Perché le piante

Antonio Pascale, La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini, Einaudi 2022 (pp. 292, euro 20)

Vivere è sempre imparare a vivere. Se l’hai capito – senza metterti a fingere di saper vivere né, come capita a molti, passata la cinquantina, convincerti di averlo imparato – puoi scrivere della vita, la tua innanzitutto, e quella degli altri, con leggerezza divertita, ironia bonaria, malinconia affettuosa, e lo farai senza stabilire gerarchie fra le diverse età che hai attraversato e dunque in un andirivieni continuo tra l’infanzia e l’età che hai al momento in cui scrivi. Anche se – come l’autore – hai “sempre avuto la memoria bacata” e sei “un narratore inaffidabile” e dunque non ti resta che “(fare) autofiction polifonica, cioè (assorbire) umori e sensazioni dall’ambiente cercando di restituirli”.

Ma occorre anche un catalizzatore dei ricordi personali, familiari, collettivi, ed è un albero, diverso da una storia all’altra, a svolgere questa funzione. Ma non solo. Sono gli alberi a ispirare, con il loro modo di stare al mondo, considerazioni utili per la vita che intessono la narrazione dandole sostanza e fornendo al lettore occasione di riflettere: “Stai sempre a rigirartela la rabbia, la passi da una mano all’altra. Ma la rabbia è come il carbone, se ce l’hai sempre in mano ti sporchi e sono le tue mani a restare nere: ti devi distaccare, a un certo punto ti devi proprio distaccare, buttare il carbone, solo così finisce la tua pena: la mia rabbia l’ho data ai faggi, me ne sono liberato e mo eccola là, la vedi? È nebbia [la nuvoletta di umidità che si leva dalla chiama dei faggi], si dissolve, come la pena”. Perché questo è il fatto: “Siamo fortemente, biologicamente, legati alle piante, ma pur parcheggiando le nostre macchine sotto le loro chiome, bruciandone il legno, mangiandone i frutti, pur facendo questo e altro, non le conosciamo: peccato, nelle loro radici c’è la nostra eredità, nei tronchi una nota del tempo, atmosferico e cosmico, che dovremmo ascoltare”. E di piante se ne intende, il protagonista, che dopo studi di botanica – da cui digressioni scientifiche che forse in qualche caso gli prendono un po’ la mano ma in generale hanno la leggerezza dei temi che si scrivevano da bambini sull’utilità di questo o quell’albero –, è divenuto prima gestore di aziende agrarie e poi funzionario del Mipaaf (il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali) senza tuttavia rinunciare alla letteratura, destreggiandosi perciò fra convegni agricoli e letterari, cui viene invitato “in veste di scrittore fissato con le piante”.

Scrittore che tramite quelle si occupa anche di sé stesso, però, e dei suoi simili, come appunto accade in questo romanzo: “Lo scrittore ritratto nel libro – si legge nella nota finale –, il modo in cui si sente, vive e immagina, sono io, senza dubbio: nella parola composta auto-fiction io sono l’auto. Tuttavia (…) ho inventato dei personaggi, ho fatto fiction”: con il proposito di dire della “natura umana così ambigua (…), di certo ambivalente perché ora sfruttiamo i benefici della modernità ora li detestiamo e desideriamo vivere nei boschi, ma solo noi, perché se già ci viene il nostro vicino di casa si crea intasamento”; riferire di “certe dinamiche relazionali così disordinate che non potranno mai ordinarsi o altre sì ordinate ma senza slanci”; “raccontare alcune piante perché in esse sono racchiusi dei simboli universali, utili a raccontare come siamo fatti” e a raccontare anche “quali sono le ragioni che rendono degna la vita di essere vissuta e l’importanza di fare una buona morte per chiudere i conti con la vita”, dicendo “no alle solite storie e sì alla rapsodia e alla sperimentazione, no alle ordinate saghe familiari e sì alla frammentazione disordinata che tra l’altro descrive meglio la nostra attuale condizione”. Facendo insomma una “scelta di campo: “Viaggiare nell’infanzia, nel tempo, con le donne, cavalcare nella nostra storia alla ricerca delle anime in pena, che poi sono le nostre. Le piante cos’altro sono, in fondo, se non la guida perfetta per un viaggio così?”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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