Fra estraneità e supponenza

Giorgio Caravale, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza 2023 (pp. 159, euro 18)

E tutti i libri che si vedono sui banchi delle librerie? libri densi di pensiero critico sulla politica e l’economia, i costumi e le mentalità, le disuguaglianze e l’ambiente? Che chi ha poteri per decidere non ne tenga conto è un fatto; un altro è che comunque non manchino intellettuali colti e impegnati. È questa la reazione, legittima, che possono a volte suscitare le denunce o le lamentazioni sulla scomparsa, o peggio: il silenzio, degli intellettuali. Una reazione che non ha però motivo di prodursi leggendo questo libro. Perché non sono tanto le manchevolezze o l’ignavia degli intellettuali l’oggetto del discorso (anche se ce n’è anche per loro), quanto il loro discredito presso politici che hanno ben poco accreditamento di cui potersi vantare. Risultato: il ritiro, da parte degli uomini di cultura, da ogni forma di politica attiva o quantomeno la rinuncia a cercare comunque un’interlocuzione fra gli amministratori della cosa pubblica.

È uno storico della cultura in età moderna, l’autore, e forse la distanza dall’oggi che i suoi studi gli hanno permesso è la distanza giusta per vedere quel che è accaduto dagli anni Novanta a quelli nei quali viviamo, testimoni forzati dell’”atteggiamento distaccato e sprezzante” che la politica ha preso nei confronti di coloro per i quali la cultura è professione. Senonché – ci avverte Caravale sin dalle prime pagine – dai tempi in cui Togliatti o Craxi si scontravano con personaggi come Vittorini o Bobbio, sia la cultura che la politica sono ormai “qualcosa di molto diverso” e se un tratto ancora accomuna politici e intellettuali è ormai il fatto di “ritenere di poter fare a meno gli uni degli altri”. Un’involuzione di cui l’autore ricostruisce gli “snodi essenziali”, in attesa che – fatto salvo il riconoscimento della reciproca autonomia – la politica ritrovi la capacità di selezionare e formare una “classe dirigente in grado di restituire competenza e autorevolezza” e la cultura sia alimentata da intellettuali “meno vanesi”, più credibili.

La fine del modello gramsciano e dei suoi intellettuali organici e la connessa nascita di un “partito della cultura” in gran parte gravitante attorno alla “Repubblica”, un giornale capace di stabilire l’agenda del mondo progressista, è il primo snodo decisivo, di cui furono espressione anche il Nanni Moretti di piazza Navona (“Con questi dirigenti non vinceremo mai”), il movimento girotondino, riviste come “MicroMega”. Mentre il Psi di Craxi manifestava una concezione degli intellettuali come “cortigiani” e non diversamente Berlusconi si sarebbe circondato, quali consiglieri del principe, di alcuni professori universitari, quello che si produsse fu un vero e proprio “divorzio” tra intellettuali di sinistra e Pds. Non attenuato né da fondazioni culturali di partito né da think tank voluti da leader di vario orientamento politico ma in grado di non raggruppare altro che “intellettuali ad personam” (figura il cui profilo non si può dire sia stato per altro estraneo a singoli intellettuali come Recalcati, Baricco e Gotor). Ma anche queste forme di relazione tra politica e cultura non erano destinate a durare, surclassate ben presto dall’“antintelletualismo populista” di Salvini da un lato e di Grillo dall’altro: il dileggio dei “professoroni” da parte del primo trovò riscontro nella retorica del secondo, per il quale “l’incompetenza e l’inesperienza” assumevano il valore di “prova regina di integrità morale”. Un atteggiamento, questo, messo a fuoco dal “teatrale smascheramento” operato da Giacomo Papi (Il censimento dei radical chic, in queste note nel marzo del 2019) [x Fr: 17.3.19], ma destinato a riprodursi in un’altra retorica, quella renziana della “rottamazione”. Per altro aliena dal disprezzo per la cultura, venerata tuttavia dall’ex sindaco di Firenze in una chiave prevalentemente sentimentale ed estetica e alla fin fine strumentale, in vista di un ampio consenso politico da conseguire attraverso i media – vedi le otto puntate di Firenze secondo me, condotte dallo stesso Renzi – e kermesse come la Leopolda.

Altro capitolo di questa cronaca – capace di sottrarsi all’episodicità e di fissare, al di là di accentuazioni interpretative che qua e là si avvertono, alcuni punti irrinunciabili per una futura ricognizione storica della recente storia culturale italiana – è il rapporto fra politici e storici, che, in estrema sintesi, nell’ultimo trentennio “hanno scavato tra loro un solco apparentemente incolmabile”, dopo che per decenni la ricerca storica, la contemporaneistica in primo luogo, era stata soggetta a un uso pubblico attento a rispecchiare gli interessi dei partiti maggiori concretizzandosi, in ambito accademico, in logiche lottizzatrici. Passaggio decisivo del rapporto fra la sinistra (ex)comunista e la storia furono poi i conti, imposti dal tracollo del socialismo reale, con il proprio percorso – conti non fatti o rimasti in sospeso: il tema non ha ancora finito di esser discusso. Conti del resto ineludibili anche per il Msi di Fini, la cui voce si sarebbe tra l’altro unita di lì a poco con quelle di Violante e poi di Ciampi, e in seguito di Napolitano, nell’auspicare il formarsi di una “memoria condivisa” della vicenda nazionale, di “uno spazio pubblico di ‘riconciliazione senza amnesie’”, risoltosi di fatto in un autoassolutorio “‘paradiga vittimario’ basato sul lutto e sul dolore (per le vittime della Shoa, delle foibe, del terrorismo, della mafia)”.

E intanto, “anche in politica arrivò la stagione del cosiddetto presentismo”, traducendosi nell’“inconfessabile desiderio dei partiti politici – dal M5s alla Lega di Salvini e a Renzi – di liberarsi del peso del passato” limitandosi “a svolgere, nel migliore dei casi, un ruolo di ordinaria amministrazione del presente” entro la cornice della “volatilità di un’azione politica sempre più schiava di sondaggi e annunci”. “Sempre più colonizzata – inoltre – dai tempi e dalle sfide di carattere economico”, come prova la presenza preponderante di economisti in parlamento e al governo, a quanto pare “sempre più attraenti agli occhi di politici a caccia di consenso” ma, anche, molto spesso, tendenti a prevaricare scelte e funzioni dei politici stessi e da questi non raramente scaricati con disinvoltura (vedi i casi di Tito Boeri o di Carlo Cottarelli). Quanto agli umanisti (storici, filosofi, letterati), una politica presentista e liquida è sembrata ovviamente poterne fare a meno e questi intellettuali, dal canto loro, negli ultimi decenni si sono in gran parte concentrati – tra mediatizzazione della loro figura e ripiegamento accademico – “sulla costruzione della propria personale carriera (…) prescindendo da qualsiasi appartenenza”. Ma non certo perché votati a quella non appartenenza che comporta la “solitudine di chi dice la verità”, come ha sostenuto nel suo Cassandra è ancora muta (in queste note a inizio dicembre lo scorso anno) Tomaso Montanari, da Caravale citato purtroppo solo per alcuni dei momenti, non i più rappresentativi, in cui si è espresso a livello politico il suo impegno.
Poco più che un auspicio doveroso sembra risuonare nelle parole conclusive: “occorre che la politica dismetta quella pregiudiziale antintellettuale che ha troppo spesso fatto propria (…). E che il mondo universitario ritrovi le condizioni per liberarsi dalla soffocante logica corporativa accademica”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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