Storie taciute, storie raccontate

Ombre. Racconti ispirati ai dipinti di Edward Hopper, Einaudi 2017 (pp. 300, euro 18,50)

A volte, quando si scorrono i programmi della tv o si erra da un canale all’altro cercando qualcosa di vedibile, vien da chiedersi se le uniche storie da mettere in (tele)film siano quelle di assassini e maniaci.

Sembra che alla gente “normale” non capiti niente di interessante, che i giorni che ordinariamente si vive non portino niente che valga la pena di raccontare.
E la cosiddetta “vita quotidiana”? con le sue abitudini, la sua noia, le sue solitudini, i suoi momenti sospesi, fra il dominio del pubblico e i recessi del privato, in cui senza esserne davvero  consapevoli si fan bilanci della propria esistenza, senza trarne conclusioni ultimative o giudizi definitivi, mai, ma tornando a misurarne la qualità. O il senso, addirittura.
Sono questi momenti che troviamo nei quadri di Hopper, che proprio per questo ci piacciono, e piacciono a un numero di persone che va molto oltre la cerchia dei colti in fatto di pittura. Non succede niente in quelle scene. Eppure sta succedendo tutto. In quell’esatto momento, crinale che una storia ha raggiunto e sta per valicare, riprendendo a rotolare in quella corsa inarrestabile che abitualmente, un po’ distrattamente, si è soliti definire vita.
Hemingway diceva che un racconto è come la punta di un iceberg: è il decimo di una storia che riusciamo a sapere, mentre tutto il resto no. Resta sotto. Lo scrittore vero non ce ne parla, e lì sta il segreto della sua arte, e del nostro piacere di lettori.
E dunque bella idea quella di chiedere a scrittori di professione di inventare storie a partire dalle scene, dagli ambienti, dai personaggi che Hopper ha racchiuso nei suoi quadri. La scelta agli autori, sia del quadro che del modo di imbastire la narrazione: prendendo lo spunto da quel che si vede per esempio.
Dalla donna nuda che si esibisce in uno spogliarello.

O dalla ragazza in abiti succinti che si intravede dalle finestre illuminate del suo appartamento.

O, ancora, dall’uomo che legge il giornale mentre la donna accarezza un tasto del pianoforte.

(Anche questi visti dalla finestra della loro casa. Non è casuale: Paolo Cognetti dice che, se un romanzo è la casa, un racconto è quel che vedi da una delle sue finestre).

Oppure, il racconto può essere già avviato quando si arriva alla situazione che il quadro rappresenta: ai tre personaggi che non si sa che cosa tenga in attesa nella hall di un albergo, per esempio. 

O ai silenziosi personaggi che sembrano non sapersi risolvere a lasciare il caffè ancora aperto anche se è tardi, nel quadro forse più famoso di Hopper, Nighthawks, Falchi della notte

O alla donna che legge un libro in poltrona mentre l’uomo fuma una sigaretta davanti alla finestra (da questa parte della finestra, stavolta, ma in ogni caso lì, sul confine fra spazio pubblico e spazio privato, appunto, dove pare scocchi il più delle volte la scintilla di cui la storia ha bisogno per divampare).

E sì che Edward Hopper non era un narratore, ci si ricorda opportunamente nella prefazione: “s’interessava soprattutto alle forme, al colore e alla luce, non al significato o al valore narrativo di un immagine”, per cui “i suoi quadri non raccontano storie”. Già: a meno che le storie siano proprio quelle lì che vediamo, e non ci sia molto di più da raccontare, come se oltre a forme colore e luce non ci fosse poi granché da stanare, e la verità più essenziale delle donne e degli uomini, così come dei luoghi a volte disabitati che Hopper ci propone, stia esattamente in quel loro esserci, lì, in quel momento, e sia tanto profonda ed essenziale, appunto, da brillare d’un’autenticità priva di suoni e parole, che la intaccherebbero, la sporcherebbero. (Non sarà un caso se nella mostra di tre anni fa, a Bologna, alle opere del pittore americano era  venuta l’idea di accostarne alcune di Giorgio Morandi).
E dunque? Partire da un quadro di Hopper per immaginare quel che veniva prima ed è venuto dopo, una storia insomma, non sarebbe poi la bella idea che ci era sembrata nel prendere in mano questo libro?
Forse no, l’idea è originale, e difatti li si legge d’un fiato questi racconti (soprattutto quando la mano è quella di Joyce Carol Oats o di Stephen King). Senonché si tratta di spy story, di noir, di piccoli saggi di ordinaria cattiveria. E allora il dubbio resta: e se fossero state storie d’ogni giorno, storie che potrebbero capitare – o sono capitate, magari – a ciascuno di noi,  storie senza violenze ossessioni intrighi e sangue? Se fossero stati, a comporre questo libro, racconti di quei giorni in cui si direbbe che non è successo niente, i giorni che quasi sicuramente si dimenticheranno, anche se sono i più e fanno la vita?  Non sarebbero state storie più aderenti, più fedeli al genio pacato e inquieto di Hopper?

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