Morire d’amianto le storie di dolore in un libro

Brescia nel libro di Pietro Gino Barbieri, ex medico del lavoro

Un libro che ha a tratti il sapore di una narrazione e in altri quello di un saggio: è di un ex operaio della Eternit il giudizio, Nicola Pondrano, autore della nota di prefazione. Un operaio divenuto in seguito dirigente sindacale della Cgil ma anche del fondo per le vittime dell’amianto e dell’associazione dei loro famigliari. Nel suo percorso si rappresenta la vicenda, il dramma anzi, raccontato dall’autore, Pietro Gino Barbieri, medico del lavoro dal 1980: «il dramma prevedibile di una strage prevenibile», come recita il sottotitolo di «Morire di amianto». E prevedibile era davvero, dal momento che fin dagli anni Cinquanta era dimostrata l’associazione causale tra amianto e cancro del polmone e dagli anni Sessanta quella con il mesotelioma maligno, un tumore della pleura e del peritoneo.

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Sapere e non fare

Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda 2019 (pp. 320, euro 18)

“La parola è scritta al contrario sul cofano delle ambulanze perché chi guida le possa leggere nello specchietto retrovisore. Si potrebbe dire che è scritta per il futuro – per le macchine che stanno davanti all’ambulanza. Esattamente come chi sta in un’ambulanza non può vedere la parola ambulanza, noi non possiamo leggere la storia che stiamo creando: è scritta al contrario, per essere letta in uno specchietto retrovisore da chi non è ancora nato”.

Sono passaggi come questo a dirci la differenza fra uno dei molti saggi sul cambiamento climatico e questo libro, in cui la voce che si leva a lanciare l’allarme è quella di uno scrittore. Uno scrittore conscio del fatto che il problema è crederci, alla catastrofe annunciata dal riscaldamento del pianeta, e si tratta dunque di uscire dallo stato di negazione che – nella nostra società, la società dell’informazione – si risolve in un non sapere sapendo, in un sapere ma non fare: “Dobbiamo fare qualcosa ci diciamo a vicenda, come se affermarlo fosse sufficiente. Dobbiamo fare qualcosa diciamo a noi stessi, e poi aspettiamo istruzioni che non arrivano. Sappiamo che stiamo scegliendo la nostra stessa fine: solo che non riusciamo a crederci”, immersi come siamo in una generale crisi della capacità di credere che trova alimento in un’informazione strabordante di opinioni che offuscano i fatti, dominata da un presentismo che mina l’idea di futuro.

E allora? Allora occorre che la questione ambientale si carichi di emotività: non si crede in quello che non ci scuote. Ma “Anche le nostre emozioni, come i nostri corpi, hanno dei limiti. E se i nostri limiti emotivi non potessero essere superati?”

Non resta all’autore che riprendere il filo del discorso iniziato con il suo precedente Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? (Guanda 2010), notando che anche nei discorsi più appassionati e documentati sulla questione climatica – il nobel Al Gore non escluso – viene taciuto un aspetto decisivo: “l’impatto dell’allevamento sull’ambiente”. Perché “quando si parla di carne, latticini e uova la gente si mette sulla difensiva. Si infastidisce. A parte i vegani, nessuno muore dalla voglia di affrontare l’argomento, e il fatto che i vegani ne abbiano voglia costituisce un ulteriore disincentivo”. Ma la questione sta proprio qui: comprare un’auto ibrida non è inutile, ma serve soprattutto a “farci sentire meglio. E può essere pericoloso sentirsi meglio quando le cose non vanno meglio”. E dunque, non giriamo intorno al problema: pagine di dati e rilevazioni scientifiche supportano la conclusione che “non possiamo salvare il pianeta se non riduciamo in modo significativo il nostro consumo di prodotti di origine animale”. Non si tratta di eliminarli dalla nostra dieta, si badi: si tratta di ridurne “in modo significativo” il consumo.

È questo il succo del discorso, e nonostante la letteratura ignori la crisi climatica, pena l’esser dequalificata a fantascienza – come ha fatto rilevare Amitav Ghosh con il suo La grande cecità (Neri Pozza 2017) – è il libro di un autore di romanzi a imporlo alla nostra attenzione.

Alla nostra attenzione, appunto: basterà, questo, a farci credere, al punto da indurci a modificare i nostri comportamenti? E se anche fosse, servirebbe davvero, o la crisi è ormai irreversibile? (Come sembrano preconizzare storie come quella narrata da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori, Guanda 2016). Quel che è certo è che vivere in quello stato di sapere e fare come non si sapesse e dunque non facendo non è vivere pienamente la propria vita. È adeguarsi alla “grande regressione” della nostra civiltà (La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017). È rinunciare a cercare un bandolo nella generale involuzione che ci coinvolge, perché – lo notava Bruno Latour (Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina 2018) – “non si possono comprendere le posizioni politiche assunte da cinquant’anni a questa parte se non si assegna un posto centrale alla questione del clima e della sua negazione”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La ragioni del padre

Franco Ferrarotti, L’uomo di carta. Archeologia di un padre, Marietti 1820, 2019 (pp. 168, euro 14)

Passa attraverso l’evocazione del rapporto con il proprio padre il bilancio che della propria vita e del lavoro culturale più in generale l’autore ci propone in questa archeologia di un padre. Un racconto che – come la Geologia di un padre di Valerio Magrelli –  si staglia sullo sfondo della scomparsa che questa figura ha registrato negli ultimi decenni, come sostenuto da più parti (nei saggi di Massimo Recalcati in primo luogo).

“Non sarai mai niente. Non diventerai niente. Sarai solo un uomo di carta”: il pronostico, severo quanto sconfortato, del padre si direbbe contraddetto dalla strada percorsa dal figlio, giunto – dopo gli anni di formazione, anni che sembrano echeggiare lo “studio matto e disperatissimo” di altri grandi italiani – ad essere riconosciuto come “il padre della sociologia italiana” (“Ma tutti sanno – aggiunge con un tocco di autoironia Ferrarotti – che «mater semper certa est, pater numquam»).

E invece no, quella previsione non era campata in aria: “Ora che la mia corsa è finita e che mi capita, più spesso del previsto, di avvertire sulla nuca l’alito freddo della morte (…) devo riconoscere, per quanto a malincuore, che mio padre aveva ragione. Toglietemi di torno le carte, i libri, gli opuscoli, i ritagli di giornale e non resta più nulla”. Ma non è solo un riconoscimento a posteriori quello tributato al padre, bensì il frutto di una comprensione inevitabilmente tardiva: “Mio padre credeva unicamente alla conoscenza attraverso l’esperienza personale, diretta” ed era quindi, per il figlioletto, gracile e inadatto al lavoro dei campi, un padre “lontano”. Un uomo la cui individualità solo adesso che non c’è più si può mettere a fuoco: attento ai “valori  qualitativi” quanto la moglie a quelli “quantitativi” e “Io – sottolinea l’autore – ero dalla parte di mia madre”, del suo “sovrano controllo razionale”, senza avere “gli elementi per comprendere le “frustrazioni”, le “sconfitte” del padre, uomo immerso nei tempi lenti delle stagioni, in quella civiltà che Ferrarotti sa evocare in pochi tratti – in ciò richiamando i mémoires  di Enzo Bianchi –, uomo consapevole “di essere ormai alla fine, superato, obsoleto. Estraneo alla società”. Ecco il punto: si comprende una persona quando se ne vede la fragilità, e la si sa interpretare come un segno dei tempi che ha vissuto, e questo vale tanto più quando è con i propri genitori che avviene il confronto. Un confronto che si fa via via più lucido in queste pagine, approdando a sintesi suggestive: “mio padre ha rappresentato per me la natura, mentre mia madre è stata la cultura”.  A conti fatti, conclude l’ormai ultra novantenne sociologo, morirò in compagnia dei miei libri. Saranno la mia estrema unzione” (e qui è un altro autore, per altro richiamato in queste stesse pagine, Sartre, il Sartre delle Parole a risuonare: “Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò: tra i libri”). I libri e insieme i ricordi, la cultura, la memoria, perché “Siamo ciò che ricordiamo, e ricordiamo ciò che abbiamo vissuto e ancor più vividamente ciò che abbiamo letto”.

“è il prezzo che si paga per essere scrittori…”

“[Pensare così tanto ai propri genitori] è il prezzo che si paga per essere scrittori. Si è assillati dal passato: sofferenze, sensazioni, rifiuti, tutto. Credo che questo aggrapparsi al passato sia un impellente, quasi disperato, desiderio di reinventarlo in modo da poterlo cambiare. Medici, avvocati e molti altri rispettabili cittadini non sono tormentati da una memoria così ostinata. A loro modo possono anche essere turbati (…), però non se ne rendono conto. Non approfondiscono”. (Edna O’Brien)

Il mio giardino si trova nel mondo

Cees Noteboom, 533. Il libro dei giorni, Iperborea 2019

“Non è nemmeno certo che questo sia un vero diario, forse è piuttosto un libro dei giorni, uno strumento per trattenere qualcosa del flusso dei pensieri, delle letture, di quel che si vede, di certo non è un libro di confessioni”.

Prendiamo sul serio il tentativo che l’autore fa, passata la metà del suo libro, per definirne la natura.
Primo, i pensieri: un ininterrotto colloquio con se stesso che non offusca affatto l’attenzione per gli avvenimenti che la cronaca registra. “Provate – constata infatti Nooteboom – a tenervi lontani dal mondo e il mondo vi riagguanterà”. Anche se vi chiedete “Quando si può dire che un fatto sia un evento”. Lo è un incidente ferroviario, ma anche, per uno che si sente “ospite del (proprio) giardino” nella prediletta Minorca, l’upupa che improvvisamente un giorno gli si posa accanto. Ma, appunto, il mondo ti riagguanta: “si presenta sullo schermo: attentati, guerra, omicidi (…) tutto si disegna sul vetro, come se si guardasse lontano, attraverso un tunnel, e i panorami qua fuori e i libri dentro casa non esistessero più”. E non basta aver scritto, aver preso posizione pubblicamente, perché “non sai se sia servito a qualcosa”, forse “è tempo che ti chiuda nel tuo giardino mentre tutti gli altri procedono frenetici e inarrestabili in un mondo che è tutto un malinteso”. Senonché, “anche se personalmente sei al sicuro, sei imbrattato della merda della guerra che accompagnerà i tuoi giorni fino alla fine, che tu lo voglia o no”. La guerra e le migrazioni, di fronte alle quali “diventiamo persone diverse senza più rendercene conto. (…) Il faut cultiver notre jardin” – ha scritto Voltaire –. “Io faccio del mio meglio, ma il mio giardino si trova nel mondo, che lo voglia o no”.

Eppure. Eppure – ecco le altre piste che percorrono queste pagine – i libri, che restituiscono “il mio autoritratto di lettore”, gli innumerevoli riferimenti letterari che sono parte dell’esperienza quanto gli incontri che si sono ricercati sull’onda di una curiosità inestinguibile per le altre culture, quella curiosità che aveva condotto Nooteboom in Giappone – come testimoniato in Cerchi infiniti. Viaggi in Giappone (Iperborea 2017) – e che qui si manifesta come consapevolezza del fatto che il confronto – come già aveva sottolineato Montaigne – è la via per misurarsi “con gli aspetti di se stesso che si imparano in un’altra cultura”. Confronto con gli altri, ma anche con l’Altro, il non umano: dai cactus che aspettano ogni stagione lo scrittore a Minorca all’asino e alle mucche in cui gli accade di imbattersi, quella che emerge è una radicale alterità della natura, in cui “le rose non possono disperarsi”, “semplicemente esistono, non hanno altro da fare, soprattutto non devono preoccuparsi di noi e dei nostri sentimenti”. Così come gli amati cactus che si è imparato a distinguere apprendendone i nomi “non sanno come si chiamano, ma sembra che non gliene importi nulla”.

Se è allo sguardo del calviniano Palomar che a volte sembra possibile accostare quello di Nooteboom, allo scrittore italiano si avvicinano anche la curiosità scientifica dell’umanista e  soprattutto la consapevolezza delle propria limitatezza e della propria finitudine, circostanze in cui tuttavia risiede quella del proprio essere nel mondo, del proprio esserci al di là delle convenzioni sociali e dei condizionamenti storici, del proprio saper vedere l’estrema varietà che connota il mondo senza l’illusione di conquistarne una visione complessiva, obiettiva. Tutt’altro: occorre ammettere che tutto quel che si vede lo si vede, inevitabilmente, in riferimento a se stessi. Ed è perciò ineliminabile il mistero. Quello del tempo e della durata, innanzitutto, su cui – annota lo scrittore – ho imparato che c’è ben poco da dire”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La forma e il volto della città / Il Musil e il suo contesto

«Non si può collocare un’opera così importante – qual è il Musil – in un contesto di degrado fatto di scheletri di capannoni». Tempestiva l’osservazione di recente espressa su questo giornale da Maurizio Pegrari. Occorre tuttavia ricordare che quanto attornia gli edifici destinati alla musealizzazione non è il risultato di un naturale, inevitabile degrado, ma della sistematica demolizione che negli anni scorsi ha raso al suolo fabbriche, cinte murarie, serbatoi pensili. I segni di un passato produttivo senza i quali il nuovo museo corre un rischio di non poco conto: lo spaesamento. Non a caso l’ipotesi – nella sua formulazione originaria, negli anni ’80 – di un museo della Brescia contemporanea, della sua modernizzazione e della sua industria, attribuiva al polo espositivo anche la funzione di centro di interpretazione di un contesto del quale si riteneva essenziale fossero conservate le presenze architettoniche più significative e la fisionomia complessiva. Le cose non sono andate così, appunto, ma non sono solo «scheletri di capannoni» ciò che resta dell’ex laminatoio che affianca il museo e degli edifici industriali pericolanti che si innalzano – non sappiamo per quanto ancora – appena a sud del museo stesso: un loro recupero, capace di non cancellarne i caratteri così come di prevederne un riuso non puramente abitativo e terziario, appare indispensabile garanzia del mantenimento di quel contesto.

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Il dialogo a distanza fra due grandi musicisti

Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 384, euro 16,50)

La vita travagliata di Carlo Gesualdo da Venosa, autore di madrigali a cavallo fra il Cinque e il Seicento, la si conosceva e aveva già ispirato romanzi: uxoricida, afflitto dalla morte dei figli, per l’intera vita alle prese con una ricerca musicale mai in grado di sedare la sua inquietudine, fino alla morte prematura e sofferta. È la sua figura tragica ed enigmatica che si ripropone nella “Cronaca” scritta da uno dei suoi servi – il più fedele e infelice, un nano deforme, colto e sensibile – o forse apocrifa, che un altro musicista, tre secoli dopo, acquista in una libreria antiquaria di Napoli e legge appassionatamente, concependo l’idea di rivisitare tre dei madrigali di Gesualdo secondo canoni novecenteschi. Lo ha fatto davvero Igor Stravinsky, con il Monumentum pro Gesualdo da Venosa composto nel1960, ed è qui, nel dialogo a distanza che si sviluppa fra il musicista contemporaneo e quello secentesco la novità e la ragione di interesse principale del romanzo di Tarabbia. Un romanzo che si fa via via sempre più “gotico”  – come l’autore stesso avverte – e tuttavia non riserva al lettore solo vicende cupe e scene di cruda violenza, ma anche la storia di un progressivo avvicinamento tra due artisti geniali, nel quale emerge una concezione della composizione musicale, e più in generale della creatività, aliena dal mito di una libertà assoluta e incline piuttosto a riconoscervi un lavoro teso a “catturare l’unica evoluzione musicale logica possibile”, perché “non si può costruire sul niente”. Occorre che la scrittura, anche quella di parole, trovi una “resistenza”, ben sapendo comunque che non sarà mai possibile realizzare “il vero scopo dello scrivere”, ossia “trovare parole definitive, oggettive”, “trovare una frase che racchiuda un sentimento, che lo incarceri una volta per tutte in una forma assoluta, che impedisca a chi legge di raccontare quello stesso sentimento con parole diverse da quelle che trova scritte”. È uno Stravinsky professionalmente ambientato negli Stati Uniti ma culturalmente, forse esistenzialmente, spaesato in una Hollywood che lo ha “sia celebrato che respinto” e nella quale pure abita agiatamente, quello che si misura con l’idea di Gesualdo che i suoni a disposizione non bastino e che gli uomini siano condannati a non poter attingere a quelli infiniti che abitano l’universo, infiniti come i mondi di Giordano Bruno: “È naturale – obietta il compositore russo – che la musica sia limitata, e che i suoni siano in fondo pochi. È la nostra fortuna e la nostra benedizione: se così non fosse, non ci sarebbe data la possibilità di organizzarla, perfino di immaginarla. Saremmo perduti”.

Eppure è un “padre” che Stravinsky sente in Gesualdo, un padre che sa comprendere nel profondo: non “un innovatore, un iconoclasta, “un originale senza dubbio, qualcuno che portò il genere del madrigale alla saturazione. Ma (che) proprio per questo non è un innovatore, non porta il nuovo: egli si appoggia alla tradizione e ne slabbra di un poco i confini (…) Fa il nuovo, per così dire, affastellando tutti gli elementi della tradizione”. Ecco il punto, e il riconoscimento che ne consegue: “In questo ci somigliamo: nel cercare qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito”. È qui l’originalità, la grandezza di Stravinsky, per questo bollato come reazionario dall’Adorno che solo nella dodecafonia di Schönberg vedeva un progresso rivoluzionario. Parlando di musica, è della cultura del Novecento, del posto che l’eredità della tradizione in essa ha occupato – e della sua catastrofe, come vogliono alcuni – che questo romanzo, dalla trama fitta e densa di colpi di scena, parla: “bisogna dialogare coi padri, dar loro un linguaggio nuovo che li renda vicini”, proprio come ha fatto Tarabbia. E infatti – è la conclusione cui giunge il professore cui Stravinky ha sottoposto la Cronaca per avere un parere sulla sua autenticità – “Niente mi leva dalla testa che il Suo lavoro su questi tre madrigali sia la trasposizione di ciò che l’autore di questa cronaca, chiunque egli sia, ha fatto con la vita e l’opera di Carlo Gesualdo”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una ‘critica poetante’ di Leopardi

Antonio Prete, La poesia del vivente. Leopardi con noi, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 192, euro 17)

C’è il sapore di una constatazione conclusiva nel nuovo libro di Antonio Prete su un poeta cui ha dedicato negli anni studi che hanno cambiato il modo di leggerlo – da Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (Feltrinelli 1980) a Finitudine e Infinito. Su Leopardi (Feltrinelli 1998) e Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (Donzelli 2004). Senza dimenticare il capitolo che nella nuova edizione di Nostalgia. Storia di un sentimento (Cortina 2018) si è aggiunto riservando uno spazio alla poesia e inevitabilmente richiamando Leopardi.

Sembra perciò l’esito di un consuntivo quello che si profila già nel sottotitolo e si chiarisce fin dalla prima pagina: “Ci sono poeti che continuano a stare con noi. Camminano con noi” e Leopardi è senz’altro uno di questi, perché “Ci accompagna con le diverse forme della sua scrittura”, “tessitura assidua di un pensiero poetante. Di un pensiero, cioè, che la poesia anima dei suoi modi, e dunque salva dal compimento, dall’ambizione del sistema, e trattiene nel campo aperto dell’interrogazione, dell’assillo della ricerca”. Quell’interrogazione, quell’assillo che, appunto, non ci lasciano per tutto il corso dell’esistenza, e che trovano – in modo diverso secondo le età della vita in cui torniamo a rileggerlo – rispondenza nel poeta che “oppone a una civiltà che ama le astrazioni – popolo, pubblico, massa – il corpo individuo: con il suo affanno, con le sue ferite. (…) E nella terra, così come nel suo luminoso satellite, scorge il ritmo di una comune appartenenza di tutti gli esseri a una cosmologia sconfinata”, e insieme al “mondo snaturato della natura”, la cui bellezza e integrità sono state piegate “alle ragioni della tecnica. O alla frenesia del consumo”, e compromesse dalla rimozione della fragilità del vivente, e della morte. Solo la poesia, allora, può “aiutare a conoscere ed abitare la natura”, la poesia, che “come la ginestra è un fiore tra le rovine”, capace tuttavia ancora di portare un “sorriso nella tela brevissima della nostra vita” – secondo la citazione di Sterne che ritroviamo nello Zibaldone –, nella vita di creature, quali sono gli uomini, costitutivamente desiderose di felicità e bisognose di infinito anche se, allo stesso tempo, consapevoli del loro destino di finitudine e infelicità.

Il rischio, volendo riferire di questo libro, è naufragare nel gusto della citazione, fin dal primo momento, quando si legge la prefazione dell’autore, e questo accade non solo per la qualità della scrittura, che sonda insieme aderisce alla voce del poeta, ma anche perché la critica di Prete è – potremmo dire parafrasandolo – una critica poetante. Una critica, cioè, che “non può essere altro che il racconto della propria esperienza di lettura”, della quale “si annotano passaggi per dir così interiori, cioè momenti in cui la presenza del testo agisce nel proprio sentire”, con “un’implicazione di sé nell’ascolto” tale che “il movimento dalla lettura verso la scrittura appare necessario”. Una scrittura, comunque, che sempre “dal testo muove e in sintonia con il testo e nello spazio del testo prende respiro”.

Da qui, da questa vicinanza del testo critico a quello poetico deriva una vicinanza crescente del lettore di questo libro agli argomenti e alle movenze del suo autore, sicché, volendo evitare il naufragio di cui sopra, non resta che enunciare – con le parole dell’autore, certo – alcuni dei temi che percorrono queste pagine, rinunciando a metterne in luce la concatenazione, rigorosa e rivelatrice, via via riproposta come un invito appassionato e convincente a misurarsi con le opere leopardiane.

Sono le costanti fondamentali della poesia di Leopardi che così emergono. L’“assidua dislocazione del punto di osservazione”, innanzitutto: “dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’anteriorità luminosa”, i cui luoghi sono gli antichi, i fanciulli, gli animali (cui sono dedicate alcune fra le pagine più intense). Detentori di uno sguardo, di un modo di rapportarsi al mondo e alla vita che indica il punto di vista necessario per una critica della modernità aliena da ogni tentazione utopica (risultando sempre dominante “la fascinazione del prima e dell’oltre, non quella dell’altrove e dell’altro tempo”). Una critica sostanziale e pure capace di riconoscere che “La modernità è allo stesso tempo distanza dal corporeo e affinamento della sensibilità (…) sottigliezza dello sguardo”: una dimensione entro la quale nasce lo stesso pensiero poetante di Leopardi trovando nella ricordanza il suo movimento essenziale, “dolce perché porta con sé immagini perdute, sottratte alla prigione dell’oblio”, ma anche “amara perché l’immagine che porta con sé è una parvenza”, la cui “essenza è l’impalpabile effimero sparire”. Sicché il “tempo della poesia” è “un tempo che raccoglie quello che il tempo fisico, che è irreversibile, ha bruciato” e la poesia si definisce “come ospitalità di quel che è perduto”.

Il “romanzo familiare” con le sue figure e i suoi episodi, il rapporto con le città via via divenute per Leopardi luoghi di soggiorni più o meno duraturi, la sua complessa relazione con la traduzione, l’attualissima riflessione sugli italiani e l’Italia, i motivi di vicinanza e di distanza da Vico, l’abusata categoria del pessimismo a lungo pretesa quale chiave di lettura della poesia leopardiana sono altri temi che il libro affronta, commenta, integra in una visione complessiva e che qui si sono richiamati in una sintetica rassegna che non può in ogni caso tralasciare di segnalare pagine che spiccano per la loro capacità di mettere in pratica quello stile critico prima descritto. Pagine come quelle che nell’Elogio degli uccelli individuano “un piccolo compendio della filosofia leopardiana”, o come quelle dedicate all’Infinito, frutto di “un’immaginazione corporale” che detta una lingua percorsa dai “riverberi” di un “infinito osservato nella sua umana e comprensibile apparizione”, per questo in grado di “(mettere) in scena l’essenza stessa della poesia”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una sinistra ed enigmatica ‘montagna magica’

Claudio Morandini, Gli oscillanti, Bompiani 2019 (pp. 272, euro 17)

La montagna, e i montanari, anche qui, e l’enigma che pervade i luoghi, le vite di chi sta lassù. Ma anche con questo romanzo, come con Neve cane piede, del 2015, non ci troviamo nella cornice ormai collaudata del giallo alpino. Anche in queste pagine ricorre l’alterità, vera o presunta, dei paesani d’alta quota, quel “Voialtri che state in città credete…” che ricorreva in Le pietre, pubblicato due anni fa, ma di nuovo il romanzo non si lascia ridurre a una metafora dell’estraneità, o dell’ostilità addirittura, della montagna rispetto alla città.

I romanzi di Morandini hanno questo carattere – e questa attrattiva – di fondo: la loro irriducibilità a interpretazioni che ne svelino significati sottesi. E, analogamente, la loro sostanziale inaccostabilità ad altri modelli letterari. Solo il nome di Dino Buzzati, forse, risulta in qualche modo pertinente, ma di quello non ritroviamo qui il fascino che, pur nella sua enigmaticità, la montagna conservava. Nelle pagine di Morandini, d’altra parte, è inutile cercare riferimenti tanto alla salubrità del clima montano quanto al permanere di un saper vivere irrimediabilmente perduto nella realtà urbana. Talmente inospitale, umido e freddo, è il paese di Crottarda quanto sferzato da un sole implacabile è il dirimpettaio Autelor. Tanto invidiosi e vendicativi sono gli abitanti del primo quanto esibizionisti e competitivi quelli del secondo.

È nel bel mezzo di questa faida annosa che si viene a trovare la protagonista: da bambina, villeggiante con i genitori; etnomusicologa ora. Ammaliata allora dai richiami inintelligibili e misteriosi dei pastori che udiva la notte; spinta adesso da una volontà di sapere, di capire, che ha saputo conservare la suggestione sperimentata nell’infanzia, aliena com’è dalla supponenza accademica della sua docente e dalle ambizioni che tengono il fidanzato prigioniero dei suoi impegni universitari. Ed eccola allora, munita di taccuino, fogli pentagrammati e registratore, a indagare quei richiami “Di solito espressi in un codice composto da trilli, fischi, brevi grida monosillabiche, al più bisillabiche” che “servono a richiamare il gregge, o a sollecitare l’intervento dei cani”, ma che a Crottarda – secondo l’ipotesi di lavoro che la ricercatrice si propone di verificare – risultano particolarmente “originali e degni di ulteriore studio” perché rivolti anche ad altri pastori, sostituendo di fatto “il codice verbale tra una malga e l’altra”. La curiosità degli abitanti, venata di un’incredulità che sconfina nel dileggio dell’“ingenuità” della colta cittadina, non disarma la giovane studiosa: non doveva essere diversa l’accoglienza di Béla Bartók nelle campagne ungheresi, come ci ricorda, in un esergo, l’autore (“Non scherzo affatto. Parlo sul serio. Sono venuto appositamente da lontano. Da Budapest, per cercare quelle vecchie canzoni che sono conosciute solo qui, da voi!”).

Senonché, a poco a poco emergono fra i crottardesi aspetti inquietanti, discorsi difficilmente interpretabili, comportamenti stravaganti e ambigui (in alcuni casi accostabili a quelli che incontriamo in un libro per ragazzi dello stesso Morandini sempre ambientato in montagna, Le maschere di Pocacosa, pubblicato l’anno scorso: “Nel piccolo abitato di Pocacosa settori per così dire deviati del corpo dei figuranti di una sfilata in costumi storici di antica e nobile tradizione imperversano ormai da molti anni e molti carnevali, perseguitando i loro compaesani più civili e assennati con sciocchi, quando non sadici, dispetti e sinistre mascherature”). Se Bernadetta – la ragazza che, a suo modo, pretende di assumere il ruolo della guida per la forestiera – mette in campo atteggiamenti contraddittori e ambivalenti, i pastori che finalmente la protagonista incontra si rivelano “autori di imbrogli sonori, di contraffazioni da guitti”. Col tempo, però, si fa chiaro che si tratta di un modo di fare, di stare al mondo, che accomuna tutti “questi poveri abitanti di Crottarda, in ogni gesto, in ogni giorno, e se li potessi osservare nel corso della loro vita – questa la conclusione cui giunge l’etnomusicologa – li vedrei oscillare da quando nascono a quando muoiono, tra la loro esistenza ufficiale e il loro lato nascosto, tra il bisogno di luce, sempre troppo scarsa e precaria, e l’attrazione per il buio che li insegue fin nelle case, fin nel sonno, tra lo sfogo ilare e triviale delle burle e un’insofferenza  che (…) riporta un senso tangibile di malinconia”. “Gli oscillanti, mi viene di chiamarli. E a questo punto un po’ oscillante finisco per sentirmi anch’io”. Destabilizzata, incerta, divisa fra l’interesse per quei richiami di pastori, che non sono forse che manifestazioni di una vena di umorismo beffardo, e il mistero inquietante delle voci lamentose che sembrano venire dalle doline, da un sottosuolo abitato da “omuncoli deformi” capaci di comporre una polifonia assordante alle orecchie della musicologa.

Resta sulle sue il prete che, a corto di spiegazioni, richiama leggende come quelle che parlano di “pietre che rotolano in salita e ti volano fin dentro casa” – un richiamo esplicito al precedente romanzo – e non sa alla fine che attribuire a un perdurante paganesimo le sinistre manifestazioni del carattere locale. Ma a dover alla fine ammettere la propria incapacità di comprendere è anche la studiosa che, sospettata di collusione con quelli di Autelor, finirà per essere invitata dai crottardesi a tornare al piano, alla città, abbandonando questa “montagna magica” che non le ha rivelato i suoi segreti ma non ha spezzato il suo desiderio di penetrarne i misteri percepiti tanti anni prima e che la seguono dall’infanzia. Ci tornerà dunque, e “presto, senza pensarci troppo”, perché “C’è ancora parecchio da fare laggiù”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Un libro composto da frammenti autobiografici…”

“(…) un libro composto da frammenti autobiografici (…). Di norma, una cosa del genere andrebbe scritta in prima persona. Se lo avessi fatto, la mia storia personale sarebbe stata al centro dell’attenzione, ma non era quello che volevo. Potevo optare per la terza persona, ma mi sembrava troppo distante (…). In alternativa c’era la seconda persona. Più ci pensavo e più mi rendevo conto che avrebbe avuto l’effetto di aprire in piccolo spazio tra me e me, in cui avrei potuto intraprendere un dialogo intimo con me stesso. Volevo guardarmi da una certa distanza, piccola però, e la distanza della terza persona sarebbe stata troppo grande. Allo stesso tempo volevo coinvolgere il lettore. Per molti versi il libro invita il lettore a esplorare le proprie memorie, a riflettere sulla propria vita. Spero che funzioni da cassa di risonanza e che le persone ricordino il genere di cose che io ricordo di me stesso nel libro”. (Paul Auster)

La voce di un maestro

Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Il Mulino 2019 (pp. 154, euro 14)

“Mah! Chissà…”: le parole che chiudono il libro sembrano contrastare con la perentorietà del titolo. In realtà, tutta l’argomentazione che vi si sviluppa è condotta all’insegna della problematizzazione, a partire dall’”atto di contrizione” che la apre riconoscendo l’esistenza di “un limite etico in chi sa solo produrre parole” e la legittimità di una domanda antica e sempre attuale: “Che cosa viene prima: l’azione o il pensiero?” Anche se, occorre pure tenerne conto, “Oggi, siamo in un’epoca attivistica e antintellettualistica”, in cui “Le cose si fanno perché sono possibili”. Un’epoca che solo apparentemente si potrebbe ritenere trovi assonanza nella scritta comparsa nel maggio del ’68 sui muri della Sorbona – “Jamais plus de maîtres” –, che, “per quanto ingenua e semplicistica” aveva in realtà di mira “l’uso sopraffattorio della funzione magistrale”. Senonché, “il magistero non è necessariamente oppressione, ma può essere un aspetto della liberazione”. Basta intendersi su chi, che cosa sia un maestro, e si convenga che “è solo quello che è più avanti provvisoriamente”. E del resto, quel più lo ritroviamo nella radice stessa di magister, in quel magis che si contrappone al minus che non dobbiamo trascurare di scorgere in minister anche se è ormai una “lingua della politica disastrata” a contraddistinguere il nostro tempo, nel quale “il ministro si considera colui che detta legge e crede di avere gli altri al proprio servizio”, maestri compresi. I quali, per parte loro, hanno sempre più lasciato il posto agli “influencers, quelli che dettano e assecondano a milioni le inclinazioni di massa e le mode attraverso strumenti di persuasione potenti e capillari”.

No, i maestri di cui questo libro rivendica la permanente e attualissima necessità – e, deve ammettere, la penuria – sono quelli che hanno in comune “un medesimo modo di concepire l’attività intellettuale come alimento della vita sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e scuotere la routine che ci avvolge”.

Alimento, interrogazione, capacità di rivoltare il senso comune: sono questi gli scopi che il maestro Zagrebelsky persegue in queste pagine, in un discorso che si propone di definire il significato della cultura; di prender atto di una generale crisi della “funzione intellettuale” che non eclissa tuttavia la necessità di ricordare la differenza che intercorre fra l’istruire e l’educare; fra il conoscere e il comprendere; fra il comprendere, il giustificare e il giudicare. Senza temere facili accuse di elitismo nel sostenere che “L’idea del maestro porta in sé un germe aristocratico”, constatazione del tutto impopolare in anni in cui “la maggioranza presume di avere sempre ragione”, sicché “la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio”. Attenzione però: “Vano è il lamentarsi degli intellettuali che non si sentono ascoltati e vana è la deplorazione che viene da chi li invita a mescolarsi col mondo.” Perché “il guasto di fuori è anche in ciascuno di noi”. E cionondimeno, “La conoscenza è discernimento tra il guasto e il sano”: “Il maestro tende verso l’alto. Ma, se non si propone di guardare anche da giù in su, e non solo da su in giù, è vacuo. Il maestro è in mezzo e se pretende d’essere giudice senza essere giudicato, cioè di non essere lui stesso parte del problema, non è sincero”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una vita vissuta pienamente

Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, edizioni e/o 2019 (pp. 480, euro 11,99)

Una vita vissuta pienamente, non perché è capitata ma perché così la si è voluta vivere: affidandosi a quel che via via accadeva, agli amori e ai disamori, agli acquisti e alle perdite. Essere aperti agli altri, alle nuove esperienze che la vita propone – ci dice questo romanzo – non vuol dire cambiare rotta ad ogni incontro, non vuol dire annullarsi in ogni situazione nella quale ci si venga a trovare. Ma neanche significa vivere sempre sulla difensiva, opporre la volontà che nulla cambi ad ogni avvisaglia di mutamento.

Questa la filosofia di vita – mai dichiarata, ma praticata nei fatti – di Violette Touissant. Quanto ai fatti, è presto detto: “Facevo la guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero. Assaporo la vita a piccoli sorsi, come un tè al gelsomino con un po’ di miele”. Violette sa quel che vuole, ma sa anche che non sono i progetti che si fanno a portartelo; inutile illudersi di poterla pianificare la propria esistenza perché scorra lineare, secondo regole stabilite. Meglio accettarla, anche quando se ne devono combattere le asperità, anche quando sembra di dovervi soccombere: “Sono stata molto infelice, addirittura annientata. Inesistente, svuotata. (…) Le mie funzioni vitali continuavano, ma senza un dentro, senza a mia anima (…).  Ma siccome l’infelicità non mi è mai piaciuta ho deciso che non sarebbe durata”. Quando arriva, comunque, inutile chiudere gli occhi, che si tratti di ritrovarsi ad essere “vittime collaterali del progresso – l’automatizzazione del passaggio a livello rende lei e suo marito disoccupati – o a pagare per l’egoismo di un uomo grande e grosso che hai amato, con “la sensazione di appartenergli corpo e anima” – ma si è via via rivelato per il bambino mai cresciuto che sua madre ha voluto rimanesse. Inutile chiuderli neanche quando arriva il dolore più grande di tutti: l’incidente tragico e banale che ti toglie la bambina divenuta ragione di stare al mondo, una figliolina compagna di giochi che non smetteva di stupirti, e di tener viva la bambina che aveva continuato a vivere in te, nonostante tutto.

Saranno gli altri a salvarti: la vicina che hai aiutato quando era lei in difficoltà, il guardiano del cimitero in cui la piccola viene sepolta e che ti insegnerà il suo lavoro per poi cedertelo, l’uomo che nello stesso cimitero arriva per assolvere all’ultimo desiderio della madre e saprà farti tornare a immaginare l’amore. Altri esseri, ai quali Violette non si aggrappa, ma sa riconoscere per quanto “disadattata, spezzata” si senta, e accogliere non come soccorritori attesi, ma come simili con i quali tornare a realizzare lo scambio che è la vita, se è vita vera. Una vita che sa riprendere, e indurti a “ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.

Come spesso capita, sintetizzare quel che un libro ti ha lasciato rischia di offrirne una fisionomia parziale, tanto da poter risultare falsata: la storia di Violette Touissant –  narrata con una certa linearità nella prima  parte, calata in un andirivieni di flashback, pagine di diario e lettere nella seconda – corre sul filo di un umorismo leggero quanto indefettibile che si annuncia sin dai titoli dei capitoli, parodie di epitaffi che grondano retorica funeraria in molti casi, capaci di fermare per un attimo l’attenzione del lettore in altri (Non sei più dov’eri, ma sei ovunque sono ioLe foglie morte si raccolgono a palate, i ricordi e i rimpianti anche). Ma è la vita che – circondata dai suoi gatti e dai compagni di lavoro, tre necrofori che a volte le sembrano i fratelli Marx – quotidianamente la protagonista conduce nel suo cimitero a riservare momenti nei quali il sorriso non può non affiorare: “La morte comincia quando nessuno può più sognare di te. È sulla tomba di Marie Deschamps, una giovane infermiera deceduta nel 1917. Pare che sia stato un soldato a deporre la targa nel 1919. Ogni volta che ci passo davanti mi chiedo quanto a lungo l’abbia sognata”. Oppure. “Prendersi cura del cimitero vuol dire prendersi cura dei morti che vi riposano e rispettarli. Nel caso non siano stati rispettati da vivi, che almeno lo siano dopo morti. Sono sicura che vi sono sepolti anche molti stronzi, ma la morte non fa distinzione fra buoni e cattivi. E poi, chi non è stato un po’ stronzo almeno una volta nella vita?”

A conti fatti, pare ci sia sempre una ragione per “ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Ascoltare quel che i personaggi dicono

Alejandro Zambra, Storie di alberi e bonsai, Sellerio 2918 (pp. 144, euro 14)

“Il problema è proprio questo, che in questa storia non ci sono nemici”, avverte già alla seconda pagina l’autore, ma questo non significa che non vi accada nulla, perché “questa [che si racconta] non è una sera normale, almeno non ancora. Lui non è completamente sicuro che ci sarà un giorno dopo, perché Verónica non è tornata dalla lezione di disegno. Quando sarà tornata il romanzo sarà finito.”

Ecco: il gusto di guardare il proprio romanzo farsi, o meglio: la messa in scena del piacere – che, anche se a volte un po’ lezioso, si trasmette al lettore – di star a guardare quel che succede, ad ascoltare quel che i personaggi dicono.

Il tono non del narratore, insomma, ma di uno che racconta, sorridendo, il racconto di un altro. Facendone la sintesi tuttavia, perché non si vuol annoiare, non sia mai. Non divertire ad ogni costo, non evitare quindi qualche nota di riflessione, amara se occorre, ma non dilungarsi: “Alla fine lei muore e lui resta solo, anche se in realtà era rimasto solo diversi anni prima della morte di lei, Emilia. Supponiamo che lei si chiami o si chiamasse Emilia e lui si chiami, si chiamasse e continui a chiamarsi Julio. Julio ed Emilia. Alla fine Emilia muore e Julio non muore. Il resto è letteratura.”

E dunque, si può anche scrivere una “storia leggera che diventa pesante”: basta dirlo. Il lettore è avvertito e può comunque star tranquillo. Nessuna descrizione compiaciuta, nessun dialogo inconcludente. Solo l’essenziale: “Si ama per smettere di amare e si smette di amare per cominciare ad amare qualcun altro, o per rimanere soli per un po’ oppure per sempre. Questo è il dogma. L’unico dogma.”

Perché si leggeva, perché si legge

Lina Bolzoni, Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna, Einaudi 2019 (pp. XXX – 288, euro 30)

Uno scavo destinato agli studiosi della storia culturale europea? ai cultori dell’Umanesimo e del Rinascimento? Il libro di Lina Bolzoni è senz’altro anche questo, ma nello stesso tempo molto di più, per due ragioni. Innanzitutto le pratiche della lettura, gli scopi e i significati ad essa attribuiti “nei secoli in cui in Europa nasce il mondo moderno” risultano straordinariamente attuali; in secondo luogo, documentarsi, e interrogarsi, su di essi risponde a una domanda che altrettanto ci riguarda da vicino: è  “ormai inesorabilmente alle nostre spalle” quel “mondo in cui la lettura è esperienza comune e insieme del tutto intima e personale; una specie di viaggio in cui, incontrando l’altro, si riconosce e si ridisegna il proprio io”? È dunque la “velocità del cambiamento” che ha investito anche le nostre consuetudini culturali a suscitare “l’idea (e il desiderio) di ripercorrere i grandi miti che il Rinascimento ha costruito intorno alla lettura, di guardare da vicino la rappresentazione di sé come lettori che troviamo” in quell’epoca. A partire da Petrarca e Boccaccio, passando per Machiavelli, Erasmo, Montaigne e arrivare a Tasso, il libro ci conduce a ripercorre “quel che ci dicono sulle loro esperienze di lettori”, sul loro rapporto con i libri – che spesso prefigura quello delineato da Benjamin, per il quale quello con i libri è “il rapporto più profondo che in assoluto si possa avere con le cose” – e con quell’“autoritratto segreto” che è la propria biblioteca, valenza che ad essa continuano ad assegnare il capitano Nemo di Jules Verne come il Peter Kien di Elias Canetti, che in Autodafè diventa la sua biblioteca.

Attraversiamo così le pagine in cui Petrarca dice della sua insaziabilità in fatto di libri, del suo rapporto emotivo, fisico, con la lettura, un rapporto nel quale la lettura si salda con la scrittura, ma soprattutto consente una necessaria e salutare presa di distanza dalla città, dai suoi affanni, dallo spirito competitivo in essa dominante, o addirittura dalla rozzezza del mondo contemporaneo. È il tempo individuale, emancipato da quello sociale – potremmo dire – ad averla vinta quando è la lettura a riempire i giorni; è un tornare a far centro su di sé il beneficio ineguagliabile che ne può venire, con il vantaggio oltre tutto di non ritrovarsi soli. Il tema non è nuovo, come tanti motivi umanistici ha ascendenti nella tradizione del pensiero antico, ma è ripreso con convinzione, rivissuto in autori come Leon Battista Alberti, per il quale “la compagnia dei libri è il vero rimedio alla solitudine, ai mali che derivano dalla frequentazione degli uomini e dalla decadenza morale e politica”. La biblioteca appare allora “il nuovo eremo”, un rifugio popolato dei ritratti dei grandi autori con i quali si dialoga, un “teatro della lettura” – come lo “studiolo” di Federico da Montefeltro – che garantisce la trasmissione del sapere e dei valori fra le generazioni; come lo “scrittoio” nel quale Machiavelli si ritira la sera, o la torre in cui Montaigne compone i suoi Saggi.

Barriera contro la moltitudine e le passioni sarà anche per il Tasso, capace tuttavia di intravedere nella lettura anche pericoli come un’immedesimazione nei pensieri dell’autore tale da esserne invasi e perdere ogni orientamento fra le opinioni contrapposte con le quali i libri ci mettono in contatto. Ma è l’immagine del riparo da un “mondo ingiusto” a prevalere fra i doni della lettura. Lo penserà Ruskin, per il quale la lettura è “conversazione con libri-amici” e deve perciò essere diffusa attraverso biblioteche pubbliche, ma non Marcel Proust – che pure ne è l’ammirato traduttore – il quale “non accetta la concezione utilitaristica” dell’inglese: “l’idea della conversazione è per lui in conflitto con la condizione essenziale della lettura, che è la solitudine.” Una meravigliosa solitudine, appunto.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Quei monti azzurri

La vita quotidiana e le figure che animano palazzo Leopardi riempiono le pagine di un immaginario, ma non inverosimile, quaderno di Paolina, divisa tra passione per lo studio e senso di segregazione; vaghe speranze d’amore e consapevolezza del proprio infelice aspetto; soddisfazione per le prime prove della genialità del fratello e timore che il suo desiderio di gloria si traduca fatalmente nella decisione di lasciare Recanati, di valicare quei «monti azzurri» che chiudono l’orizzonte, e sembrano evocati nella composizione cromatica che William Turner creò nel 1819. L’anno stesso in cui Giacomo tenterà di fuggire dalla casa paterna e, a poche settimane dal fallimento del suo disperato progetto, comporrà L’infinito, dove non i monti lontani ma la vicina siepe impedisce allo sguardo di giungere all’ultimo orizzonte. Sarà in questi versi che Paolina potrà credere, sia pure per poco, di intravedere l’approdo all’idea che, a confronto dell’immensità dello spazio, e dell’incommensurabilità del tempo, l’altrove sfumi nel qui, nel posto in cui ci è stato dato di vivere.

Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:

Nell’Agosto del 1817

Anche oggi è accaduto. So intuire qual è il suo stato al solo vederlo lasciar di furia la biblioteca, per serrarsi nella sua camera; di lì a poco sortirne e quindi prender a vagare per la casa, e in fine tornare al suo tavolo e guardar alle carte, nere della sua scrittura, come a cosa d’altri, cui lui non avesse messo mano e anzi non potesse riconoscervi senso alcuno, ma solo ritrarne un’estraneità che confina col disgusto. Riprende allora quel suo peregrinare di stanza in stanza, evitando, se ne avverte il passo, nostro padre più di tutti.
Stamattina l’ho veduto celarsi dietro a un divano, pur di non dover incontrare nostra madre che al solito, preceduta dal rumore degli stivali da uomo che indossa in casa, s’aggirava occhiuta e severa in queste sale che non abbandona mai se non per recarsi alla chiesa. Sollevato al vederla uscir dalla stanza, gli è però toccato d’incappare nel genitore ed esser obbligato a finger di ricercare non so qual volume e, interrogato con sollecitudine dello stato che pur tuttavia manifestava nel pallore del viso, e nella lassità del corpo, dover allora cercar appiglio in non so qual lieve malessere e dunque rintanarsi senz’altro nella camera e restarvi, senza più neanche aver il conforto di quel tornar ancora e ancora a macinare i pavimenti.
Mi guardo bene dal rivolgergli parola quando lo vedo in tale stato, e anzi procuro io per prima che non abbia a incontrarmi, ricorrendo a volte allo stesso suo stratagemma col nascondermi nell’anfratto d’una porta doppia. Non diversamente da me si tiene Carlo, capace di seder per ore immobile, collo stesso libro innanzi, quando l’altro non è buono di star fermo al suo lavoro. Costa poi fatica a entrambi non lasciar che trapeli il sollievo che c’inonda quando vediamo nostro fratello cader di peso, in fine, su di un canapè, il volto dilavato e le membra affrante come chi abbia dovuto sobbarcarsi a un lavoro non proporzionato alle sue forze. Solo gli occhi e la piega dolce delle labbra dicono esser quella stanchezza il segno non già d’una resa, quanto d’una silenziosa vittoria. Può non giungere nel medesimo giorno questo riaffiorar alla vita, ma doversi attendere a lungo: è il rinnovato fervore col quale vediamo Giacomo scrivere, guardar dalla finestra, intinger la penna e riprender a farla correre sul foglio a dirci allora esser nuovamente avvenuto il miracolo. Non saprei come dir altrimenti questo trasmigrar subitaneo – che intuisco, però, lungamente, e dolorosamente, maturato – da quel mondo vuoto e oscuro in cui sembrava esser caduto a quest’altro, che l’espressione del viso dice non esser stato accolto festosamente come nulla fosse accaduto; nel quale tuttavia la tristezza che su di lui sempre aleggia pare esserglisi fatta alacre amica.
Che cosa lo fa trascorrer dall’una all’altra di queste condizioni dell’anima?
Qual è il pensiero che lo fa emergere da quella notte per riportarlo non già alla luce del sole – ch’egli non ama, tanto da tener sempre socchiusi gli scuri delle finestre vicine al tavolo cui siede – ma, vorrei dire, al cielo tenue e fuggitivo che separa il tramonto dall’oscurità?
Me lo sono chiesta cento volte, e sono oggi tornata a domandarmelo. Non so trovar risposta, ma mi son fatta persuasa, ora, che neanche il mio fratello diletto saprebbe sciogliere il mistero che nella sua anima alberga, e tanto meno trovar riparo da quell’oscillare ch’egli pur credeva qualche distrazione avrebbe potuto donargli col vincer la noia, madre subdola della malinconia. Ma quale mai divertimento è possibile nel luogo in cui la sorte ci ha fatto nascere, e la famiglia tiene? Lo studio è per Giacomo l’unico possibile, e vi s’è gettato disperatamente sin da quando aveva compiuti i tredici anni, temerariamente persistendovi al punto da portare alla rovina la sua salute, e minare la sua complessione debole, e compromessa in quell’aggobbirsi che oramai irreparabilmente ha sfigurato la sua persona. Quand’è cominciato questo sfacelo? Che cos’ha arrestato il suo corpo nel naturale accrescimento della statura? Che cosa gli ha prima impercettibilmente e poi sempre più visibilmente impedito di mantenersi diritto come fino a tre anni or sono era stato? Non certo la trascuranza di sé, ché anzi era soverchiamente attento alla propria persona, tanto da avvertir a volte impedimenti, come quel di respirare o – mi si perdoni – d’orinare, che si rivelavano poi semplici effetti d’infermità puramente mentali, com’ebbe spesso a dire nostro padre con la lungimiranza che la scomparsa di quei segni ebbe puntualmente a confermare. Oltre modo desideroso inoltre, Muccio, d’aver sempre nuovi consigli circa il felice mantenimento della propria salute, salvo poi ottemperare a quelle prescrizioni in misura tale da renderle nocive. Così il giorno in cui, sentito come un poco di sole sul capo possa riescir giovevole, si diede a ristar nel giardino senza cappello alle ore più calde; né diversamente si tenne quando, udito che fortifica gli occhi il bagnarli d’acqua fresca, prese a farvi scorrer catini.
Eccessi d’un’anima che soffriva forse del presentimento dei futuri mali che avrebbero aggredito il corpo che n’era dimora. Un’anima di certo sempre incline alla tristezza, e che pure non le cedeva, non se ne lasciava oscurare.
Quando? Quando ha iniziato invece ad esserne invasa come da una tormenta che la fa simile a una landa in cui qualcuno ha pur vissuto ma si stende ora nell’abbandono, disabitata?
È un rovello che non mi lascia.
È l’enigma che la sua anima custodisce; che la mia non sa sciogliere, ma non ignora.


Non l’avevo mai fatto prima di iersera. Mai avevo veduto la mia persona intiera, nella specchiera che sta nella mia camera, l’unica che nostra madre non abbia potuto far togliere dalla nostra casa essendo congiunta a far tutt’uno colla parete che sta a lato del letto.
Non me n’era mai venuto il pensiero quand’ero bambina; poi la modestia, primo dei comandamenti instillatimi da mia madre, me l’aveva impedito. Mi guardavo mentr’ero a letto, sì, ma solo nel volto, e a me stessa davo la buonanotte alle volte, dopo le preghiere.
Mi guardavo e non sapevo riconoscermi, ora, incredula di esser io quell’esserino smilzo e gracile, il corpo spigoloso, solo il volto un poco tondo, i capelli corti, gli occhi d’un ceruleo acquoso, la bocca piccola, increspata sempre dal pensiero d’un sorriso, il labbro di sopra sporto quasi a nasconder l’altro.
Mi sono girata di fianco, e m’è venuto meno il respiro: le spalle ricurve, come a nascondere i seni di bambina ancora, mi han dato l’idea che mi stia aggobbendo. Anch’io. L’immagine di Muccio che non mi s’è più tolta dalla testa è balenata come un fantasma accanto alla mia.
Mi son messa la camicia, sono andata sotto le coltri, ho girato le spalle allo specchio.
Lo vedono gli altri? Lo vedono che vado somigliando al maggiore dei miei fratelli, che sempre gli ho somigliato anzi? Carlo richiama la figura di nostro padre, e Luigi non le è distante; nostra madre è bella, ancor oggi, mentre noi due…
Sono brutta. Brutta. «Non star con quel labbro a spiovere sul mento, e drizza le spalle» più d’una volta mia madre m’ha rimbrottato. Per cosa? Per come son fatta. È contrariata dal mio aspetto. La bruttezza reca fastidio persino a lei che crede poi di rincuorarmi col dire che la bellezza è fonte di peccato, e dunque… lo pensa davvero, forse. La religione glielo fa credere. Ma gli altri? Non sono da meno. Non ne parlano se mai, nessuno fa parola della bruttezza: la vedono ed è come non la vedessero, e a questo modo la fuggono. La bellezza, per chi è bello è pari a un destino, o a un merito; la bruttezza nessuno pensa sia una colpa, ma in qualche modo che sia anch’essa la rivelazione d’una fatalità. Si compiange il cieco, si motteggia ma alla fine si compatisce il sordo, e lo storpio; ma non il brutto, che si preferisce far mostra di non vedere, volgendo altrove lo sguardo, come si fa quando sulla via ci s’imbatte in un rospo scempiato dalla ruota d’un carro.


Nel settembre del 1819

Non so, non voglio dire nulla.
Aggiunger parole all’idillio che Giacomo ha composto in questi ultimi giorni, e che ha lasciato nella cartella dove ben sa aver io facoltà di veder le sue carte, mi parrebbe profanarne la perfezione sospesa, come d’un evento che non ha cessato d’accadere, e conchiusa, al tempo stesso, come non altrimenti che così potesse trovar forma, in quel foglio scritto di suo pugno, quasi che gli occhi avessero voluto fargli grazia d’una tregua.
Quel che so è soltanto che non son buona a cessar di ripeter fra me questi versi: una sola lettura m’è bastata per imprimerli nella mente, e il tornar a dirmeli – senza formular parole, oppure recitandoli sommessamente, ché mi pare non ammettano li si pronunci a voce spiegata – non esaurisce la commozione che me ne viene, ora come quando li ho scorsi la prima volta, fin da quella attenendomi al passo ch’essi stessi impongono.
Come se il tempo fosse in loro inscritto.
Ero in errore a pensar che quanto avevo letto nel suo quaderno, quell’ultimativo sguardo sul nulla, segnasse un confine che la poesia non avrebbe potuto mai più sormontare: quelle parole sconsolatamente gelide tornano a vivere qui nel calore d’un’anima confortata dal saper guardar in se stessa. L’anima d’un poeta che trae nutrimento dal proprio filosofare, d’un filosofo che può dar sostanza al suo pensiero poetandone; e a una seconda verità mi sento di credere: la quiete grandiosa che percorre queste righe è figlia della malinconia più angosciosa; il respiro che qui apre l’anima non sarebbe se non avesse conosciuto il pericolo di rimaner soffocato.

Se non son io a ridirmelo, è il canto stesso de L’infinito a risonar nella mia mente, facendomi ogni volta scoprir qualcosa che giurerei di non aver prima veduto. Non cesseranno di dirmi sempre il nuovo questi pochi versi, come fossero tanti di più, come se un’Odissea fosse in essi rappresa.
Stasera è quella siepe ad aver conquistato il mio sentire: dove sono i monti azzurri che lo tiravan là, a contemplarli, a nutrir il sogno di poter essere un giorno valicati?
È l’aver preso atto di non averlo potuto fare e un’amara consapevolezza di non poterlo fare mai ad averli esclusi? O è il presentimento d’una delusione che, fattolo, quel che v’è al di là arrecherebbe?
Ma che vale por domande simili, quando ciò che l’idillio sembra dirmi è che qui, qui si può trovar l’altrove, sì che il desiderio struggente della partenza sa sciogliersi nella dolcezza dell’arrivo fino a non distinguersene…
Ha forse Giacomo trovato una superiore ragione per restare, un convincimento in luogo della rinuncia?
Ha forse disarmato finalmente la lama tagliente della malinconia nell’amplesso soave della tristezza?


Nel Novembre del 1819

Non m’ha dato mai a copiare il suo idillio. Non so se abbia provveduto egli stesso, non so distinguere il foglio sul quale stamane ancora apportava lievi mende da quel che ho veduto or son quasi due mesi fa.
Due mesi… Se dovessi dire quel ch’è accaduto in questo lasso di tempo non saprei che richiamar l’immagine di lui, ieri, seduto su una sedia addossata al muro dell’orto: gli occhi attoniti, la bocca un poco aperta, le mani fra le ginocchia. Immobile. Indifferente al freddo che oramai è arrivato.
Quando s’è reso conto ch’ero lì non ha cambiato posizione. Ha solo detto, a voce tanto bassa da farsi sentir appena, che se fosse impazzito è così che sarebbe rimasto sempre.
Io non so se la sua anima sia tanto grande da contemplar stati tanto diversi, e opposti, tra i quali dover migrare senza posa, abbandonando quel che sembrava finalmente raggiunto per tornare ad altro che si sarebbe detto appartenere ormai al passato; o se piuttosto sian diverse le anime che lo abitano, ignare l’una dell’altra, sì che ognuna torna a occupar la casa da padrona, dimentica di quella che vi stava prima.
Oppure, si dovrebbe pensare, egli cammina sempre sull’orlo d’uno scoscendimento, vi torna a rovinare, e giace laggiù, sul fondo del burrone, e poi da capo ricomincia a cercar di risalire la china erta lungo la quale è precipitato.
Gliela farà, anche questa volta, a tornar alla luce? O rimarrà, inerte, in quel pantano?
«Non ho più la forza di desiderare alcunché, neanche di morire» ha detto ancora. Ma chi parla in questo modo non è affatto pazzo, ché quegli ha perso cognizione d’aver nutrito desiderio, né s’avvede del fango che minaccia di sommergerlo del tutto.
Le ha scritte a Giordani le cose che mi diceva, là al muro dell’orto, me le ha dettate colla stessa voce flebile, monotona.
Torno ogni giorno a recitarmi quei versi. Non gliene ho mai detto nulla. Perché temo che avrei l’impressione di parlarne a un altro, non al loro autore. Ma allo stesso tempo io so bene che è lui, Giacomo, ad averli scritti, e che lui solo avrebbe potuto. Non un altro che non è più.
So che è pur sempre nella sua mente tormentata che han preso forma e han potuto trovare la loro voce sommessa, e potente, inaudita quanto il silenzio maestoso di un cielo nel quale si vedano le stelle e la luna e il sole insieme.
Quel che non so più, e non credo scriverei ancora, è che sian figlie della malinconia, quelle parole. Non di questa che da qualche settimana l’ha preso, almeno.
Gli avrei invece parlato, dell’idillio intendo, se non fosse caduto nello stato in cui è? È la sua prostrazione a impedirmi di farlo anche se lo vorrei?
O non è piuttosto il sentimento di soggezione, non saprei chiamarlo altrimenti, che dal momento in cui l’ho letto m’ha preso? Soggezione… timidità, forse, ritegno… Nel momento in cui l’ho sentito più vicino, dentro di me vorrei dire, l’ho anche sentito lontano, ad altezze per me inaccessibili.
Ma lui? Lui dov’è, ora? Darei il cuore per sapere se anche a lui quelle altezze paiono adesso inarrivabili; se gli sembra che un altro, non lui, le abbia potute raggiungere. Che cosa sente quando torna a riveder quel foglio? Sente suo ancora lo scrivere che v’ha depositato quelle parole, che le ha disposte in quel modo ineguagliabile? O se ne sente lasciato indietro, come avesse perduto il passo che aveva consentito di salir lassù, al punto da dubitar d’averlo mai posseduto?
Un dono che giunge a illuminar la vita e che la vita poi toglie: così lo scrivere gli appare?
Così, lo scrivere, non può che apparire?


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Recensioni

Dal Giornale di Brescia del 13 novembre 2019.
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Da Bresciaoggi del 15 novembre 2019.

Leopardi e sua sorella Paolina: se ne parla oggi alle 18 alla nuova libreria Rinascita

Simoni e “Quei monti azzurri”

Due protagonisti e un luogo. Continuano gli affondi di Carlo Simoni nella storia umana dei grandi che tanto privata non è, mai disgiunta dalla loro arte. Stavolta con “Quei monti azzurri”, edizioni Castelvecchi, l’occhio spione si intrufola in casa Leopardi a Recanati con l’espediente del diario fra il 1817 e il 1819 della “sorellina” Paolina infatuata di Giacomo, come lui chiusa nel palazzo prigione da cui è possibile per i fratelli evadere solo con la mente, grazie agli studi disperatissimi di lui, alla lettura di nascosto per lei femmina, l’unica della prole, dei libri della vasta bilioteca di casa. Lui è un giovane a noi noto: tutti abbiamo conosciuto dai testi scolastici le sue pene fisiche e psicologiche, il difficile rapporto con una madre bigotta, la contessa Adelaide, e con il conte Monaldo, un padre soffocante che gli preclude il mondo, gli censura la corrispondenza. L’abbiamo immaginato chino sulle pagine, triste, trovare conforto nella penna, invidiare la libertà dell’usignolo, amare Teresa vista dalla finestra. “Io vivo, o piuttosto non vivo al mio solito” scriveva. Simoni ce lo restituisce, Muccio, tramite le descrizioni di Pilla, come da nomignoli dell’infanzia. Preda degli umori e dei loro sbalzi, preda di malinconia e depressione, di frenesie, di turbamenti amorosi, di contraddizioni. Con un fermo e deciso ardore di immortalità- “volto a cercar eccelsa meta”- che a volte lo sorregge, a volte lo prostra ancora di più. “Sentimento desolato dell’inanità della propria vita, della possibilità di morire come mai si fosse nati”.
Brutto lui, brutta la sorella si descrive, lei stessa a vivere non solo le paturnie di Giacomo ma i propri fremiti, le gelosie per l’altro fratello, Carlo, la paura dello specchio, il trasporto verso un amico di lettera del poeta, Pietro Giordani, l’altrettanta voglia di fuga da giornate di claustrofobia nella magione “monastero” pur senza i voti, il peso della solitudine, senza nemmeno la speranza, lei, di lasciare un’orma di sé. “Oscura se non a chi mi ha avvicinato, fin che quegli viva, almeno, e duri memoria di me”. Con il leggere sola consolazione della vita, leit motiv nelle narrazioni di Simoni.
Così come il significato dei posti, e qui non poteva essere che l’ermo colle, contrapposto al carcere dal quale per molto non riesce a evadere, nemmeno dopo la maggiore età; il colle dove è possibile “fingersi nel pensiero”, fuori dalle stanze paterne eppur esso stesso sbarrato dalla siepe che consente volo solo all’immaginazione. Come la ricerca sul linguaggio ottocentesco letterario che riesce a stagliare meglio le figure umane, pennellandocele come in una pellicola in costume.
(Magda Biglia)


Dall’Eco di Bergamo del 28 novembre 2019.
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Dal sito della libreria Libre! Verona, presentazione dell’incontro del 6 dicembre con l’autore.

La vita quotidiana e le figure che animano palazzo Leopardi riempiono le pagine di un immaginario, ma non inverosimile, quaderno di Paolina, divisa tra passione per lo studio e senso di segregazione; vaghe speranze d’amore e consapevolezza del proprio infelice aspetto; soddisfazione per le prime prove della genialità del fratello e timore che il suo desiderio di gloria si traduca fatalmente nella decisione di lasciare Recanati, di valicare quei «monti azzurri» che chiudono l’orizzonte, e sembrano evocati nella composizione cromatica che William Turner creò nel 1819. L’anno stesso in cui Giacomo tenterà di fuggire dalla casa paterna e, a poche settimane dal fallimento del suo disperato progetto, comporrà L’infinito, dove non i monti lontani ma la vicina siepe impedisce allo sguardo di giungere all’ultimo orizzonte. Sarà in questi versi che Paolina potrà credere, sia pure per poco, di intravedere l’approdo all’idea che, a confronto dell’immensità dello spazio, e dell’incommensurabilità del tempo, l’altrove sfumi nel qui, nel posto in cui ci è stato dato di vivere.


Dal Corriere della Sera Brescia del 24 dicembre 2019.
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Giancarlo Consonni, ‘Il desiderio di infinito’. Commento a Carlo Simoni, Quei monti azzurri (Milano, 28 gennaio 2020)


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