Frédéric Gros, Perché la guerra?, nottetempo (pp. 156, euro 16)
È innanzitutto una constatazione ad aprire il libro del filosofo, politologo e romanziere francese: dopo “la nuova cultura della paura” diffusasi nei primi due decenni del XXI secolo, si è diffusa l’impressione del ritorno di una “logica militare più classica con le guerre in Ucraina e in Medio Oriente” (anche se “le nostre categorie politiche faticano a inquadrare le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre 2023 e, su un piano differente, il bombardamento massiccio da parte dell’esercito israeliano”), ma nello stesso tempo è risultato chiaro che – questo il giudizio di fondo di Gros – è necessario rispettare “la singolarità di ogni singola tragedia” e riconoscere che le categorie in uso “non restituiscono tutta la verità dell’evento”, che occorre quindi “contestualizzare, spiegare”, cose diverse dal “giustificare”.
Più di un tentativo di interpretazione di quanto sta accadendo, questo libro offre riferimenti generali per inquadrarlo e indicazioni di metodo per cercare di comprenderlo. Il che non impedisce all’autore di esprimere posizioni chiare: “una disfatta ucraina – sostiene ad esempio – non costituirebbe necessariamente uno spreco monumentale, dal momento che la ‘passione democratica’ che è stata accesa non potrà più essere spenta”. Il problema è se mai “capire se alla fine delle ostilità – sia in Ucraina che in Medio Oriente – corrisponderà una vera pace” e non la “pace dei cimiteri”, con “una cristallizzazione permanente delle posizioni” e conseguente riemergere di violenze. Magari su scala allargata, o globale addirittura: una prospettiva, questa, che semplificazioni come quella dello scontro fra Occidente e resto del mondo, fra umanità e disumanità, fra luce e tenebre, non contribuiscono certo ad allontanare.
Questo il quadro entro il quale il discorso di Gros si articola in diversi “percorsi” volti a rispondere alla domanda enunciata nel titolo: “perché la guerra?”.
In primo luogo, si tratta di definire che cosa dobbiamo intendere per guerra, alla luce dei cambiamenti intervenuti dopo il 1945: prima la Guerra Fredda, fino all’89, con le sue guerre “per procura”, asimmetriche e, in molti casi, animate da motivazioni antimperialiste. Poi, dal 2001, la guerra “globale” innescata dal terrorismo islamista e contrastata dalle potenze occidentali: da un lato, con sistemi di sorveglianza sempre più “intrusivi e minacciosi per le libertà pubbliche; dall’altro, con azioni militari contro gli “Stati-canaglia”, azioni definite “interventi”, per attribuirgli una “connotazione tecnica, medica o poliziesca, più che militare”, e risoltesi in Iraq e in Afghanistan negli esiti catastrofici dell’intento, dichiarato, di esportare la democrazia. Altra la situazione di paesi come Libia, Siria e Yemen, dove è emerso “un nuovo paradigma di violenza” definibile come “guerre di caotizzazione”, tragico esito delle primavere arabe, in cui gli Stati sono caduti in mano di oligarchie economico-finanziarie le cui milizie armate terrorizzano e tengono in ostaggio le popolazioni: sotto la veste del conflitto religioso, “spremere il massimo dei profitti dalla catastrofe” è lo scopo vero di chi ha instaurato un caos che non si propone affatto di raggiungere una pace purchessia, ma soltanto di mantenere uno stato di “collasso permanente”.
È alla luce di analisi come questa che può apparire comprensibile la ragione per cui quella in Ucraina è apparsa come una guerra vera, in grado di riportare alla ribalta quel viluppo di virtù civile e di violenza bestiale in cui era a lungo consistita la guerra: “da una parte i russi, barbari e inebriati di sangue, dall’altra gli ucraini, eroici e tenaci”. Una guerra giusta, dunque? Prima di rispondere occorre precisare che questa qualifica, ammesso la si possa applicare a una pratica di morte, sottintende due diversi aspetti: la giustezza delle cause e delle motivazioni reali, da un lato; il rispetto di una serie di regole da parte dei belligeranti, dall’altro (tra queste la proporzionalità fra entità del torto recato e danni inflitti a sua volta da chi il torto ha subito, o l’intendere la guerra come extrema ratio, dopo che di ogni altra possibilità si è verificata l’impraticabilità, mentre resta più di tutte in discussione la legittimità dell’intervento di uno Stato quando la violenza non l’ha colpito direttamente, ma ha investito altri Stati). Assai meno definibili sono i criteri atti a definire se una guerra sia giusta dal punto di vista della sua conduzione e del rispetto di protocolli come quelli previsti dalla convenzione di Ginevra: l’evoluzione contemporanea degli armamenti, così come la pretesa equivalenza fra nemici da battere e rappresentanti del male, fanno terra bruciata di ogni possibile distinguo fra soldati e civili. È questo il contesto storico e culturale nel quale si può temere il rischio che la “moralizzazione” di una guerra come quella ucraina, pur fondatamente intesa come difensiva rispetto a un invasore, “a forza di fare dell’uomo del Cremlino il diavolo in persona”, non permetta più di “immaginare una fine del conflitto se non nella forma della capitolazione, di una resa incondizionata, incoraggiando così un oltranzismo militare che potrebbe condurre al disastro generale”. “Il conflitto ucraino, infatti – ha risvegliato lo spettro della ‘guerra totale’” e del quesito che il concetto pone: “se la guerra totale indica precisamente il trionfo della violenza senza limiti, essa costituisce una rivelazione profonda di ogni guerra oppure, al contrario, la contraddice nella sua essenza” di mezzo estremo per “regolare la violenza”? “Domanda profondissima e forse senza risposta”, commenta l’autore. Certo è che “se nel contesto di una guerra totale si cerca l’annientamento invece della semplice resa, è anche perché si pensa che il nemico non condivide con noi lo stesso mondo e che è caratterizzato da una mostruosa alterità”. Il che, si badi, può dare conferma del fatto che quella che si sta combattendo è una “guerra giusta”… Ma visto che la dimensione totale della guerra è in gran parte effetto delle innovazioni in essa introdotte dalla tecnica, si deve riconoscere anche che “bisogna demonizzare il nemico per assolvere la tecnica”, per nascondere a sé stessi la mostruosità delle armi che si stanno usando, per rimuovere la propria mostruosità.
Si è in grado, a questo punto, di rispondere alla domanda da cui si è partiti? “Perché gli uomini si fanno la guerra, perché da così tanto tempo”? Le risposte tentate da diverse discipline si scontrano contro qualcosa che fa resistenza: “la violenza costituisce un nucleo inscalfibile per il pensiero” e non si è riusciti mai ad andare oltre l’individuazione di tre cause di fondo: “avidità, paura, ricerca di gloria” (e mantenimento delle diseguaglianze: economiche, sociali, di genere), oppure, andando ancor più alla radice, il “fondo di animalità” che sussiste negli uomini. Ma si può chiamare guerra la violenza fra animali, sempre circoscritta a fini precisi, fra cui la coesione del gruppo? o piuttosto occorre riconoscere che “la crudeltà e il sadismo sono tratti umani, fin troppo umani?”, assimilabili – secondo Freud – all’irrazionale pulsione di morte.
In conclusione, per quanto non si debba “considerare la natura [umana] come un dato immune agli influssi della cultura”, non si può non riconoscere che, oggi non meno di ieri, “una cultura dell’odio e della vendetta, della paura e dell’arroganza si erge tra noi e la pace, che è invece trionfo della gioia contro le passioni tristi”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.