Una colta bonaria pensosità

Giulio Bollati, Memorie minime, Bollati Boringhieri 2024 (pp. 64, euro 10)

Non tutte le introduzioni meritano di essere lette prima del testo che illustrano, a volte lo gravano di aspettative che si riveleranno ingiustificate o di informazioni che si metteranno di mezzo impedendoci di incontrare l’autore. Non è il caso della nota che Claudio Magris premette a questa cinquantina di pagine, innanzitutto perché, sull’onda di un’amicizia profonda, sa restituire i tratti inconfondibili di un amico, “un fratello maggiore, da cui ha ricevuto molto”, per cui quello che ci offre è un ritratto della sua unicità, che si traduceva in un’“amabile saldezza di gran signore, ricca di humour, venata di un’ombra di malinconica timidezza e celata da un’aria sorniona, dal disincanto di chi sa come vanno a finire le cose, ma sa incantarsi per esse”.

E questi racconti, infatti, “dissimulano nella lievità e nella discrezione una profonda malinconia del vivere”, un “sobrio pessimismo leopardiano”, costituendo così il documento coerente di una “profonda cultura, dissimulata con signorilità”, e di una “passione civile pudicamente e ironicamente frenata”, pur non narrando di eventi eclatanti ed esperienze memorabili, quanto piuttosto di “paesaggi, gesti, dissolvenze e intermittenze del ricordo, piccole magie che trasformano semplici e talora ovvi dettagli quotidiani in segnali misteriosi e allusivi”. Come – per usare una frase di Borges – nell’“imminenza di una rivelazione che non si produce”, nella condizione di chi si trova “sulla soglia della vita vera senza riuscire a varcarla”. Un po’ come questi racconti che sono in realtà “quasi-racconti”, ricordi pervasi da un’ironia sottile, “affettuosa”, che sa fare i conti con i vuoti della memoria a partire dall’idea – che Bollati espone fin dall’inizio – che “nel sogno la memoria è cinematografica, le persone si muovono; nel ricordo da svegli la memoria è fotografica, procede per immagini fisse, di una meravigliosa immobilità definitiva”. Immagini fisse e discontinue, come quelle della “gita in Francia” nei primi anni Cinquanta, con alcuni amici fra cui Italo Calvino, fermato dai gendarmi perché “nella lista degli indesiderabili” avendo partecipato a un congresso dei Partigiani della pace, “un’organizzazione internazionale messa in piedi con ogni probabilità dal governo sovietico”. “D’altra parte molti di noi erano sinceramente partigiani della pace”, anche se la pace “è un contenitore, che cosa ci mettiamo dentro?”

È l’ironia, rivolta agli altri non meno che a sé stesso, a dominare il racconto di una visita a casa Leopardi, alla ricerca delle pitture murali cui il poeta accenna nelle Ricordanze, così come quello dedicato a Kruscëv e al gesto da lui compiuto durante un’assemblea dell’Onu, per cui “continuerà per sempre a battere quella scarpa (…), memorabile sequenza chapliniana nel dramma storico della nostra epoca”. Dramma per altro richiamato dallo stesso Kruscëv – con accenti che oggi suonano tutt’altro che datati –, il quale durante l’intervista concessa al Cremlino spiega a Bollati, Giulio Einaudi e Vittorio Strada, esperto di cose russe, “il senso di accerchiamento di cui la Russia soffriva” e “la speranza che gli americani capissero e diventassero amici”.

Una critica sottile, e bonaria, pervade il resoconto di una vacanza da “turista per partito preso”, non una “vacanza intelligente” dunque, modo di dire che non piace affatto all’autore, convinto che una vera vacanza esiga di “buttarsi nel rischio senza pensarci troppo”, e cosa di meglio allora, per un intellettuale impegnato nell’editoria, di una vacanza da “turista di massa”, lanciato in un viaggio attraverso l’Europa “alla vigilia di ferragosto”, non facendo prenotazioni né tanto meno programmi? Senza però lasciare a casa la finezza dell’osservatore provveduto che, mentre visita mete consacrate e affollatissime, si trova a riflettere sul fatto che “senza il turismo, il passato, nella civiltà economica, non riuscirebbe a sopravvivere”, essendo “la grande pietà turistica”, che si può intravedere nelle lunghe file di visitatori di chiese e castelli, a cercar di “ovviare, naturalmente a modo suo, alla nostra attuale indifferenza alla storia”. In questo sguardo, che non presuppone una propria superiorità ma neanche abdica alla sua colta pensosità, sembra di rincontrare le movenze di un altro viaggiatore-narratore: l’autore della prefazione da cui siamo partiti e, anni fa, di Danubio.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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