. Ma anche ponendo obiettivi concreti, come quello di riconoscere una “cultura mediterranea” e renderla operante, o individuando alla radice questioni irrisolte: “L’Europa – leggiamo ad esempio in una conferenza del 1949, pensando alla “fortezza Europa” che non poche decisioni politiche oggi annunciano o di fatto praticano – non guarirà se non rifiuterà di adorare l’evento, il dato di fatto, la ricchezza, la potenza, la storia quale si fa e il mondo così come va, se non accetterà di vedere la condizione umana così com’è”.

Ecco allora un altro modo di leggere queste pagine: verificare nel concreto del discorso che cosa significa(va?) essere un intellettuale. Avendo presente l’opzione che Camus dichiara senza mezzi termini: “Preferisco gli uomini impegnati alle letterature impegnate”. Opzione di cui danno ampia testimonianza gli interventi raccolti in questo libro, puntuali e calzanti rispetto agli eventi di cui lo scrittore è osservatore partecipe. Occorre però non dimenticare – e non possono non venire in mente le polemiche di oggi contro i colti e i competenti così come i vezzi battaglieri di non pochi facitori d’opinione – che “Se alla parola intellettuale si associano spesso tanto disprezzo e tanta riprovazione è perché essa implica l’idea del polemista amante delle astrazioni incapace di guardare alla vita e incline a preferire sempre la propria personalità a tutto il resto del mondo”. Camus è lontanissimo dall’illusione velleitaria di chi pensa che “spetta all’intelligenza di cambiare la storia”, ma è convinto che compito di essa sia “quello di agire sull’uomo, che invece la storia la fa”. E il primo passo è “non permettere mai alla critica di trasformarsi in insulto, ammettere che il nostro avversario possa avere ragione e che in ogni caso le sue ragioni, anche sbagliate, possano essere disinteressate”, senza per altro nulla concedere alle “filosofie dell’istinto”, a quel “romanticismo di bassa lega che preferisce il sentire al comprendere”: la parola populismo non faceva parte del lessico di Camus… Il quale comunque aveva esperienza diretta del fatto che “Colui che prova a comprendere senza preconcetti, colui che parla di obiettività viene subito accusato di sofisticheria e denunciato per le sue pretese” (neanche l’espressione radical chic era ancora entrata nell’uso…).

Ma tornando al tema cui si accennava, a quella crisi di civiltà che può esser letta come “crisi dell’uomo”, la constatazione della sua esistenza non richiede purtroppo argomentazioni complicate: “c’è una crisi dell’uomo poiché nel nostro mondo la morte o la tortura – metti, la tragedia della traversate mediterranee o quella dei lager libici – può essere guardata con un sentimento di indifferenza o di interesse amichevole, o di curiosità, o di semplice passività (…) senza l’orrore e lo scandalo che dovrebbe suscitare, poiché il dolore umano è accettato”, messo in conto, fatalisticamente o cinicamente (sempre che ci sia davvero una differenza sostanziale fra i due atteggiamenti). Le radici di questa “degenerazione dei valori” stanno comunque a monte, nel fatto che “un uomo o una forza storica non sono (…) più giudicati in funzione della loro dignità, ma in funzione del loro successo”, all’interno di un orizzonte di “incertezza assoluta dell’uomo occidentale rispetto al proprio futuro”: “la semplice parola futuro” è ormai “emblema di ogni sorta di angosce” – e, si badi: Camus non poteva annoverare fra queste quella suscitata dalla crisi ambientale – e non potrebbe sentire diversamente l’uomo “costretto – com’è – a vivere nel presente (lontano dalle verità naturali, dai passatempi tranquilli e dalla semplice felicità”. Costrizione, questa, che tuttavia non impedisce di sentire che “da tempo viviamo un profondo disagio e non siamo più sicuri del nostro futuro e che questa, insomma, non è una condizione normale per presunti uomini civili”.

Non deve scoraggiare il fatto che le occasioni alla base delle diverse conferenze appartengano a tempi e contesti relativamente lontani. In queste pagine, oltre a immagini che resistono al tempo – una per tutte, “I francesi della resistenza che ho conosciuto e che leggevano Montaigne sui treni dove trasportavano i loro volantini” – ricorrono prese di posizione, spesso espresse in forma aforistica, ancora in grado di parlarci. Qualche esempio: “Un uomo non pensa male perché è un assassino. È un assassino perché pensa male. Perciò si può essere un assassino senza apparentemente aver mai ucciso”; occorre “ridimensionare la politica attribuendolo il ruolo secondario che le spetta”: “far funzionare le cose, non risolvere i nostri problemi interiori. Ignoro, per quel che mi riguarda, se esista un assoluto. Ma so che non è di ordine politico” e “non concerne tutti; concerne ognuno di noi singolarmente. E occorre impostare i rapporti – eccolo, il contributo necessario della politica – in modo che ciascuno abbia l’agio interiore di interrogarsi sull’assoluto”. E ancora: “Vogliamo ritrovare la via verso una civiltà in cui l’uomo, senza distogliersi dalla Storia, non le sarà più asservito, in cui il dovere che ogni uomo ha nei confronti degli altri uomini sarà controbilanciato dalla riflessione, dal tempo a propria disposizione e dalla parte di felicità che ciascuno deve a sé stesso”. Fino a giungere al discorso pronunciato nel 1957 a Stoccolma, ricevendo il Nobel per la letteratura, nel quale Camus intende chiarire l’idea della sua arte e del suo ruolo di scrittore: “Non posso vivere, personalmente, senza la mia arte. Ma non ho mai posto questa arte al di sopra di tutto. Se mi è necessaria, invece, è perché non si separa da nessuno e mi permette di vivere, quale sono, alla pari con tutti”. E tuttavia, lo scrittore, “Per definizione non può mettersi, oggi, al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di coloro che la subiscono”. Il che coincide con la consapevolezza che il compito più importante non è credere velleitariamente di poter cambiare il mondo: è un compito “persino più grande” e “Consiste nell’impedire che il mondo vada in pezzi”.

Non solo un invito alla lucidità esprime questo libro: sono anche coraggio – e speranza, nonostante tutto – che la lettura trasmette.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Ricordi e finzione

Jón Kalman Stefànsson, Crepitio di stelle, Iperborea 2020 (pp. 235, euro 17)

Per molti, ogni romanzo di Stefànsson è un ritorno atteso. Pochi scrittori come lui sanno, pur parlando di un ambiente lontano dal nostro, farci sentire che siamo tutti nella stessa barca, perché “le cose della vita, quelle che davvero contano, non sono poi molte e soprattutto non cambiano. Non che la storia non conti, ma alla fin fine le questioni sono quelle: la vita e la morte, così vicine fra loro; la domanda insopprimibile di un senso dell’esistenza, che il pantano della quotidianità offusca ma non può cancellare; la solitudine, il silenzio che erige muri fra padre e figlio, fra marito e moglie. E una Natura — non solo l’ambiente, ma anche il corpo, che di colpo invecchia — estranea e impassibile, spesso ostile”. Erano, queste, osservazioni (in queste note, il 18 febbraio 2018) suscitate dalla lettura dei suoi romanzi (Luce d’estate ed è subito notteParadiso e infernoLa tristezza degli angeliIl cuore dell’uomoI pesci non hanno gambeGrande come l’universo, tutti editi da Iperborea fra il 2011 e il 2016) nell’imminenza dell’incontro con lo scrittore alla nuova libreria Rinascita.

Le ragioni dell’interesse, dell’affezione anzi, che proviamo per Stefànsson escono riconfermate dalla lettura di questo romanzo. Anche qui amore e disamore, abbracci e separazioni sostanziano la narrazione, così come ritroviamo alcuni dei tratti tipici dello scrittore: il tono di racconto orale della sua scrittura, le aperture ora poetiche ora aforistiche che la percorrono. Ma non sono segni di continuità, bensì di prefigurazione di uno stile, di una linea narrativa: Crepitio di stelle è infatti il primo romanzo pubblicato dal – fino allora – poeta Jon Kalman Stefànsson, ed è un romanzo in gran parte autobiografico. Anche se nelle sue storie – come precisa nell’intervista recentemente segnalata dalla news letter della nuova libreria Rinascita e riascoltabile sul sito dell’editore (https://iperborea.com/news/734/) – riesce difficile, persino a lui, distinguere fra ricordi e invenzione: “è il bello della nostra memoria, e anche del narrare. Si parte da ricordi della vita reale e poi la fantasia ha il sopravvento”. Ne nasce una “sinfonia” in cui tutto si compone: “l’importante è che funzioni e vada a toccare il lettore”. Il bisnonno per esempio, personaggio che nell’andirivieni fra passato e presente del racconto svolge una parte di primo piano, lui non l’ha mai conosciuto. Ne ha sentito parlare in casa, questo sì, e non sarebbe potuto essere diversamente trattandosi di una figura che ricorda, nella sua generosità, nei suoi sogni e nelle sue intemperanze, certi personaggi di Harabal, dimostrazione di quanto invecchiare non significhi diventar saggi.

Il carattere autobiografico si evidenzia tuttavia soprattutto nella vicenda del protagonista, bambino di sette anni che perde la madre e deve fare i conti con una “matrigna” per nulla empatica (“in questo romanzo ho affrontato per la prima volta un grande trauma del mio passato”, spiega lo scrittore). Tutto è raccontato dal punto di vista del bambino: dall’apprendimento, per imitazione, di regole forse utili alla vita (“Mi viene da pensare che tacere sia una buona idea, mi viene da pensare che il silenzio – come quello che regna in casa – renda potenti”) alle fantasticheria che l’assistere alla sepoltura della madre suscita in lui: “Il prete dà l’ordine di calare la bara di mia madre nella terra. La cassa scende molto lentamente, ma lei dovrebbe sbrigarsi a gridare perché tra poco sarà troppo tardi”. L’impensabilità della morte resterà nella mente del bambino, che in proposito può confidarsi con gli unici amici che ha: “Spero che non faccia troppo freddo sottoterra, dico ai soldatini, la mamma non ha preso il giaccone, è ancora appeso nell’armadio”. I soldatini, compagni della sua solitudine: “A certo soldatini interessano le stelle. (…) A volte mi siedo lì con loro a guardare fuori. C’è un gran buio in mezzo alle stelle. Non si sa che cosa ci sia in quel buio, forse fantasmi, faccio io, e allora loro mi chiedono di tirare le tende”. Di “realismo magico” parla Vanni Santoni dialogando con Stefànsson, e in effetti possono tornare alla mente certi passaggi del bergmaniano Fanny e Alexander, ma si tratta solo di uno dei filoni del romanzo. Uno spazio altrettanto significativo prendono le considerazioni di carattere esistenziale: “(…) tutto finisce nel silenzio, sparisce per sempre tra l’erba alta dell’oblio. È tipico di noi uomini dar troppo valore alla nostra esistenza, ci comportiamo come se fossimo importanti e dimentichiamo la prospettiva più ampia: la storia del genere umano, l’universo”. Oppure: “L’esistenza di ciascun individuo sembra talmente dominata dal caso che un solo movimento della mano può stravolgere tutto. Ma una cosa è averne il sospetto, un’altra è trascinarlo alla superficie delle parole, perché allora è come se il terreno cedesse e si aprisse un crepaccio sotto i piedi”. Un’inclinazione filosofica, quella dello scrittore islandese, che si traduce tuttavia sempre in immagini, in situazioni, secondo la vena poetica che innerva la sua narrativa e lui stesso non sa disgiungere dal suo lavoro attuale di romanziere: “non capisco le differenze fra poesia e prosa mentre scrivo”, ammette. “Io ricordo le cose come fossero poesia ma quando scrivo mi vengono in prosa”. Ecco allora aprirsi scorci come questo: “Le stelle brillano, i cani abbaiano, io racconto questa storia; non c’è nessuna differenza. Cerchi il principio e intanto racconti una storia, forse per non pensare che non esiste nessun cielo. Nessun inizio, nessuna fine, solo un moto incessante, una distanza infinita e nient’altro”.

Del resto – come recita il sottotitolo di un altro romanzo di Stefánsson, Storia di Ásta, in queste note il 2 dicembre 2018 – Dove fuggire, se non c’è modo di uscire dal mondo?

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Essere fedeli ai propri personaggi

Donatella Di Pietrantonio, Borgo Sud, Einaudi 2020 (pp. 168, euro 18)

“È solo una battuta giornalistica o c’è del vero nel proposito che le è stato attribuito di scrivere un seguito dell’Arminuta?” chiedevo a Donatella Di Pietrantonio concludendo l’incontro a Brescia, alla nuova libreria Rinascita, nel novembre di tre anni fa. La risposta era stata evasiva: “non è escluso, chissà…”.

In realtà, quello di seguire le due sorelle protagoniste della storia fino alla loro mezza età era il proposito iniziale, ha rivelato in un’intervista recente la scrittrice*: “Solo che il loro incontro dopo due infanzie separate e i primi due anni di vita insieme erano stati così intensi che il ciclo narrativo mi si è come chiuso fra le mani. Ma queste sorelle non mi lasciavano in pace, soprattutto Adriana (…). Ho dovuto mantenere una promessa di fedeltà ai personaggi”. Ed ecco allora il seguito dell’Arminuta: Borgo Sud, nel quale sono evidenti gli elementi di continuità, a partire dalla scrittura asciutta, “che impone l’essenzialità del parlato – si diceva a proposito del primo romanzo, in queste note il 14 maggio 2017) – e sa accoglierne le icastiche espressioni dialettali, frutto di un’arcaicità che non ha abbandonato il costume e la mentalità, di un’esperienza della vita fatta di sopportazione, del sapere maturato in esistenze dominate dalla miseria”. Una scrittura che, secondo l’autrice, è “il modo più efficace per trasmettere emozioni”, perché questo è lo scopo: la trama è stringente, ma quella che si vuole restituire, anche in questo secondo romanzo, è “una storia di sentimenti, dei sentimenti fondamentali che abitano la vita, ogni vita, e non svaniscono, a lettura finita”. Sentimenti e valori, snodi decisivi della vita e laceranti confronti interiori. Lo rilevava con efficacia, dal suo punto di osservazione, Massimo Recalcati**, sottolineando “il carattere limpidamente tragico della scrittura e della struttura narrativa di Donatella Di Pietrantonio” e individuando il nucleo profondo del suo narrare nel fatto che “sapere che la vita porta con sé una atrocità irredimibile non significa cedere a questa atrocità”.

È questa in sostanza l’esperienza che vive l’Arminuta: con questo appellativo non possiamo che continuare a riferirci anche in Borgo Sud alla sorella che ha studiato ed è diventata insegnante di italiano all’università di Grenoble, richiamata improvvisamente a Pescara dall’annuncio che la sorella Adriana sta morendo dopo essere precipitata dalla terrazza su cui stendeva i panni. Incontriamo, nelle prime pagine, la protagonista in viaggio e la ritroviamo al capezzale della sorella nelle ultime: la storia sta nel mezzo, e si riconnette alla precedente dando conto della vita delle due donne attraverso una sequenza di flash back e di riprese che, senza offuscare la limpidezza della trama, si accavallano seguendo i percorsi della memoria, che “sceglie le sue carte dal mazzo, le scambia, a volte bara”.

“Da ragazzine eravamo inseparabili, poi avevamo imparato a perderci. Lei era capace di lasciarmi senza notizie di sé per mesi (…). Sembrava ubbidire a un istinto nomade”, “sempre così viva e pericolosa. Provavi forte il disagio di essere sua sorella”: pochi tratti bastano a farci riconoscere le due sorelle, ed è impossibile non cogliere le assonanze (persino sotto il profilo biografico) con la Lenù e la Lila della Ferrante, una delle scrittrici che del resto, oltre alla Morante, Di Pietrantonio riconosce di apprezzare. È Adriana soprattutto a ricordare l’indipendenza aggressiva di Lila, il suo aspettarsi aiuto come fosse sempre dovuto e il saper conservare, nonostante tutto, una propria verità, una sorta di integrità che resiste a incoerenze, meschinità, eccessi: “Adriana è così, s’immerge nella melma e ne esce candida”, “è un’opportunista istintiva, non per calcolo. Si serve di chi può esserle utile conservando una specie di innocenza, un candore da bambina. Sottintende che puoi disporre di lei allo stesso modo”. Suscita un fascino che non ci si sa spiegare questo personaggio, il fascino che ispirano le persone che sembrano vivere la vita senza mediazioni e ripensamenti a chi la vive invece attraverso il filtro della cultura e dell’introspezione, ed è colto da una sorta di ammirazione per chi vive senza guardarsi vivere, o così sembra. Ed è tanto più misteriosa questa differenza di modi di stare al mondo quando connota i figli di una stessa famiglia. Diversi eppure accomunati da una medesima esperienza di orfanità determinata dal carattere chiuso e ruvido dei genitori e dalle vicende vissute nella prima infanzia. È in forza di questa comunanza nella differenza che la sorellanza fa valere le sue ragioni e appare inscalfibile: “Con Adriana (…) eravamo pari, abbandonate a noi stesse, sole nel mondo, sorelle. (…) Per ognuna di noi restava la certezza dell’altra al fondo del dolore che non ci siamo mai confessate”. Una vicinanza solidale che emergerà soprattutto quando giungeranno al loro esito infausto le relazioni che le due hanno stabilito e hanno tenuto in vita, incapaci di smettere di amare chi si è iniziato ad amare. Come accade all’Arminuta quando il marito Piero la lascia, in pagine che fanno tornare alla mente la De Beauvoir di Una donna spezzata.

Storie di disamori e di abbandoni dunque sono quelle che intessono anche la trama di questo romanzo, capace di aprirsi a momenti che non si saprebbe definire se non come solenni, e intervengono soprattutto quando è la madre ad entrare in scena. Così il distacco fra lei e la figlia minore: “Era l’ultima volta che Adriana la vedeva. Il suo intuito prodigioso non l’ha aiutata, non ha saputo riconoscere nessun segno premonitore nella figura curva che si incamminava (…). Così non hanno messo da parte l’astio e non si sono salutate, non si sono strette in un abbraccio di pace. Adriana era troppo distante dalla morte per presagirla e, come tutti i giovani, confidava nell’eternità dei genitori”.

*“Donna moderna”, 13 novembre 2020
** “La Repubblica”, 4 novembre 2020

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi

Ilaria Rossetti, Le cose da salvare, Guanda 2020 (pp. 201, euro 17)

Due storie: quella di un ex professore di scuola media, da anni solo, abitante di un condominio risparmiato per un soffio dal crollo del ponte di Genova, e quella di un altro pensionato, non toccato direttamente dalla tragedia del ponte ma da un’altra, privata: la morte della moglie. A tenerle insieme una trentenne, da poco assunta da un giornale locale. Primo incarico: intervistare il professore che ostinatamente ha rifiutato di lasciare il suo appartamento. Perché? Vengono alla mente quel vecchio che non voleva lasciare la sua casa a Curon, alla vigilia della costruzione del bacino idroelettrico (quello del campanile che spunta dall’acqua: ce ne ha raccontato Marco Balzano un paio d’anni fa (Resto qui, Einaudi 2018, in queste note il 15 aprile 2018), ma qualcosa di molto simile pare sia avvenuto anche dalle nostre parti, quando venne realizzato l’invaso della Valvestino all’inizio degli anni Sessanta. Delle ragioni di Gabriele Maestrale però sappiamo di più, grazie a Petra, la giornalista, che poco a poco ne ottiene la fiducia e comincia a prender nota di ciò che l’uomo ha vissuto, sin dal momento del crollo del ponte, perché è allora che ha deciso, quando ha sentito il suo appartamento “scricchiolare” fra i “blocchi di cemento armato precipitati tutt’intorno”: “Gabriele capisce che forse crollerà” anche la sua casa, che “se ne deve andare il prima possibile”. “Ma – ecco il punto – quali sono le cose da salvare?”, da portarsi via nella fuga? Ebbene, lui “Non riesce a decidere quali sono le cose da salvare”, e dunque resta, bloccato dalla constatazione di “quanta vita c’è nelle nostre stanze”. Ossia del fatto che le cose non sono solo cose: le abbiamo incorporate nella nostra vita senza accorgerci, se non alla fine, o in casi estremi come questo, che loro hanno incorporato noi e chi ci stava vicino (è lo stesso tema che abbiamo incontrato nel libro di Massimo Mantellini recentemente letto (Dieci splendidi oggetti morti, Einaudi 2020, in queste note lo scorso 18 ottobre). 

E intanto, Petra si divide fra la storia dell’“Eremita del ponte” – come il giornale, con la solita stereotipata ricerca di sensazionalismo, lo definirà – e quella intima, lontana dalla cronaca, di suo padre, raggiunto dalla donna che era stata il suo primo amore a una settimana soltanto dalla morte della moglie. Le due storie crescono, si arricchiscono di significati che via via superano le circostanze in cui sono nate, e si complicano: nel palazzo pericolante non vive solo il professore, ma anche due clandestine eritree, madre e figlia, e l’arrivo di Vanda, l’antica fiamma del vedovo, non è stato dettato solo dal rimpianto, ma da una precisa volontà… Una trama avvincente, dunque, percorsa da quell’intercalare – le cose da salvare – che conosce sempre nuove modulazioni, fino a farsi metafora della scelta inevitabile che la finitudine della vita impone. Sono il passare del tempo e il riconoscimento, struggente e insieme sereno, a suo modo, della limitatezza dell’esistenza, a rappresentare il fulcro della narrazione. Lo avevamo potuto presentire, del resto, fin dagli esergo posti in apertura, dal primo soprattutto, di Cristina Campo: “Ho tante cose da dire! Quasi direi da salvare: tutta la tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi – cose che io sola sento di aver visto e sentito fino alla sofferenza e che assolutamente non devono morire”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La lotta di uno psichiatra nella Spagna ultracattolica di Franco

Almudena Grandes, La figlia ideale, Guanda 2020 (pp. 560, euro 20)

Le tre voci narranti che si alternano sono quelle di Germàn Velasquez, giovane psichiatra, María, un’infermiera ausiliaria, e Aurora Rodriguez Carbaillera, signora benestante e colta, ma anche assassina della propria figlia, uccisa senz’ombra di rimorso perché non corrispondente al modello che la donna avrebbe ritenuto rispondente alla propria eccellenza, alla propria missione di rinnovare niente meno che l’Umanità. Di qui il titolo italiano (La figlia ideale), senza dimenticare quello originale (La madre di Frankenstein).

Le storie che i tre personaggi raccontano sono innanzitutto le proprie, sulle quali si innestano le storie di chi ha contato nella loro vita: ha una struttura ad albero questo romanzo, che divaga e riprende il filo alternando, oltre alle voci, anche i piani temporali delle diverse vicende. Il tronco è senz’altro rappresentato dagli avvenimenti che segnano la vita di Germàn, ma di qui si dipartono i due rami maggiori (le due donne) che mettono a loro volta a quelli più sottili, ma per nulla secondari, di una schiera di personaggi diversi, in un intrico che sarebbe impossibile rendere in una breve nota.

A tenere insieme il tutto, oltre alla perizia narrativa dell’autrice, è il vero protagonista del romanzo: il franchismo, come del resto ci segnala il lungo sottotitolo facendo riferimento all’“apogeo della Spagna nazionalcattolica” e collocando con precisione i fatti (“Madrid, 1954-1956”). Lo scenario della vicenda è infatti un manicomio femminile che si trovava nei pressi della capitale: è lì che torna, dopo anni di esilio in Svizzera durate i quali si è impratichito nella professione, il protagonista, e fra le internate ne riconosce una, già paziente di suo padre, che ricordava bene, così come non l’aveva potuta dimenticare María, che della signora era stata, ancora bambina, amica e in qualche modo allieva, ma che ora non ne viene riconosciuta. O così pare, perché Donna Aurora è imperscrutabile nella sua depressione quanto nelle sue ire, nelle manifestazioni della sua intelligenza vigile e nei sogni deliranti che continuano ad accompagnarla. Il tutto, come si diceva, sullo sfondo di un paese nel quale sono in auge le “dottrine eugenetiche patrocinate dallo Stato franchista”, supportate dalla “morale ultracattolica che, interferendo continuamente nella pratica psichiatrica”, si oppone anche all’introduzione di un farmaco sperimentato in Svizzera, capace di attenuare i vaneggiamenti e le sofferenze indotte dalla schizofrenia e dunque, secondo le autorità della Chiesa, a tentare di “correggere il progetto divino”. La lunga storia della lotta – per nulla eroica, fatta piuttosto di onestà, di rispetto di sé stessi e quindi degli altri, e di amore – condotta da Germàn e María, nonostante le diversioni e le riprese continue, non è di quelle che si possono abbandonare prima di essere giunti all’ultima pagina del libro.

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Una tesi tempestiva e dirompente

Jonathan Franzen, E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica. Einaudi 2020 (pp. 64, euro 10)

Una tesi che giunge tempestiva, e dirompente, quella di Franzen, in tempi nei quali ricorrono – fino a diventar rituali, quando l’attenzione non è interamente assorbita dalla pandemia – i riferimenti al green new deal prossimo venturo: “Al contrario della destra – constata lo scrittore –, la sinistra si vanta di ascoltare i climatologi, i quali effettivamente riconoscono che la catastrofe è teoricamente evitabile. Ma non tutti sembrano ascoltare con attenzione”. Non si accorgono, o non vogliono tener conto di quel teoricamente. Perché praticamente, invece, la crisi climatica è irreversibile: sono solo “vecchie insulsaggini” quelle ripetute da chi – politico o militante ambientalista che sia – si dichiara convinto che “abbiamo ancora dieci anni” e dunque è il caso di “(metterci) al lavoro per salvare il pianeta”. Ecco la questione: dopo tante letture che si ponevano il problema dell’indifferenza diffusa al riscaldamento climatico, del fare come non si credesse alla sua realtà – da Gosh a Safran Foer a Vargas, per citare solo alcuni degli autori di saggi segnalati in queste note – Franzen, in poche, densissime pagine assume una posizione che molti (?) di noi non possono sentire del tutto estranea: occorre “venire a patti con la possibilità che l’apocalisse climatica si (verifichi) nel corso della (nostra) vita”, perché non c’è stata la volontà e non ci sono ormai più i tempi necessari di porvi rimedio, e dunque  insistere sulla questione poteva aver “senso negli anni Novanta, quando sembrava possibile che il mondo prendesse misure collettive per ridurre le emissioni di CO2”, non oggi che è “ormai chiaro che le misure collettive (sono) fallite”. Che cosa vuol dire allora, giunti a questo punto, quel “venire a patti” con la catastrofe incombente? E qui Franzen ci racconta del suo percorso recente: “il movimento ambientalista, che in precedenza difendeva animali e piante selvatici e si batteva per preservare i loro habitat, era stato quasi completamente fagocitato dalla questione del cambiamento climatico. Ormai i maggiori gruppi ambientalisti dedicavano gran parte delle loro energie e risorse a quell’unica questione, sostenendo che se non fermiamo il cambiamento climatico, nient’altro avrà più importanza.” Un discorso “futile”, se messo a confronto con il grado cui è giunta la crisi ambientale, mentre concreta dovrebbe essere l’“attenzione al mondo della natura, dove si (possono) ancora prendere misure di conservazione significative ed efficaci”. Gocce nel mare, si potrebbe obiettare, e Franzen ne è consapevole. Senonché, sostiene, far cose giuste dà senso alla vita. Anche quando è minacciata alle sue radici: “Una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono maggiore significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente. Ma la catastrofe che incombe rende più urgente quasi ogni azione di miglioramento del mondo. (…) è altrettanto importante combattere battaglie più piccole e locali che avete qualche realistica speranza di vincere. Continuate a fare la cosa giusta per il pianeta, sì, ma continuate anche a cercare di salvare ciò che amate nello specifico – una comunità, un’istituzione, un luogo selvaggio, una specie in difficoltà – e a rallegrarvi per i vostri piccoli successi. Ogni cosa buona che fate è presumibilmente una protezione contro un futuro più caldo, ma la cosa davvero importante è che è buona oggi”.

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La gratitudine, un sentimento plurale, che si realizza nella reciprocità

Delphine de Vigan, Le gratitudini, Einaudi 2020 (pp. 160, euro 17,50)

“E poi c’è stato quel giorno d’autunno, che nulla aveva preannunciato. Prima le cose funzionavano. Dopo non funzionavano più”: la vecchiaia conosce in molti casi, anche se non sempre con un carattere così repentino, un punto di svolta. Quello che separa l’autosufficienza dalla dipendenza dagli altri; che è rappresentato dall’abbandono forzato della propria casa, in cui si poteva continuare “a leggere, a vedere la televisione, a ricevere qualche visita”, per trasferirsi in un posto che impone le sue regole e non è un’altra casa ma di fatto lo sarà, fino alla fine, ormai sfumata la libertà di frequentare chi si preferisce e obbligati invece a relazioni sgradevoli, come quella con la direttrice della Rsa in cui Michka, la protagonista, si deve rassegnare a vivere. Perché “(sta) perdendo”: non sa dire che cosa ma lo sente.

Tutto si gioca nel dialogo, in questo romanzo. Anche ciò che Michka sta perdendo emerge dalle risposte che dà: “fa pena”, ma voleva dire “va bene”, e il condominio è “senza difensore”, per cui raggiungere il sesto piano è faticoso… Sono le parole, le parole giuste che questa vecchia donna non trova più quando le servono, lei che ha lavorato in un giornale come “correttrice” e non si lasciava sfuggire “i refusi, gli errori di sintassi, le concordanze sbagliate, le ripetizioni…”. Lei, donna di letture colte, si ritrova fra vecchie sconosciute, costrette alla sedia “a rondelle”, a dover vivere “un’esistenza sminuita, ristretta, ma perfettamente regolata”, fatta di “passettini, sonnellini, merendine, uscitine, visitine”. Non fosse per la presenza frequente di Marie – non una parente, di più (è stata allevata da Michka come una figlia) – e per i momenti passati con Jérôme, l’ortofonista dell’istituto. Sono loro a raccontarci di Michka e ad offrirci una gamma completa dei sentimenti che questa vecchiaia estrema – eppure a suo modo lucida, ribelle non di rado, ironica sempre – suscita. Il rispetto, in primo luogo: lo stato in cui si trova non può far dimenticare la donna che è stata, e non può quindi – avverte Marie – esser trattata come una bambina; ma anche il senso di impotenza di fronte alla pochezza cui la comunicazione, se deve ricorrere al telefono, è costretta. E poi la sorpresa – di Jérôme – di fronte alla vivacità intellettuale della sua paziente, l’ammirazione per l’arguzia che filtra attraverso le sue frasi, rese in molti casi bislacche dall’afasia incipiente. Si commuove, l’ortofonista, davanti a questa vecchia signora come agli altri vecchi che cura, perché quando li incontra per la prima volta è sempre “all’immagine del Prima” che pensa, al fatto che hanno vissuto, hanno amato, gridato, gioito: è denso di lezioni come questa, il romanzo, di lezioni su come superare le barriere che impediscono di stabilire relazioni vere, significative e trasparenti con i vecchi (“i vecchi”, come pretende si dica Michka, non “le persone anziane”). Barriere che sono in gran parte frutto della rimozione dei pensieri a proposito di sé stessi che i vecchi inducono: “Com’è possibile?” si chiede Jérôme davanti all’avanzare dei guasti della vecchiaia. “È davvero quello che ci toccherà, a tutti quanti, senza eccezioni?” E neanche Marie sfugge a pensieri simili: “Quando mi immagino da vecchia, proprio vecchia, (…) a sembrarmi più dolorosa, più terribile, è l’idea che non mi tocchi più nessuno. (…) forse il corpo si accartoccia, s’intorpidisce come per un lungo digiuno. O forse invece grida per la fame, un grido muto, insopportabile, che più nessuno vuole ascoltare”.

Riconoscere l’inevitabilità del declino – non accettarlo serenamente, come spesso la letteratura sulla vecchiaia disinvoltamente raccomanda – è condizione della serietà che il rapporto con i vecchi chiede: “Possiamo solo rallentare le cose, ma non possiamo fermarle”, dice, sia pure con qualche esitazione, l’ortofonista alla paziente, la quale a sua volta appare consapevole: “so benissimo come andrà. Alla fine non ci sarà più niente, niente più parole”. E l’autrice, in uno dei rari passaggi in cui prende la parola, riconosce a sua volta che “invecchiare è imparare a perdere. Incassare, ogni settimana o quasi, un nuovo deficit”, e allora “Riadattarsi. Riorganizzarsi. Fare senza. Passare oltre. Non avere più niente da perdere”. È la progressione che la protagonista è costretta a vivere, ma che non cancella il tratto fondamentale della sua esperienza, quel che la vita le ha insegnato: la gratitudine, le gratitudini anzi, per chi si prende cura di lei e ne riceve un laconico “Gratis”, il grazie di cui Michka è capace, ma anche per coloro che, tanto tempo prima l’ha salvata, dopo che i genitori erano scomparsi in un lager. Nicole e Henri: ne ricorda solo i nomi, non il cognome. Ma riuscirà a raggiungerli con l’aiuto di Marie e soprattutto di Jérôme, i suoi due angeli custodi, mossi anche loro dalla gratitudine, la gratitudine per questa vecchia donna che ha saputo vivere la sua vita, senza perdere di vista gli altri, fino all’ultimo.

È un sentimento che si declina in molti modi, un sentimento plurale, la gratitudine di cui ci viene raccontato in questo romanzo ma, soprattutto, un sentimento che si realizza nella reciprocità.

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I libri e le vite, prestiti a tempo

Domenico Dara, Malinverno, Feltrinelli 2020 (pp. 332, euro 18)

Timpamara, un paese e la sua gente – un catalogo di figure segnate da una fisionomia e da una storia irripetibili –, ricorda uno di quei luoghi che i romanzi latinoamericani hanno reso indimenticabili. A farne uno scenario inconfondibile è in questo caso la presenza di un maceratoio, annesso alla cartiera cui fornisce la materia prima, nel quale migliaia di libri finiscono in poltiglia, non senza aver però prima disperso per l’aria che circola fra le vie del paese pagine che gli abitanti prendono l’abitudine di leggere, cadendo vittime del “morbo della lettura” e traendone nomi letterari per i loro figli. Sicché a Timpamara può capitare di chiamarsi Victorugo o Mopassàn, Marselprù o Ortìs, e persino Astolfo, come il protagonista di questa storia fatte di storie, Astolfo Malinverno, quello del titolo appunto, che impariamo a conoscere, stimare, fino ad affezionarci alla sua persona pagina dopo pagina e a voler vedere che cosa accadrà del suo amore per Emma Bovary. Già, perché oltre che bibliotecario, Malinverno è guardiano del cimitero e nel personaggio flaubertiano identifica fin da subito la donna ritratta nella fotografia che decora una tomba senza nome e senza date. Una donna che si farà presente, in carne ed ossa…

I libri da una parte, i morti dall’altra: sono questi i due mondi nei quali si svolge la storia, due mondi fra loro assonanti: anche i libri muoiono – per morte violenta nel maceratoio, o per lenta consunzione, della carta, della legatura – e difatti seppellisce anche loro, il bibliotecario-camposantaro, riflettendo sul fatto che “in fondo tutto quello che ci viene dato nella vita è un prestito a tempo che prima o poi dovremo rendere” e dunque “nulla ci appartiene davvero, come se l’universo fosse una grande biblioteca nella quale si dispensano comodati d’uso di solitudine, gioia, rimpianto, tutti appuntati su schede scritte minutamente, sapendo già che a qualcun altro andranno un giorno i nostri oggetti, le nostre sensazioni, i nostri respiri”. Sono la semplicità di Malinverno, la verità trasparente del personaggio a far sì che pensieri del genere non risultino posticci né suonino retoricamente aggrondati. È un filosofo, lui, di quelli che non scrivono, perché sanno che il destino di ognuno “è già scritto”, “da un Signore immenso con in mano un quaderno sul quale scri(ve) le vote degli uomini e le loro morti”. Cionondimeno, le nostre vite non sono bell’e fatte, perché “noi non siamo quello che abbiamo vissuto; siamo quello che abbiamo pensato, immaginato, sperato, desiderato, dimenticato” e “l’universo mai saprà ciò che davvero è stata la nostra esistenza silenziosa e clandestina, nessuno mai conoscerà i nostri viaggi segreti, i nostri amori immaginati…”. E difatti – sono le parole conclusive – se il destino dei libri è morire come esseri viventi, anche gli uomini, quando smettono di respirare, non diventano che storie”.

Oltre che alla sua geniale levità, si è attribuito il successo straordinario di Valérie Perrin e del suo Cambiare l’acqua ai fiori (in queste note il 20 ottobre dell’anno scorso) alla propensione – indotta dalla pandemia – a pensare in modo diverso, meno episodico e superficiale alle grandi questioni della vita e della morte: se così è, merita di rappresentare un riferimento analogo il romanzo di Dara. Un romanzo filosofico, a suo modo, sorretto da una storia avvincente.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Le luci e le ombre dell’amicizia maschile

Roddy Doyle, Love, Guanda 2020 (pp. 352, euro 18,50)

Due amici, irlandesi, quasi sessantenni. Davy è andato ad abitare in Inghilterra – l’ha voluto la moglie, donna indipendente, imprevedibile, fascinosa –ma è a Dublino da qualche mese per assistere il padre, ormai alla fine.  Una sera telefona a Joe, grande amico fin dai tempi della scuola. E fanno quello che fanno da quelle parti: il giro dei pub, a bersi non san più neanche loro quante pinte di birra. “I pub, il mondo degli uomini”. Le donne, in netta minoranza in questo ambiente, “erano ospiti. Gli uomini i padroni di casa”. “Gli uomini uscivano da un mondo per entrare in quello vero. Quello segreto. Quello sacro. Quello che conoscevano soltanto loro. (…) Fuori era tutta una messinscena, giusto sopportazione. La vita era il pub”.

E in diversi di questi luoghi si svolge la storia, fatta del racconto di un fatto accaduto trentasette anni prima. In un pub, ovviamente: i due avevano conosciuto Jessica. “La nostra ragazza” l’avevano chiamata subito, perché ne erano stati entrambi ammagliati. Ma è Joe che casualmente la rincontra quasi quattro decenni più tardi. Ed è fatta: gli sembra di essere rimasto sempre con lei, come se gli anni, un matrimonio – felice, per altro – e i figli non ci fossero stati, non contassero. Li lascia infatti, per mettersi con lei, Jess. Perché fin dalla prima volta che si rivedono, dopo quell’incontro imprevisto, lui ha sentito di “essere entrato nei giorni che gli restavano da vivere”, ha sentito di coincidere con la propria vita, come se un vuoto di cui credeva di non sapere si fosse improvvisamente colmato. Il che non gli impedisce di continuare ad amare la moglie… Tutto qui: la storia è questa. Detta, ripetuta in cento modi, in una serata alcolica che è Davy a raccontare. Davy, che ascolta l’amico e capisce, perché la sa anche lui la differenza che c’è fra “star bene”, con una donna, e l’esserne innamorati…

Il tema vero del libro è l’amicizia maschile, le sue luci e le sue ombre. I due si spiano, misurano quanto di quel che era è rimasto nell’altro, e quanto invece è cambiato, dell’altro facendo lo specchio di sé stessi. Un’amicizia vera, comunque, che permette di dire tutto, anche quello che indispone, in un andirivieni fra passato e presente che sembra azzerare il tempo. Anche se il tempo si fa sentire: la vecchiaia è alle porte, lo sanno tutt’e due, i segni non mancano, anche si ci scherzano sopra. Ma il fatto è che l’amore è ancora lì – esperienza decisiva della vita, a conti fatti. Tanto da intitolarci il libro. L’amore. Dimensione pervasiva, diversa nelle diverse stagioni della vita, diversa nelle diverse relazioni che si vivono. L’amore, ma anche la fine, la morte: nella forma dell’agonia del padre di Davy, che conclude il libro, in pagine che gettano luce su tutto quanto ha preceduto.

E c’è dell’altro, a fare di questo romanzo una lettura in cui si sprofonda, battuta dopo battuta: la storia è affidata quasi interamente al dialogo. Un dialogo spezzato, pieno di interruzioni, di mezzi insulti, di scuse e messe a punto, di ironia e umorismo.

È così che si parla delle cose che contano nella vita, sembra dirci l’autore. È così che ne sanno parlare gli uomini, quanto meno.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il corpo del poeta

Marco Santagata, Il copista, Guanda 2020 (pp. 144, euro 16,00)

“La schiena rigida, le giunture anchilosate”, “l’ulcera allo stomaco”, “uno stimolo al basso ventre” e “un confuso desiderio di urinare”, sintomi di quella che oggi si riconoscerebbe come prostatite, che tuttavia non escludono il desiderio confuso di “versare il seme dentro al corpo di una sconosciuta”: il ritratto, o il quadro nosologico se si vuole, di un vecchio, insomma, che pure non ha superato i 64 anni. Ma nel Trecento era una bella età… Eh sì, perché il vecchio di cui si parla – immalinconito, rancoroso e solo, non fosse per la presenza dei una vecchia governante – è Francesco Petrarca, e chi lo descrive con tanto spietato realismo è un petrarchista di fama internazionale, cui dobbiamo la cura di un’edizione recente del Canzoniere (nei Meridiani Mondadori) e l’individuazione della novità rivoluzionaria del poeta, la cui poesia – leggiamo in un saggio pubblicato nel sito dell’autore: – “rompe con la dimensione sociale” per sostituivi una dimensione interiore”, al cui centro non c’è più “l’amata”, ma “l’Io del poeta”. Non è tuttavia lo storico della letteratura che incontriamo qui, bensì il romanziere, che rivisita la materia dei suoi saggi in chiave narrativa (così aveva fatto anche nel 2015 a proposito di dante e Beatrice con Come donna innamorata (Guanda). Altrettanto adesso, con un romanzo – che aveva già visto la luce dieci anni fa da Sellerio e ora l’autore ha rivisto – nel quale compaiono anche lo scetticismo e i dubbi religiosi del poeta, aspetti già sondati in sede accademica e che ora si fanno ingrediente non secondario di un ritratto che, pur sempre entro i limiti della verosimiglianza e del rispetto della verità storico-biografica, deve molto all’immaginazione del narratore. A partire dalla scelta di avvicinare il protagonista in un giorno per lui fatidico, un venerdì – siamo a Padova, nel 1368 –, un venerdì come quello che nel 1327 ricorreva il 6 aprile, data del primo incontro con Laura ad Avignone; un venerdì come quello della sua morte per peste nel 1348.  Una Laura che nel frattempo aveva vissuto, comunque, e aveva fatto a tempo a invecchiare (a differenza delle donne dello Stil Novo che potevano morire, ma non conoscere la terza età, ci fa notare l’autore stesso in un’intervista sulla Lettura dello scorso 10 maggio) e a diventare una “matrona sfiancata dalle gravidanze”, di cui l’ultima volta che l’aveva vista non aveva potuto non notare il “culone ballonzolante” e la “pancia gonfia che neppure si distingue dalle tette”.

Ma si deve all’immaginazione partecipe del narratore anche la descrizione non  solo degli acciacchi fisici del poeta, ma anche dei suoi dolori morali: per l’abbandono, l’anno prima, da parte del suo giovane copista, tal Giovanni Malpaghini, su cui aveva trasferito le aspettative che il figlio Giovannino (ormai morto da tre anni, anche lui di peste) aveva deluso, con il suo assoluto disinteresse per la cultura, e che non aveva  potuto soddisfare neanche il nipote Franceschino, figlio della figlia Francesca, la precoce scomparsa del quale ha ancor più irrimediabilmente ferito l’animo del nonno.

Una vita famigliare travagliata, che nega ogni consolazione al vecchio poeta, e si era svolta del resto all’insegna di un rapporto equivoco, e spregiudicato, con le donne, tanto che entrambe le madri dei due figli restano ignote (come del resto quella, o quelle, dei cinque figli di un amico di Petrarca, Giovanni Boccaccio, che compare nel romanzo). Senonché, anche in questo caso la fantasia dell’autore cerca di colmare un vuoto, almeno per quel che riguarda la genitrice di Giovannino: una zingara, “capelli corvini, pelle ambrata, lucida, profumata” (“Caro Francesco, a te sono sempre piaciute le baldracche, si diceva. Puttane e concubine sono le mogli del poeta!”).

Resta nella mente, a letture finita, la figura di questo vecchio ridotto a pagare in solitudine il prezzo di una vita condotta all’insegna di un “desiderio bruciante di gloria” che si è rovesciato ormai nel quotidiano “desiderio di avvoltolarsi nel dormiveglia”, in “un torpore animalesco”, in una “pigrizia” che dal momento del risveglio si è via via estesa all’“intero arco del giorno”, sì che la pur continua produzione di scritti, accolti da una schiera di estimatori diffusi in tutta Europa, è solo il frutto di una coazione, di un lavoro in cui la “grazia di un tempo” ha lasciato il posto ai “sotterfugi” sufficienti per scrivere “frasi ritrite” e lettere del tutto formali: “Caro Francesco – è la sconsolata e lucida ammissione del poeta – tu petrarcheggi, sei la scimmia di te stesso”. Ma un “compiaciuto disincanto” ha nonostante tutto la meglio: “il barare era un buon mezzo, se non per conquistare la fama, almeno per conservarla”. È il ritratto di un uomo malato di un bisogno insopprimibile di riconoscimento quello che alla fine il romanzo ci consegna, un Petrarca molto attuale, anche in questo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un romanzo di formazione alla fine di un’epoca

Paolo Malaguti, Se l’acqua ride, Einaudi 2020 (pp. 189, euro 18,50)

Metà anni Sessanta; un paese, Battaglia, della Bassa Padovana con la sua rete di fiumi (Brenta, Bacchiglione) e canali che ne derivano: questo lo sfondo su cui si svolge la vicenda di Ganbeto, nipote e figlio di barcari. Il nonno Caronte è proprietario di un burcio, la Teresina, uno dei tanti barconi da carico che navigano nella zona spingendosi fino a Chioggia e Pellestrina, e a Venezia qualche volta.

Una vicenda in cui campeggia, oltre a quella del protagonista, la figura del paròn del burcio, conoscitore consumato del suo mestiere, ruvido e intuitivo, sprezzante e generoso: chi ha visto in televisione Andrea Pennacchi, detto il Pojana, non può che dare il suo volto e la sua voce al vecchio Caronte.

Desideroso di lasciare una scuola dove si parla una lingua lontana da quella di tutti i giorni e si insegnano cose astratte e  inutili, Ganbeto – magrino e curvo come il ferro a U che serve a unire la catena all’ancora – aspira a fare il barcaro, come il nonno e il padre, e il suo sogno si avvererà, per due estati, quando però il tempo dei burci è ormai alla fine, persino di quelli che non usano più la vela (come la Teresina) ma il motore e sono tuttavia insidiati dalla concorrenza che sempre più esercitano i camion.

Con una lingua densa di termini dialettali (opportuno il glossario in appendice), si evocano atmosfere alla Huckleberry Finn, ma che richiamano, sempre con un sorriso partecipe – color Amarcord, a volte –, anche il Carlino di Ippolito Nievo quando Ganbeto vede per la prima volta il mare, oltre la laguna.

Con i primi rudimenti – badare ad esempio se l’acqua ride, gorgoglia cioè, perché lì  il fondo è pericolosamente basso – il ragazzo conosce i primi turbamenti sessuali, il fascino misterioso cui allude un parola altrettanto enigmatica, “formicazione”, e si innamora di Lucia, la giovane di bottega incontrata a Pellestrina, in ciò inaspettatamente incoraggiato dal nonno del quale, dopo che il padre ha dovuto rassegnarsi a entrare alla “Fabrica”, da morè (mozzo) che era è diventato marinèr (aiutante in seconda, si direbbe se il burcio fosse una nave).

Ma il tempo dei barcari, si diceva, è giunto al tramonto e la fierezza di Caronte si farà puntiglio, attaccamento ostinato a una cultura dissolta: “Noialtri giriamo il mondo, siamo foresti dapartutto, l’unica nostra casa l’è la barca”, dirà il vecchio fino all’ultimo, fino all’”acqua granda” del novembre ’66 in cui scomparirà. Mentre lui, Ganbeto, ormai dismesso il suo nome da “bocia”, si rassegnerà a un lavoro sedentario, in un’officina, consolando con la tanto desiderata Vespa e un nuovo amore il suo cuore di barcaro. Un romanzo di formazione sempre lieve nei toni, che rifuggono dall’epica ma non da un rimpianto sincero, a tratti struggente.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Prescrizioni per aspiranti scrittori

Vanni Santoni, La scrittura non si insegna, minimum fax 2020 (pp. 99, euro 13)

Però la “mentalità dello scrittore”, il “pensare come uno scrittore”, sì, quello si può insegnare – leggiamo nell’introduzione – purché non si associ a questo modo di pensare l’immagine romantica dello “scrittore solitario e geniale, che lotta con le sue sole forze nonostante un’editoria sorda e corrotta che cerca di ostacolarlo in ogni modo”.

Segue una rassegna di pareri autorevoli secondo i quali, appunto, la scrittura non si insegna. Uno per tutti, Natalia Ginzburg: “Certo, se hai tra le mani un manoscritto, allora puoi dire la tua, osservare: qui mi sembra troppo lungo, qui troppo sovraffollato. Ma questo non è insegnare, si tratta di consigli”. Senonché, le scuole di scrittura sono dilagate e l’autore stesso ammette di tenere svariati corsi, pur essendo dell’opinione espressa nel titolo. Come si spiega? “Il motivo è uno, semplice e perentorio: la vastità infinita delle possibilità di un testo narrativo implica che infinite cose si possano scrivere in infiniti modi”. E allora le scuole di scrittura non sono dannose, sempre che non si prefiggano di insegnare definizioni e regole della narratologia: “se uno scrittore è interessato alla ‘tecniche’ – diceva Faulkner – farebbe meglio a darsi alla chirurgia o alla muratura. (…)  Un giovane scrittore che pensa di poter seguire una teoria è un imbecille”. Insegnare a scrivere, insomma, non è offrire cibi nutrienti e già cucinati che si tratta solo di digerire: è piuttosto “una sorta di integratore, perché a scrivere si impara solo leggendo e scrivendo”.

Poste queste premesse, è possibile prendere in considerazione alcuni punti fondamentali, che l’autore sceglie di proporre in un torrenziale e franco, a volte provocatorio, colloquio con l’immaginario aspirante scrittore.

Quello che abbiamo fra le mani è infatti un pamphlet – l’autore stesso lo definisce così – che dà suggerimenti precisi: al di là del tono volutamente perentorio, essenziali, utili, seri. Perché tratti dalla propria concreta esperienza di scrittore.

E dunque, leggere innanzitutto, e leggere ancora, ma non di tutto. Occorre partire niente meno che da Proust e Joyce – sì: dalla Ricerca e dall’Ulisse – per affrontare poi alcuni “romanzi-mondo” del ’900 e proseguire con altri autori, molti altri (vedi elenco, anzi: elenchi). Perché “l’aspirante scrittore deve anzitutto cambiare il proprio approccio alla lettura” e “la prima cosa che va curata, se si vuole scrivere seriamente, è la dieta. Solo nutrendosi di libri buoni si può pensare di produrne uno decoroso”, senza dimenticare che ci sono libri buonissimi dai quali però “non è immediato imparare qualcosa” (Lo straniero di Camus, per dire).

Dopo la “dieta”, la “disciplina”: “Se vuoi scrivere seriamente dovrai togliere tempo a molte cose, e in ogni momento avere con te un libro. In genere gli altri interessi scompaiono e anche la vita privata ne patisce”. Inevitabile, perché si tratta – ecco il “segreto aureo” – di scrivere tutti i giorni almeno duemila battute, “meglio se a orari fissi” e senza impegni e scadenze incombenti: “l’ispirazione arriva regolarmente solo se ci si mette al lavoro con regolarità” e allora, solo allora  “ci si scopre a pensare al romanzo o al racconto da scrivere anche mentre non si sta scrivendo” (e dunque sempre un taccuino a portata di mano) e la fondamentale fase di “incubazione”, successiva a quella dell’“ideazione”, può protrarsi durante tutta la fase di “stesura”, che è invece necessario non si mescoli con l’ultima, quella di “revisione”. E tantomeno con la navigazione in rete, anche se finalizzata a trovar vocaboli o notizie utili alla scrittura in corso. Meglio rimandare a dopo.

E il famoso blocco? il non saper o il non aver più voglia di scrivere? C’è il rimedio: portare avanti tre o quattro capitoli o racconti in contemporanea. Da uno o dall’altro si ripartirà. Ma se non si sa proprio cosa scrivere? Scrivere comunque, copiando la pagina di un grande, se occorre: l’essenziale è non stare neanche un giorno senza scrivere.

“Questo libro potrebbe finire qui”, non fosse che resta da “insegnare soprattutto cosa non fare”, come diceva Carver. Non “cadere nei cliché”, in primo luogo, nei “luoghi comuni”, che possono annidarsi nello stile come nella vicenda (per i primi, si veda l’illuminante elenco formule stereotipate e frasi fatte). In secondo luogo, “non scrivere cose noiose”, cose cioè in cui mancano “necessità” o “specificità”. Ovvero: “tutto ciò che metti in un testo deve servire a qualcosa”, e guai alle spiegazioni non richieste da parte del’autore; fuggire la genericità, inserendo pochi ma essenziali dettagli, con originalità, in modo da costruire una propria “voce”; non far mancare una dimensione di conflitto: “‘un gatto va sul tappeto’ non è una storia. ‘Un gatto va sul tappeto di un altro gatto’, invece, sì”.

E infine, una volta scritto, non omettere di revisionare, rileggere e rileggere una volta ancora (anche “in ordine inverso”, anche ad alta voce, anche su carta) quel che si è scritto. Ma non oltre quel punto oltre il quale invece di migliorare si comincia a peggiorare il testo. E poi farlo leggere ad altri, ad amici che siano “pari”: non il consorte o l’amico più caro, per intenderci, ma neanche l’autore noto, lo scrittore di professione che tempo per i manoscritti degli altri non ne ha. “Pari” sono gli amici che scrivono anche loro, o ci provano, non importa se trovati attraverso internet. Far leggere quel che si è scritto, dunque, anche pubblicandolo su blog personali o collettivi. Anche raccontandolo quando ancora lo stai scrivendo.

A quel punto, la pubblicazione non è che la forma finale dell’ostensione: finale, il che significa che il naturale e comprensibile desiderio di pubblicare non deve essere dominante rispetto a tutto il lavoro necessario per metterlo al mondo, il tuo romanzo. A quel punto evitare gli editori a pagamento. Meglio il self-publishing, “un’opzione più pulita”, ma senza pensare che rappresenti un primo passo sulla via del diventare davvero uno scrittore (né una buona presentazione per editori veri). Le riviste letterarie piuttosto (un utile elenco, anche di queste), o i premi per inediti. Quanto agli agenti editoriali, non sono una garanzia, anche se il loro ruolo è destinato a diventare sempre più decisivo. Una considerazione conclusiva, anche se affidata a una nota in una pagina lontana dalla fine del libro: se un libro è buono viene pubblicato. “Questo perché, sebbene gli editori vogliano una sola cosa – vendere libri – esiste ancora una fascia specifica di mercato, quella dei lettori di buona letteratura, ed è a essa che devi puntare”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La cultura e l’arte di arrangiarsi

Franco Faggiani, Non esistono posti lontani, Fazi 2020 (pp. 285, euro 18)

Monuments Men: è il film del 2014 a tornare in mente. Anche nel romanzo di Faggiani si tratta infatti di strappare al furto dei nazisti quadri di valore. Ma i protagonisti di questo romanzo non sono eroi. Un duo donchisciottesco, piuttosto: il professor Filippo Cavalcanti, archeologo di fama – è frutto di uno scavo da lui diretto il prezioso sarcofago che sta per prendere la via della Germania insieme al resto – degradato a oscuro impiegato negli scantinati del ministero, è un colto e convinto difensore del patrimonio artistico nazionale. Spedito da Roma a Bressanone per controllare il regolare svolgimento del trasporto non si lascia scappare l’occasione di impedirlo, mosso da senso di giustizia e civile spirito di servizio più che da una presa di posizione antifascista che in lui – per sua stessa ammissione: è la voce narrante – non ha mai superato i limiti di “un’opposizione minima, un fatto d’orgoglio personale”. Non ce la farebbe tuttavia se non incontrasse casualmente Quintino, giovane ladruncolo di Ischia mandato lassù al confino, maestro nell’arte di arrangiarsi, animato da un ottimismo inattaccabile. È lui, meccanico provetto, a rubare un camion grosso e potente (“’o rinoceronte”), a dargli l’aspetto di un mezzo della Croce Rossa, a caricarvi le casse in cui si custodisce il prezioso carico e generi alimentari da barattare con carburante, a ideare un percorso che, per giungere a Roma, passerà per la Svizzera e il Piemonte al fine di evitare tedeschi e repubblichini.

A poco a poco, il dislivello culturale e la differenza di età fra i due (il professore, tanto distinto da non sfigurare nel travestimento da colonnello tedesco, ha passato i settanta), così come il divario fra il disincanto pessimista dell’uno e l’intraprendenza  spregiudicata dell’altro, vanno attenuandosi e il professor Cavalcanti devo ammetterlo: Quintino, orfano di madre, con un genitore violento, cresciuto grazie alle cure provvidenziali di una signora altolocata e nonostante ciò finito a fare il ladruncolo, è  “davvero un ragazzo sveglio e allegro, con un passato difficile ma che in un futuro meno severo se la sarebbe potuta comunque cavare senza difficoltà”.  Non lo dimostrano solo le sue trovate geniali, che trovano nell’attempato compagno una spalla sempre meno renitente, ma anche la sua generosità con i poveracci che incontrano in una lunga peregrinazione lungo la linea Gotica in fase di costruzione: un monaco errante, un donna nascosta in  un cimitero coi due figlioletti, grazie alla quale possono incontrare il marito, capo partigiano, e poi altri monaci, a Camaldoli e a Fonte Avellana, finché finiscono nelle mani dei tedeschi, e saranno ancora una volta il coraggio e la prontezza, il “genio selvatico”  di Quintino a salvarli e a permettergli di giungere a Roma, nel frattempo liberata e nella mani di americani che si mostrano tuttavia non meno famelici dei tedeschi quando sentono parlare di opere d’arte allo sbando. E allora non c’è che una soluzione: proseguire il viaggio, puntare su Ischia, perché “non ci sono posti lontani”.  È dunque là che finiranno i quadri dopo un viaggio di centinaia di chilometri: mimetizzati fra i falsi di cui la marchesa, ormai svanita ma sempre abile nella copia pittorica, ha costellato le pareti della sua villa. E a Ischia, benché promosso a sovrintendente alle Belle arti e ai Beni archeologici nella capitale, ma in una situazione che rende impossibile l’esercizio di un ruolo del genere, finirà anche il professore, in attesa che torni ad esistere uno Stato abbastanza affidabile da potergli restituire quel che lui e Quintino hanno impedito ai nazisti di portarsi via.

Sembra di raccontare un film – tipo La Grande fuga – e invece è la trama di un libro, questa. Un libro cui sembra non mancare nulla per passare allo schermo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Le cose non sono soltanto cose

Massimo Mantellini, Dieci splendidi oggetti morti, Einaudi 2020 (pp. 140, euro 12)

Dieci “oggetti”. In realtà, dieci “cose”. Perché – lo spiegava bene Remo Bodei, citato dallo stesso Mantellini, in La vita delle cose (Laterza 2009) – “il significato di cosa è più ampio di quello di oggetto (…). Investiti di affetti, concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano, gli oggetti diventano cose, distinguendosi delle merci in quanto semplici valori d’uso e di scambio”. Di qui il “valore affettivo” di molte delle cose che abbiamo in casa, il nostro non sapercene disfare. Come quando si deve affrontare quel lavoro inquietante – di più: perturbante – che non si vorrebbe mai dover fare e invece tocca a un certo punto più o meno a tutti: svuotare la casa dei genitori che non ci sono più. È allora che ci si rende conto che “Le cose non sono soltanto cose, recano tracce umane, sono il nostro prolungamento. Gli oggetti che a lungo ci hanno fatto compagnia sono fedeli, nel loro modo modesto e leale”: parole di Lydia Flem, autrice di un libro che può tornar utile, al momento buono (Come ho svuotato la casa dei miei genitori, Archinto 2005). Senza contare che a qualcuno può capitare di dover svuotare la propria, di casa: vedi il protagonista del recente Le cose da salvare di Ilaria Rossetti (Neri Pozza 2020), che, crollato il ponte – quello di Genova – si trova a dover scegliere che cosa portare con sé, ma non ce la fa, perché “Ci sono troppe cose da salvare”: “È assurdo quanta vita c’è nelle nostre stanze”.

Ma torniamo a Mantellini e ai suoi oggetti. Anzi, alle sue cose: dieci. Anzi, otto, perché le ultime due sono il silenzio e il cielo, immateriali, di tutti e di nessuno. Otto più una però, perché fra quelli morti c’è anche “uno splendido oggetto vivo: il libro”.

E dunque: le mappe, le cartine geografiche che si tengono, si tenevano, in macchina, il telefono e la macchina fotografica, la penna e la lettera, e poi i giornali e i dischi, e i fili (quelli del telefono per esempio, o della radio, resi inutili dal cordless e dal wifi).

Un’operazione non inedita. Ci ha provato anche Francesco Guccini, pochi anni fa, con il suo Dizionario delle cose perdute (Mondadori 2012), ma Mantellini va più in là. Non si limita a evocare esperienze e ricordi in chi – come si dice – non è più giovane.  Sempre sulla scia di Bodei, adotta la categoria di “oggetti orfani”, quegli oggetti, o meglio: quelle cose che “ci sopravvivono, certo, ma allo stesso tempo muoiono con noi, se quei legami [che abbiano stabilito con esse], chi verrà dopo di noi, non saprà più riconoscere”. Un esempio per tutti: il telefono di bachelite, nero, con la rotella per fare il numero. di quelli attaccati al muro magari, nel corridoio. I “nostri figli”, se mai gli capita di vederne, “Li guardano e non capiscono. Si domandano che bisogno ci (fosse) di inchiodarli a quel modo, si chiedono per quale motivo, per telefonare, (fosse) necessario rimanere in piedi accanto a un muro. Sono domande quasi retoriche per noi che abbiamo vissuto il passaggio fra la telefonia fissa e quella mobile ma sono quesiti autentici”. Se poi sono bambini nati dopo il 2000 a contemplare un vecchio apparecchio telefonico – esperimento davvero effettuato – ne uscirà un giudizio candido e sorprendente (per noi): “È bello, ma è complicato”. Noi che di fronte a uno smartphone, solo ieri abbiamo detto qualcosa di molto simile.

Ma questo libro non è un saggio di quelli che è meglio non leggere a letto o in poltrona. A garantirne una lettura fluida, coinvolta, a tratti divertita sono due cose: da un lato, il continuo rimando all’esperienza personale (il papà che non voleva che i bambini spiegazzassero la cartina autostradale; l’involuzione della propria grafia per effetto dell’uso della tastiera al posto della scrittura a mano; il non saper più trovare in casa carta di giornale per accendere il fuoco essendo che di giornali di carta se ne legge sempre meno). Dall’altro lato, il riproporsi in ognuno dei capitoli di un’identica griglia di ordinamento degli argomenti, in modo tale che la lettura ne esce facilitata e i nessi fra un capitolo e l’altro (fra una cosa e l’altra) sembrano naturali: dopo lo spunto autobiografico che dà amichevolmente inizio al discorso, ecco allora il riferimento alle circostanze che hanno decretato la morte dell’oggetto in questione, poi qualche cenno all’evoluzione che ne ha preso avvio, per giungere all’oggi, e magari traguardare sul futuro prossimo. Non senza fare un bilancio dei guadagni ma anche delle perdite, sempre con estremo equilibrio, lontano dalle tentazioni paralizzanti della nostalgia-rimpianto, ma anche non tacendo quesiti sostanziali: se le cose racchiudono tanto di noi, la scomparsa di alcune di esse non comporta anche la perdita di una parte di noi? Oppure: che cosa è cambiato, che cosa sta cambiando in un mondo in cui le cose, che una volta ci sopravvivevano, adesso, in molti casi, muoiono prima di noi (non per usura, ma per obsolescenza programmata, tecnica o simbolica che sia) e dunque sempre meno possiamo investire culturalmente e affettivamente su di esse? Perché, se tendessimo a dimenticarlo, Calvino ce lo ricorda: “si è quel che non si butta via”.

(Un’avvertenza conclusiva: l’autore non è un umanista incline a vedere la fine del mondo in ogni  innovazione: è “uno dei maggiori esperti della rete internet italiana” – leggiamo in quarta di copertina – e “ha iniziato a scrivere di nuove tecnologie a metà degli anni Novanta”).

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il lavoro di fare musica

Alice Cappagli, Ricordati di Bach, Einaudi 2020 (pp. 256, euro 17,50)

Potrebbe suonare come una storia edificante, del tipo “la musica, la tenacia, la sfida” – come sintetizza la stessa autrice –, se non fosse la storia di lei stessa: Alice Cappagli, violoncellista per quasi quarant’anni nell’orchestra del teatro della Scala. Lo potrebbe comunque, se l’autoironia fosse solo un espediente di facciata e non la risorsa di una vita, che filtra nella scrittura. Una vita segnata già nei suoi primi da un incidente che determinerà l’handicap per superare il quale, appunto, lo studio del violoncello si proporrà come correttivo della debolezza della mano sinistra. Ma anche questo non basterebbe forse a coinvolgere il lettore se non comparissero personaggi animati da sentimenti contraddittori e comportamenti ambigui che solo uno sguardo a tratti spietato ma sempre ironico poteva rendere. A partire dai genitori, dalla madre, rosa per tutta la vita dal rimorso – era lei alla guida dell’auto in cui la figlia è rimasta lesa – e via via solidale con l’impresa della ragazza, osteggiata invece dal padre, “barricato” nei suoi studi e fermamente deciso a provvedere la figlia di una robusta cultura classica. E oltre ai genitori, gli insegnanti, oggetto di una descrizione che ne mette in rilievo caratteri che possono ricordare i romanzi scolastici di Starnone, ma che si fa minuziosa ed evolve nel corso della narrazione nel caso del maestro di violoncello, un uomo dal “nome da pirata”, Smotlak. Un uomo dal passato opaco e dallo stile di vita dubbio, uno giocatore d’azzardo sempre alle strette, ma un musicista geniale, un didatta inaffidabile, si direbbe, nella sua non di rado provocatoria estrosità, eppure efficace nella relazione che sa stabilire con l’allieva: con una lungimiranza che si guarda bene dal motivare non dà alcun peso all’invalidità della sua mano sinistra e, spesso rudemente, la sa spronare. Sa farle capire, soprattutto, che “Suonare non è solo un gradevole esercizio meccanico. Non è neanche un esercizio estremo o spericolato, o fine a se stesso, o una costrizione del destino”, ma “Fa parte dello stesso impulso che ti fa cercare una fontana quando hai sete, o ridere, o piangere, prende proprio quella forma lì, del bisogno. Come le allodole che cantano all’alba”. Altrimenti detto, l’essenziale è distinguere uno strumentista da un musicista: “Il musicista sente la musica anche se c’è silenzio”, mentre lo strumentista è “più un tecnico. Sa come si usa lo strumento”. Il che, filtrato attraverso l’esperienza della protagonista perennemente nelle mani dei dottori, si traduce in un paragone che avvicina il primo all’ortopedico, il secondo al radiologo: “il radiologo sa usare la macchina dei raggi, ti fa la lastra e la legge. Come lo strumentista. L’ortopedico tira le somme del risultato”.

Gli esami non finiscono mai, nel percorso di Cecilia: quelli della scuola di musica (al quinto, ottavo e decimo anno) preludono alle prove da superare per suonare in orchestra, ai concorsi per trovarvi un ruolo stabile, dal S. Carlo di Napoli alla Fenice di Venezia per approdare infine alla Scala. Ma non meno dure sono le prove che la vita imporrà alla protagonista. Dalla morte della madre al tradimento della compagna di studi fino all’amara scoperta della spregiudicatezza di Smotlak, che sembra distruggerne ogni ascendente, ma non il debito di riconoscenza che l’allieva ammette quando, nonostante tutto, ringrazia alla fine il maestro ricevendone l’ultima raccomandazione: “Ricordati di Bach, non di me”. Un romanzo pieno di riferimenti ad autori e composizioni, che dunque può apprezzare soprattutto chi ama la musica, è superfluo dirlo, ma forse soprattutto chi, fra i musicofili, resta curioso di capire come la si fa, che cosa c’è prima dell’esecuzione impeccabile, che cosa prova l’esecutore mentre fa il suo lavoro.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

L’amore per i libri

Roberto Calasso, Come ordinare una biblioteca, Adelphi 2020 (pp. 127, euro 14)

Un piccolo libro per bibliofili? No: l’amore per i libri – nel suo duplice senso: amore per la cultura, per la lettura; amore per quegli oggetti speciali che sono i libri, cose che non sono solo cose – non è proporzionale al numero di libri che si possiedono. Ci sono persone che amano i libri e, in particolare, i relativamente pochi libri che hanno acquistato e conservano, molto più di altri che ne hanno stanze e scaffali pieni, pieni di libri ereditati o accumulati nello spirito del collezionista (o in quello dell’arredatore, sia pure di buon gusto).

Un piccolo libro destinato comunque a chi ha abbastanza libri nella propria casa da doverne studiare l’ordine? No: bastano poche decine di volumi, se gli interessi di chi li ha comprati non si limitano ad un solo campo, perché il problema si ponga, sia pure in misura diversa.

Ecco allora che il consiglio che leggiamo già alla prima pagina può riguardare molte più persone di quanto si crederebbe nel raccomandar loro di imporre un “ordine plurale” ai propri libri, plurale “almeno altrettanto quanto la persona che usa quei libri”. È bene sia dunque un ordine “geologico” (per strati successivi), storico (per fasi, incapricciamenti), funzionale (connesso all’uso quotidiano in un certo momento), macchinale/alfabetico, linguistico, tematico)”. Un disordine apparente, insomma, che custodisce un ordine sostanziale. Un ordine che include la presenza di libri non ancora letti anche se acquistati da anni, essendo essenziale “comprare libri che non si leggono subito”: “Strana sensazione – infatti –, quando si aprirà quel libro” ancora intonso. “Da una parte il sospetto di aver anticipato, senza saperlo, la propria vita (…). Dall’altra un senso di frustrazione, come se non fossimo capaci di riconoscere ciò che ci riguarda se non con un grande ritardo”. Ma a prevalere sarà comunque “l’incanto di trovarsi fra le mani – immediatamente – un libro di cui non si sapeva di aver bisogno sino a un momento prima”. Mettendo in conto che possa capitare di trovare segnate pagine che si credevano mai lette, perché “Non ci sono soltanto i libri che uno si immagina di aver letto, mentre ne ha soltanto sentito parlare. Ci sono anche i libri che uno ha letto e annotato, ma di cui poi ha cancellato il ricordo” e le tracce lasciate, passato lo sconcerto di fronte alle défaiances della propria memoria, riveleranno allora la propria utilità. Del resto, sostiene perentorio l’autore, “Ho sempre diffidato di quelli che vogliono conservare i libri intatti, senza alcun segno d’uso. Sono cattivi lettori”.

Dai libri al luogo nel quale li incontriamo, per il momento almeno: la libreria. Quella ideale si riconosce dal fatto che non se ne esce mai senza aver acquistato “almeno un libro – e molto spesso non quello (o non solo quello) che si intendeva comprare quando si è entrati”. Perché questo avvenga occorre che si garantiscano alcune condizioni, a partire dalla qualità dei librai: nella libreria ideale i librai “non vengono incontro al cliente. Semplicemente perché hanno già da fare. Spostano i libri, li cercano, evadono ordini, stanno davanti a un computer. Ma, se il cliente chiede qualcosa, sono immediatamente a sua disposizione. E si vede subito che sanno dove e come trovare i libri”. Ecco descritto in poche righe il valore insostituibile delle librerie, delle vere librerie, non di quelle che non si distinguono “da un grande emporio, se non (per) la minore redditività”. Le stesse che risentono di più dell’occupazione del mercato da parte di Amazon, anche se occorre essere chiari: se oggi possiamo considerare l’e-book come una “una modalità di lettura accanto a altre”, che “continuerà a sussistere senza però danneggiare il libro cartaceo in modo irreparabile, come taluni speravano”, “ogni tentativo di opposizione” ad Amazon e al processo inaugurato dall’enorme azienda di commercio elettronico “è puro wishful thinking”, perché “il mutamento radicale” che ha investito la distribuzione libraria “non è che il contraccolpo di un mutamento ben più vasto che di fatto riguarda tutto”. Quello cui ci troviamo di fronte è un “magma in perpetuo mutamento” e “Occorrerà tempo perché si cominci a capire che cosa ha comportato, nell’apparato della conoscenza, questo slittamento dalla pagina allo schermo”.

Intanto, i libri ci sono, e le librerie anche: quelle almeno che sanno difendersi, avendo capito che non c’è altra strada che “puntare su qualcosa che per via elettronica non si può ottenere; il contatto fisico con il libro e la qualità” ossia, innanzitutto, il proporsi “come un luogo dove si ha voglia di entrare”, dove ci si sente indirizzati dalla disposizione stessa dei libri e individuatine alcuni sia possibile sedersi a sfogliarli.

Così, di pagina in pagina, di divagazione in divagazione, attraversando una selva di riferimenti a libri e autori disparati, accade al lettore di confrontarsi piacevolmente con nozioni, pareri, esperienze che si scopre spesso di condividere con l’autore. Piacevolmente, perché chi ama davvero i libri, ama anche discorrerne. Non disdegna i libri che parlano di libri.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Perché rileggere il Candido di Voltaire

Voltaire, Candido, o l’ottimismo, Blackie edizioni 2020 (pp. 221, euro 17,90)

Metti al posto dell’”armonia prestabilita” la crescita felice dei più incalliti credenti nella religione del Progresso e del PIL o, ancor meglio: le certezze dei sostenitori di una globalizzazione che se non sempre appare buona si rivelerà tale; al posto della convinzione che questo sia il migliore dei mondi possibili, il TINA (There Is No alternative), che sarebbe come dire la Thatcher al posto di Leibniz… O, anche, la pandemia da coronavirus del 2020 al posto del terremoto di Lisbona del 1755: le “pene d’inferno” di cui deve soffrire Pangloss, il filosofo ottimista, gli vengono da una graziosa cameriera che “doveva questo regalo a un cordigliere dottissimo che ne era risalito alla fonte: l’aveva preso da una vecchia contessa che, a sua volta, l’aveva ricevuto da un capitano di cavalleria che lo doveva a una marchesa che l’aveva avuto da un paggio che l’aveva preso da un gesuita il quale, durante il noviziato, l’aveva ricevuto da uno dei compagni di Cristoforo Colombo”: se non è tracciamento del contagio questo, con tanto di paziente zero… (se si sorvola sul fatto che si tratta di sifilide, nello specifico, non di Covid-19).

Il gioco dei rimandi e delle assonanze potrebbe continuare (gli esportatori di democrazia e i missionari gesuiti del Paraguay, tanto per dire): l’attualità del romanzo di Voltaire è il secondo motivo per rileggerlo. Il primo sono i sorrisi che la lettura suscita, facendo gustare un’ironia contro il Potere che resta acuminata, purissima, anche là dove appare venata di una volontà di denuncia che non ha purtroppo avuto la meglio sui suoi bersagli, dallo sfruttamento dei poveri del Sud del mondo a quello delle donne. Fino – per andare al cuore del discorso – alla polemica contro l’ottimismo, opzione di carattere metafisico a quel tempo; orizzonte tutto terreno ma in compenso obbligatorio nel mondo dei consumi e del godimento immediato di oggi, tant’è vero che mantiene il suo sapore la storiella dell’ottimista e del pessimista (“Questo è il migliore dei mondi possibili”, ripete sicuro il primo; “Ho paura che sia proprio così…”, commenta mesto il secondo).

Ma ci sono altre ragioni per riaprire il romanzo di Voltaire, e ce le indicano due note, una all’inizio e una a conclusione, che arricchiscono il testo (insieme alle spiritose illustrazioni di Quentin Blake). La prima è la prefazione che Italo Calvino aveva scritto nel 1974 per l’edizione del romanzo nella Bur, la biblioteca universale della Rizzoli: “oggi – vi si sostiene – non è il racconto filosofico che più ci incanta (…): è il ritmo”. Un ritmo fatto di “velocità e leggerezza”, spiega Calvino – e sembra anticipare le prime due delle sue Lezioni americane –, per cui Candido si configura come “un riassunto a rotta di collo”, in cui i disastri si succedono a grappolo come nel “cinema comico” e “i personaggi sembrano fatti di gomma”, escono di scena miseramente impiccati o sbudellati per poi tornarvi, e qui più che alle comiche siamo ai cartoni animati.

Non la velocità ma la pertinenza rispetto al mondo attuale appare la cifra caratterizzante il romanzo a Julian Barnes, autore della nota finale, con una precisazione sostanziale tuttavia: “è il modo in cui Voltaire espone le sue ragioni a renderlo vivo ancora oggi”, la fulmineità di certe sue asserzioni, come quella racchiusa nella “frase universalmente nota che sta a chiusura del romanzo – il faut cultiver notre jardin”. Universalmente nota ma spesso intesa “nel senso di guardare al proprio interesse”, stando a una lettura riduttiva, a un sostanziale fraintendimento anzi, che non avrebbe sorpreso il suo autore, uso a ben altri attacchi polemici. “Un’utopia”, in realtà – nota Calvino – in un libro “in cui il lavoro appare solo come dannazione e in cui i giardini vengono regolarmente devastati”, per cui, a ben guardare, ci si rende conto che “la voce della ragione nel Candido è tutta utopica”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Soli. Ma non disperati

Gian Mario Villalta, L’apprendista, SEM 2020 (pp. 228, euro 17)

Ipermercati che, dopo i negozi al minuto, si mangiano anche i supermercati; villettame che assedia un centro storico spopolato; capannoni abbandonati attorno all’abitato, svuotati dalla crisi che ha bloccato anche l’edilizia, tanto che le uniche cose che ancora si costruiscono sono le rotonde: siamo dalle parti di Pordenone, il paesaggio è quello ordinario di molto Nordest, e non bastano due ville venete, visitate da torme di turisti rassegnati e distratti, a sollevare le sorti del paese. Nulla che non si conosca già, dunque, non fosse per il punto d’osservazione, inconsueto: la chiesa. Tutto si vede e si racconta a partire da lì, perché i due protagonisti sono due vecchi sacrestani, l’ultraottantenne Fredi e il poco più che settantenne Tilio, sacrestano in capo il primo, investito del compito di servir messa; ancora “apprendista”, nonostante la rispettabile età, il secondo, che oltre a collaborare con il collega a tener pulita e in ordine la chiesa, raccoglie le elemosine.

Due personaggi che ricordano i flaubertiani Bouvard e Pécuchet, ha scritto qualche recensore, o – come hanno fatto notare altri, con maggior pertinenza – l’Estragon e il Vladimir di Aspettando Godot: uomini ai margini, persi in discorsi futili, almeno all’apparenza, che battibeccano a volte ma tornano sempre a rappacificarsi, legati da una dipendenza reciproca, immersi in un tempo sospeso, segnato solo dal cadere delle foglie nel capolavoro beckettiano, dalle ricorrenze liturgiche in questo romanzo.

E dunque, loro, il decadimento del paese lo leggono soprattutto nel rarefarsi della partecipazione alle messe, non escluse quelle celebrate in suffragio dei defunti; nel gelo che regna nella chiesa e gli scarsi mezzi a disposizione non permettono che di contrastare debolmente; nella malavoglia di chierichetti sempre più rari e attaccati al telefonino, fosse per loro, anche nell’esercizio delle loro funzioni; in innovazioni come le ostie per celiaci e la vendita esclusivamente on line dei generi prima venduti dai negozi d’arte sacra. Eppure, non si può dire vuota la vita dei due sacrestani, tutt’altro: se i loro dialoghi sono scarni, all’inizio soprattutto, i loro pensieri riempiono le pagine grazie al ricorso generalizzato a quell’espediente che permette alla voce del narratore di confondersi con quella dei suoi personaggi, il discorso indiretto libero. Via via li conosciamo bene quindi, Tilio e Fredi. Attento agli altri, il primo, animato da un desiderio di sapere che mescola la cronaca spicciola alle grandi questioni del mondo attuale, se pur solo orecchiate (“Vedrai che se viene il clima globale che tutti dicono le messe le fanno via Internet, così ognuno sta a casa sua, sui ventun gradi fissi”), ma che non arretra neanche davanti agli enigmi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Perché a suo modo è filosofo, Tilio: “Non si può vivere senza servire a niente”, “quando hai tutti i giorni liberi i desideri che avevi si squagliano (…). Oppure corri dietro ai desideri impossibili, ti incazzi con il mondo perché sono fuori portata”. Ed è qui, in questa saggezza frammentaria ma distillata dall’esperienza concreta della propria vita, che i due si incontrano, anche se è di tutt’altra pasta Fredi, uno di quelli che sta fermo in se stesso e non deroga alle regole. Tuttavia, pur se non segnato, come Tilio, dalla morte prematura della moglie e angustiato da un rapporto asfittico con il figlio, anche lui gravato di un passato che l’ha irrigidito in uno sforzo ininterrotto di “confermare a se stesso quello che è”. Il che non gli impedisce tuttavia, dietro lo stimolo talvolta invadente, al fondo amichevole del suo “apprendista”, di riflettere sul proprio stare al mondo, sulla caduta di ogni suo interesse. Una condizione che gli fa tornare alla mente il bambino che è stato, per il quale rimandare a domani equivaleva a negare un desiderio che esigeva di essere soddisfatto oggi, subito. Senonché, ormai, un domani non c’è più per un vecchio come lui, tanto più perché sente di non averli seguiti mai i propri desideri.

Per entrambi, tuttavia – per quanto sedentario da sempre Tilio; conoscitore di ambienti e di terre lontane, in passato, Fredi –, la chiesa ha rappresentato e continua a costituire un luogo sicuro, proprio perché non è una casa da cui si può esser tentati di evadere, alla ricerca di un altrove, ma è un “posto di passaggio”, dove “puoi pensare di essere sempre e solo partito, di partire ogni giorno”.

È in considerazioni, in sentimenti condivisi come questo che i due personaggi si incontrano: “Non è soltanto il fatto che sono soli. È che non sono disperati. Ci sono molte persone che sono sole e disperate perché sono sole. Lui [Tilio] e Fredi, questo avevano capito subito, erano soli ma non erano disperati, sapevano dare un ordine alla giornata, avere pensieri per ogni cosa, ma avevano perduto la letizia del cuore. Non potevano fare nulla l’uno per l’altro, se è per questo, non c’erano dubbi, ma si erano incontrati”. E resteranno vicini, sempre più vicini nonostante le scontrosità e le ritrosie di Fredi, che alla fine – com’è nell’ordine delle cose, essendo il più vecchio – se ne andrà, per cui al suo compagno non resterà che pensare – nel suo schietto materialismo che pure non gli ha vietato di essere a modo suo uomo di chiesa – che no, non è andato da nessuna parte, Fredi, perché “tutta la sua vita, tutte le cose che ha fatto e che ha visto, tutte le parole che ha detto sono nel buio di questo corpo disteso”.

Toccherà dunque a Tilio servire il sacerdote celebrante, ma l’amico non lo potrà vedere, perché si tratterà del suo funerale. Forse sarebbe eccessivo riconoscere l’universalità di figure come quelle di Estragon e Vladimiro in Tilio e Fredi. È certo però che quando chiudiamo il libro abbiamo l’impressione di non aver letto solo di due sacrestani veneti.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.