L’inesauribile Simenon

Georges Simenon, Delitto impunito, Adelphi 2023 (pp. 190, euro 18) e Gli altri, Adelphi 2023 (pp. 145, euro 12)

Una modesta pensione, a Liegi; la proprietaria, una quarantacinquenne devota alla chiesa, e la figlia Louise, smorta e malaticcia; i pensionanti, studenti stranieri per lo più, fra cui il taciturno, tormentato protagonista, il polacco Élie, e Michel, rumeno, il cui arrivo scompagina il tran tran della casa, e la quotidianità di Louise, che ne diviene amante. Ma non è questo a rompere il precario equilibrio di Élie, che immaginava di poter vivere accanto alla ragazza per il resto dei suoi giorni, senza esserne innamorato e senza pretenderne l’amore, essendo lui incapace di amare, di soffrire, di vivere davvero fra gli altri.

No, Élie è da subito “geloso” di Michel per il solo fatto che in lui vede quella capacità di stare al mondo, di godere della vita che a lui manca: Simenon costruisce a piccoli tratti, sornione e implacabile, il profilo del suo personaggio, sicché quando arriva a definirlo esplicitamente il lettore non resta sorpreso, ha anzi l’impressione d’aver intuito in proprio ciò che sta leggendo quando è giunto a metà del romanzo: Élie “non era orgoglioso”, come tutti gli avevano sempre rimproverato, dai genitori agli insegnanti ai pochi amici. “Non bastava a sé stesso”, a dispetto delle sue continue, puntigliose dichiarazioni di autonomia. “Semplicemente sottraeva agli altri quello di cui aveva bisogno senza che se ne accorgessero. In fondo era un ladro. E un vigliacco. Anche di Louise si era appropriato, così come aveva fatto Michel, benché in un modo diverso. Lui non l’aveva rovesciata su un letto. Non ne sentiva il bisogno. Era qualcosa che gli faceva paura. Ciò non toglie che, a sua insaputa, l’aveva legata alla propria esistenza, in un modo più intimo di quanto avesse fatto il romeno”. Per il quale concepisce dunque un risentimento che in lui, come ogni altro sentimento, non sa definirsi che in modo ambiguo, e irresoluto: “Doveva assolutamente riuscire a odiare Michel. Era indispensabile. Sarebbe stato un sollievo non aver più soltanto sé stesso da odiare”. E dunque gli spara, senza ucciderlo, ma sfigurandolo. Fugge ad Amburgo, ma lo ritroviamo – in una seconda parte che stacca recisamente da quanto finora narrato – receptionist in un albergo di Carlson City, città mineraria dell’Arizona. Ma l’ha sempre saputo: prima o poi Michel l’avrebbe raggiunto…

Al di là della vicenda e dei suoi colpi di scena, basta il personaggio di Élie a fugare l’impressione che romanzi come l’ultimo che Adelphi ha pubblicato pochi mesi fa (L’orsacchiotto), ripetitivo nelle figure e nella trama, fossero ormai tutto quello che ci si poteva aspettare dall’inesauribile Simenon.

E a confermare quanto ancora Simenon abbia da darci giunge anche l’ultimo romanzo pubblicato, Gli altri, caratterizzato da una trama che si annuncia già nelle prime righe nella simultaneità di fatti diversi (“Zio Antoine è morto martedì, vigilia di Ognissanti, probabilmente intorno alle undici di sera. Sempre quella notte, Colette ha tentato di buttarsi dalla finestra. Pressappoco nello stesso momento si veniva a sapere che Édouard era tornato”), ma che trova la propria sostanza nel soliloquio del protagonista. Quello che leggiamo è infatti il diario che, per un certo periodo, ha deciso di tenere. Il tema della scrittura, di quella autobiografica in particolare, percorre così il racconto, anche perché il diario di Blaise Huet, ha avuto un precedente nel manoscritto che lui stesso ha distrutto dopo che lo scrittore ammirato cui l’aveva sottoposto l’aveva giudicato non “un’opera letteraria” ma una semplice “testimonianza umana”. Oltre tutto imbarazzante se non offensiva per gli altri che la narrazione coinvolgeva. “Questa volta – però, si propone Blaise – la mia storia avrà un’impronta meno personale” e non potrà essere tacciata di esibizionismo o di voyeurismo. Ma degli altri si occuperà comunque, perché, oltre ai vicini e ai conoscenti, e a quelli che si incontrano senza mai farne conoscenza, gli altri sono innanzitutto i familiari da cui si sa disprezzato, in continuità del resto con il giudizio che anche lui dà di sé stesso: “Sono solo un mediocre, lo so, ma un mediocre lucido, direi persino, senza esagerare troppo, un mediocre soddisfatto”. Da questa contraddittoria consapevolezza prende forza la scrittura, una muta rivalsa sugli altri, una descrizione dei rapporti intricati e ambigui che intercorrono fra i parenti, rappresentanti di quella borghesia di cui Simenon è indagatore partecipe e implacabile. La scrittura porta così Blaise ad oltrepassare la cerchia della famiglia – e della sua storia, cui sono dedicate ampie digressioni –, fino a dargli l’impressione di “aver percepito cose che non sono in grado di esprimere, legami sotterranei tra gli uomini, le generazioni, i destini degli uni e degli altri”.

Il racconto straniato del funerale dello zio, fulcro del precario equilibrio familiare, e dell’apertura del suo testamento danno spessore alla narrazione, non tanto però da offrire al suo autore la sensazione di un riscatto, né tanto meno la conferma di una propria vocazione: “Ho riletto le pagine scritte l’autunno scorso – scrive alla fine del suo diario – e sono rimasto sorpreso dall’importanza che attribuivo a certe cose. Credevo di vivere ore memorabili. Dio solo sa quali cambiamenti mi aspettavo nella mia vita e in quella degli altri”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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