Elogio (e segreti) della poesia

Nicola Gardini, Consigli a un giovane poeta, Garzanti 2023 (pp. 204, euro 16)

Le Lettere che Rainer Maria Rilke e la Lettera che Virginia Woolf indirizzavano a un giovane poeta sono ben presenti in queste pagine, sin dagli esergo che le precedono, e nei “consigli” che l’autore avanza non solo a chi aspira alla scrittura poetica o ne tenta le prime prove, ma anche a coloro che ne sono fruitori e possono ritrovare qui, espressi con rigore e insieme con una passione capace di trasmettersi, idee che la lettura di poesie aveva permesso di abbozzare soltanto. A partire da una fondamentale distinzione: prima di ogni poesia c’è la Poesia, “intuizione e ricerca di affinità”, di “corrispondenze” come amava dire Baudelaire, che si creano attraverso la ripetizione (di lettere, parole, frasi, ritmi sillabici) che avvince “l’orecchio e la mente del lettore-ascoltatore, lo stimola ad aspettarsi (…) il ritorno di qualcosa, a stare nel tempo e nello spazio della poesia e a viverlo come spazio di una promessa”.

La poesia, infatti, “cerca di portare nello spazio della mente, prima ancora che in quello della parola, una qualche rivelazione”. Per cui “Poeta è chi intuisce un ordine nascosto, (…) un’alternativa alle interpretazioni consuete (…) sotto l’uniformità delle abitudini o delle apparenze”, e dunque “sospetta che ‘potrebbe non essere così’, che ‘questo sta per quello’, che la realtà è un ‘teatro di metafore’” e non è impossibile “ridefinire l’esistenza – i sentimenti, la morte, il tempo, la memoria, la natura, la storia e la rete in cui tutte queste cose diverse comunicano e si condizionano l’una con l’altra”. O, rifacendoci a Wordsworth, che sulla Poesia ha lungamente riflettuto, Poeta è chi ha “la propensione a essere influenzato più degli altri uomini dalle cose assenti come se fossero presenti”. Le definizioni di ciò che la Poesia è si rincorrono nelle pagine introduttive in un crescendo che via via lascia trapelare i primi, discreti, consigli.

Non si cerchi un compimento sicuro dell’apprendistato poetico: il poeta è un autodidatta, un dilettante, e “anche i poeti con un grande bagaglio artistico – assicura Szymborska – non sono ‘abituati’ a scrivere poesie. A meno che non abbiano cessato di essere poeti”. Quel che certamente è indispensabile è un precoce “amore de la propria loquela”, per dirla con Dante, ossia un’inclinazione viva che stimoli “studio, dedizione, curiosità” e dunque “attenzione” per le parole. Il poeta “si crea liste di parole, di citazioni, di definizioni” così come “tiene un diario” in cui annota eventi, situazioni, sogni, versi che non sa ancora dove metterà. E poi finalmente scrive, conscio però che “L’‘io’ di una poesia è un ‘io’ che recita a essere ‘io’”, è un personaggio insomma, che non coincide con la persona, ma è fatto di molti altri io, attuali e passati, ed è dunque un “io migliore” (questo voleva dire un giovane poeta, Rimbaud, quando sosteneva che “Io è un altro”).

È un grande, convincente elogio della poesia quello che troviamo in questo libro, senza il quale del resto i “consigli” cadrebbero nel vuoto e risulterebbero pedanti le nozioni che pure il testo fornisce, sempre inquadrandole però nell’esperienza del lettore medio, anche di quello che non ha potuto dimenticare il “viziaccio” impostogli ai tempi della scuola: la parafrasi, fonte per molti di un disamore tenace per la poesia.

 E dunque, niente paura se una poesia – di Hölderlin, mettiamo – risulta incomprensibile, non è il caso di ricavarne frustrazione né di accanirsi: “O capisci o non capisci. Puoi innamorarti anche del solo senso letterale e fermarti a quello”… Così come può accadere di restare disorientati, o scettici, di fronte a versi che non rispettano le regole della metrica né la musicalità della rima. E allora è bene dotarsi di strumenti culturali che, appunto, la scuola raramente fornisce e sapere, per esempio, che “il verso libero della tradizione novecentesca si bassa tutto sull’idea che il ritmo, non il metro, sia la sostanza della poesia”, e dunque è la presenza essenziale del ritmo a impedire che la poesia si traduca in prosa. Informazione, questa e numerose altre, che riusciamo ad apprezzare perché l’autore ci spiega, con dovizia di esempi – il libro si può infatti leggere anche come un’antologia personale”, ci si avverte – che rendono piacevole la lettura, non disdegnando di rispondere a domande ingenue del tipo: quand’è che un verso finisce? Basta conoscere la differenza fra il metro e il ritmo per trovare la risposta: il primo non è altro che un determinato numero di sillabe che compone il verso, ma è il secondo – nella poesia che ha abbandonato le regole della metrica – a stabilire quando un verso finisce, e a indurre quindi il poeta ad andare a capo. Il che non avviene quando si scrive in prosa, neanche quando questa propone, di fatto, quelli che potrebbero essere letti come versi. Un esempio sorprendente dai Promessi sposi (le barre sono ovviamente aggiunte): “in poggi e in valloncelli, / in erte e inispianate, / secondo l’ossatura de’ due monti”. Poesia o prosa? Prosa, senza dubbio, perché un verso, per essere tale, deve essere stato scritto con l’“intenzione” che lo fosse.
E la rima, “l’emblema stesso della Poesia”, che “congiunge distanze, (…) avvicina solitudini” non è che “una figura del ritmo” (non a caso il termine deriva appunto dal latino rhytmus”, anche se “arrivato all’italiano dall’antico francese rime”).

Fare o non fare rime, dividere i versi andando a capo, dividere il componimento lasciando spazi bianchi fra le strofe: “La soggettività dei procedimenti compositivi non significa affatto capriccio o arbitrarietà. Dividere qui e non lì, o non dividere affatto, è determinato da necessità”. Ma a cosa servono infine tutti questi accorgimenti, che come si è detto sono condizione necessaria ma non certo sufficiente per scrivere buone poesie? È la domanda inevitabile che l’autore stesso alla fine ritiene lecito porsi. La riposta ci riporta alle illuminanti definizioni di che cos’è la poesia che si sono lette nelle prime pagine del libro: “A che cosa serve tutto questo? Serve a portare l’invisibile nello spazio del dicibile: a presentificare la cosa”, il mistero intuito, e a dargli “l’occasione di lasciarsi intravedere”. Ma attenzione, giovane poeta: “Ha ragione Rilke: nessuno ti può consigliare. Qui non ti ho detto che cosa fare. (…) Ti ho mostrato niente più che un campionario di possibilità o meglio di scelte già compiute”. Senonché, “si impara da soli. Da soli si impara a essere spontanei, semplici, veri. La spontaneità, la semplicità, la verità (…) risultano da un’ascesi; da un’auscultazione continua di sé”. Che è poi quello che, negli esergo scelti dall’autore, dicevano Virginia Woolf (“la cattiva poesia è molto spesso effetto dell’essersi dimenticati di sé stessi”) e, andando ancor più al fondo della questione, Goethe: “Prima di cantare, prima di fare silenzio, il poeta deve vivere”. Meglio se a lungo, dal momento che – si legge nelle Lettere di Rilke – “con i versi si fa ben poco, quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe poi a scrivere dieci righe che fossero buone”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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