La donna che scriveva racconti

Il libro è finito, l’ho letto proprio tutto, fino all’ultima parola dell’ultima riga. Resto in silenzio, con la pagina ancora aperta, perché comincino a depositarsi le parole, per lasciarle scendere, come per una forma di rispetto o di nostalgia che già me ne fa sentire la mancanza. Poi mi alzo e gli cerco un posto, uno scaffale ideale, magari in seconda o terza fila, non importa. Ciò che conta è vicino a quali altri libri trovargli casa. Con chi è imparentata questa scrittrice? In questo caso non ho dubbi: dormirà vicina a Alice Munro e a Joyce Carol Oates.

Ma non è finita qui. Sento di voler scrivere di questo libro. Poche parole, qualche osservazione, magari scimmiottando il tono della Berlin di una che non c’entra con ciò che racconta, come se quel libro non la riguardasse affatto e dunque non riguardasse neppure me che ne sono stata ammaliata al punto da copiare una sua frase paro paro per inserirla in un mio racconto. Perché era perfetta, per onorarla forse.

Ma di lei, su secondorizzonte, ha già detto Simoni perché il libro non è nuovissimo, è uscito nel 2016. Dunque perché richiamare l’attenzione ancora su Lucia Berlin?

Credo, in tutta onestà, che la motivazione peschi una sorta di gratitudine-ammirazione-invidia per una scrittrice che ha saputo mettere in parole una donna dalla vita tempestosa, una sé non dichiarata.

Quando l’ho comprato, di questo libro m’aveva attirato il titolo: La donna che scriveva racconti, perché dell’autrice, Lucia Berlin, non sapevo nulla. Addirittura dal nome m’ero convinta fosse italiana. Invece è nata in Alaska nel 1936 e morta in California nel 2004.

“Una vita fatta di molte vite”, la sua, come dichiarò in un’intervista del 2003: figlia di un ingegnere minerario che si sposta di continuo per lavoro, trascinandosi appresso moglie e figlie. Idaho, Kentucky, Montana, Cile, Messico. Lucia abiterà in ben trenta tre case.

È in una di queste, una capanna di legno dove abita con il padre e con un suo vecchio amico, che fa il suo primo esperimento di scrittura: strappa i fogli di vecchie riviste letterarie e le incolla alle pareti e al pavimento, di modo che il vecchio Johnson possa leggere le pagine spaiate nelle lunghe sere d’inverno e inventare delle storie.

Quello della Berlin è, come ha scritto Carlo Simoni: Un mondo in cui occupano un posto significativo le case in cui la protagonista si trova a fare uno dei molti lavori che, per forza di cose, sperimenta: “Amo le case, le cose che mi raccontano, e questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace fare la donna delle pulizie. È proprio come leggere un libro”.

Una bambina con il corpo stretto in un busto per la scoliosi, una donna che deve nascondere la propria istruzione per essere assunta come domestica, una madre che porta i panni sporchi in lavanderia e fa amicizia con un vecchio indiano alcolizzato, un’ex moglie che si intrattiene con un’altra ex moglie dello stesso marito, musicista eroinomane, per sparlare di lui, una giovane ragazza che fugge da una clinica per aborti e decide di tenersi il bambino, una madre alcolista che ruba i soldi al figlio. Queste le donne, le tante lei che abitano la raccolta.

Si sposa a diciassette anni con uno scultore che l’abbandona alla seconda gravidanza. Da lì altri tre matrimoni, altrettanti divorzi, quattro figli. Tanti lavori, la schiavitù della bottiglia di bourbon, i soldi che mancano. Da questa vita complicata attinge le parole per racconti tragicomici, mai tristi, scritti con una lingua secca, essenziale, semplice, con uno stile preciso e tagliente mai incline al sentimentalismo.

“Ho esagerato, ho mescolato realtà e finzione, ma non ho mai mentito”, affermerà con una sorta di spavalderia, commentando la sua scrittura jazzistica, multifocale.

Simoni, nella sua precedente recensione, aveva colto proprio questa cifra speciale di Lucia Berlin, questa sua empatia sorvegliata, sempre e mai tale da incrinare la distanza con cui racconta delle donne incontrate. Anche quando parla di sé, delle proprie vicende, dei propri fallimenti, lo fa come se parlasse di un’altra, di una delle tante con cui ha avuto a che fare. Il che può sorprendere in un libro sostanzialmente autobiografico.

In una delle ultime storie della raccolta, intitolato Mamma, è al capezzale della sorella malata di cancro a rievocare la “madre orribile” che “odiava la parola ‘amore’, la pronunciava come di solito si dice troia (…) e odiava i bambini”. Poi di colpo tutto cambia, la stessa madre è una donna sola, spesso ubriaca, cui il marito sottrae le figlie.

È a quel capezzale, che Lucia cerca di convincere la sorella che la madre aveva paura di loro, del giudizio delle figlie, che le feriva perché loro non potessero ferirla per prime. Ma, consolata la sorella, guarda in faccia tutti noi ed esclama: “Quanto a me… io non ho pietà”.

Nelle ultime pagine cede al desiderio di rivedere la sua vita, di chiedersi “cosa sarebbe successo se”: “cosa sarebbe successo se avessi parlato con Paul prima che se ne andasse? Cosa sarebbe successo se avessi chiesto aiuto? (…) tutti se che mi appaiono stranamente rassicuranti.

Questo è il problema dei vari Cosa sarebbe successo se: “Prima o poi inciampi in un intoppo (…) e alla fine mi sarei ritrovata dove sono adesso, sotto le rocce calcaree di Dakota Ridge, con le cornacchie”.

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