La forma e il volto della città / Skyline in frantumi. La città che cresce e l’immaginario.

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“Ma lo si vede dappertutto…”: questo il primo commento, il più diffuso quando il cantiere era all’ultima fase e l’edificio aveva già raggiunto la sua dimensione definitiva. Un commento generico, inconcludente. Con quel ma iniziale però, rivelatore non tanto di una critica, certo, quanto piuttosto di una perplessità, o di un disagio indistinto, come quello che si avverte quando andando verso piazza Repubblica, da via Ugoni come da via Vittorio Emanuele, la prospettiva non è più libera, segnata al più dall’esile serbatoio pensile dell’ATB che si stagliava nel cielo proprio lì, dove adesso lo sguardo si ferma contro la nuova imponente costruzione.
L’immagine giusta me la dà un amico, uno che se ne intende, un architetto: fa venire in mente quelle grandi navi che passano nel canal Grande a Venezia, più alte del Palazzo Ducale.

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Maria Zambrano: perché si scrive

Non per imparare a scrivere, ma per capire perché si scrive conviene leggere quello che chi si dedica a questa pratica ha detto della propria attività. Non sempre però, o raramente anzi, si trovano spunti illuminanti nei testi che programmaticamente si propongono di rispondere alle domande decisive: perché e per chi si scrive? da dove nasce il desiderio di scrivere e il piacere di farlo?
Il più delle volte è in passaggi brevi, di fatto o apparentemente incidentali – in racconti, romanzi, saggi che parlano d’altro – che si trovano spunti interessanti.
Ci sono però eccezioni. Come lo scritto di María Zambrano del quale si propongono qui alcuni passaggi essenziali (il testo integrale si può leggere in María Zambrano,
Verso un sapere dell’anima, Milano, Cortina, 1996).
Se lo scopo di questa sezione del nostro sito è quello di raccogliere, oltre che riflessioni e resoconti, anche citazioni più o meno corpose attinenti all’esperienza dello scrivere, iniziare con la rilettura delle risposte della Zambrano alla questione che lei stessa pone,
perché si scrive, può essere un buon inizio.
(secondorizzonte/c.s.)

MARÍA ZAMBRANO
Perché si scrive

Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento effettivo, ma comunicabile, nel quale, proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta di rapporti tra esse.
E’ una solitudine, però, che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno cioè di giustificazione. Lo scrittore difende la sua solitudine, rivelando ciò che trova in essa e in essa soltanto.
Se esiste un parlare, perché scrivere? Ma l’espressione immediata, quella che sgorga dalla nostra spontaneità, è qualcosa di cui non ci assumiamo interamente la responsabilità, perché non emana dalla totalità integrale della nostra persona; è una reazione sempre dettata dall’urgenza e dalla sollecitazione. Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. Ma la parola non ci pone al riparo, né pertanto ci crea, anzi, il suo uso eccessivo produce sempre una disgregazione; per mezzo della parola vinciamo il momento e subito dopo siamo vinti da esso, dalla successione di momenti che superano il nostro assalto senza lasciarci rispondere. È una continua vittoria, che alla fine si trasforma in sconfitta. Leggi tutto

Se potessi scriverti ogni giorno

Emma e Giulio Turchi, Se potessi scriverti ogni giorno. Lettere 1927-1943, a cura di Gianfranco Porta, Roma, Donzelli Editore, 2013
(Questo testo è apparso sul Corriere della Sera – Brescia martedì 3 dicembre 2013)

Più di mille lettere, intercorse dal 1925 al 1943 fra Giulio Turchi, carcerato e poi condannato al confino, e la moglie Emma.  Una scelta delle parti più significative di questi scritti – insieme a fotografie che accompagnano il testo e sono testo a loro volta, come nelle opere di Sebald – è confluita in Se potessi scriverti ogni giorno, un libro curato da Gianfranco Porta per Donzelli. Studioso della storia del movimento operaio bresciano e dei militanti della Sinistra, Porta aveva già ricostruito le vicende di altre figure di bresciani caduti vittima dell’apparato repressivo del regime – come Domenico Viotto, Antonio Forini, Oscar e Gino Abbiati – fino a individuare  nell’esperienza del confino un terreno di indagine privilegiato. Un’indagine attualmente giunta alla fase del bilancio finale, della scrittura di un saggio impegnativo che leggeremo fra non molto, ma che intanto ha prodotto questo risultato: alla lettura del fascicolo riguardante Giulio Turchi sono seguiti il contatto e poi la collaborazione con la figlia Gioia, custode delle carte delle lettere dei genitori. Un carteggio che si discosta da quelli già conosciuti, i cui autori sono nella maggior parte degli intellettuali. Giulio è invece un operaio, comunista, ed Emma una sarta che non ha finito le elementari. Quando gli viene tolta la libertà lui ha 25 anni, lei 20. Si sono sposati meno di un anno prima. Da quel momento, l’aprile del’27, scriversi rappresenterà per anni l’unico tramite che rende possibile non semplicemente la tenuta del loro rapporto, ma anche l’approfondirsi di  un “dialogo in cui – sottolinea il curatore – si parla dell’amore e della solitudine, del ricordo e della speranza, del dolore e della felicità”.
Non solo un libro per i cultori della ricerca storica dunque, ma un documento che può esser letto come testimonianza di una lunga vicenda d’amore. Un romanzo epistolare che, fin dal modo in cui il protagonista si rivolge alla compagna, richiama altri carteggi: “dolcissima amica”, “mia anima seconda”, “la mia buona piccola mammina, mia buona amica, sorella, la mia tutto”, oggetto di un amore “da fratello da compagno e da tutto”. Come non essere tentati di lasciar correre il pensiero a uno dei più intensi fra gli scambi epistolari fra amanti, quello in cui Eloisa scrive “al suo signore, anzi padre, al suo sposo, anzi fratello”, dichiarandosi “la sua sposa, anzi sorella”, e Abelardo le risponde chiamandola sua “inseparabile compagna”? Coniugi condannati a vivere lontani anche quelli, costretti ad affidarsi alle lettere per “dividere ogni dolore e ogni gioia” proprio come Giulio ed Emma, che nei loro messaggi cercano “un po’ di requie per l’animo esulcerato” e la conferma che i loro “pensieri si incontrano”, trovandovi fin l’illusione di un contatto fisico: “quella carta è stata in mano a te, quelle righe sono state vergate dalla tua mano e nel vederle vedo tutto questo”.
L’amore come dimensione ideale, dunque? come fuga dalle traversie e dalle sofferenze? Non è questo il caso: al senso concreto della quotidianità che contraddistingue Emma, alla sua attenzione alle necessità che prosaicamente la vita pone, tanto più a chi deve sopportare le privazioni, anche materiali, che la segregazione comporta, fanno riscontro in Giulio la coscienza orgogliosa della propria integrità morale e una capacità di autocontrollo che potrebbero ridurne il profilo a quello stereotipato del militante trincerato nella sua fede. Sennonché, ci troviamo di fronte a un uomo per il quale la domanda su “come vivere la vita è una questione che (…) occupa ogni giorno parte del (suo) tempo”. Lungi dal dolersi di questa sua attitudine problematica, spesso malinconica, Giulio, memore della lezione del materialismo storico, se ne fa una ragione: “le vicende della mia vita mi hanno modellato così”. Ma la tendenza a considerare da un punto di vista filosofico le avversità  e la sofferenza attinge a un orizzonte più vasto, ora caratterizzato da motivi stoici ora da convinzioni che richiamano da vicino i toni della filosofia dell’esistenza: “non poteva trattarsi per me di andare alla ricerca del vero senso della vita per poi uniformarvi la mia, ma (…) di dare alla mia vita uno scopo, per (…) evitare così di farmi soffocare dalla noia e dalla stanchezza.” Non è dunque per far trionfare un senso certo del mondo che quest’uomo ha conformato la sua esistenza alla militanza e alle sue possibili drammatiche conseguenze, ma proprio a partire dal non senso: non sono generosità, altruismo, fiducia infallibile ad animare quest’uomo, non è un eccesso di vita che l’ha motivato e continua a sostenerlo, ma una mancanza, da lui avvertita come tratto che lo distingue dagli altri, cifra non della sua eccezionalità ma della sua unicità. Della sua solitudine, anche. Un senso di separatezza che l’ininterrotto colloquio con una persona, con cui si è resa possibile “una fusione affettiva e totale degli animi”, ha saputo orientare, illuminare di un significato.

Emma Forconi alla fine degli anni Venti
Giulio Turchi alla fine degli anni Venti
Emma e Giulio finalmente insieme nell’agosto del ’43