Felicità senza desideri

Elena Varvello, La vita felice, Einaudi 2016, pp. 200, euro 18,50

Chiusa la fabbrica. Tutti a casa, senza lavoro. Ma per qualcuno non è solo la disoccupazione: è la vita che si disfa, fantasmi che sembravano sepolti e invece tornano a confondere la mente, a far immaginare la malignità del complotto dove c’è solo la crudeltà dell’economia.

Lui, un manutentore, non sa riannodare i fili di una quotidianità che moglie e figlio gli offrono, lei recitando il copione di una normalità ormai perduta negli incubi del marito, il ragazzo scontrandosi con l’indecifrabilità delle parole e dei comportamenti di un padre di cui sente il bisogno. Non diversamente dall’unico amico che ha trovato. È anche un romanzo di padri assenti, questo, e di madri che suppliscono con un amore totale, che resiste a smentite e delusioni: “non ne sapevo niente, allora, dei modi in cui l’amore può manifestarsi”, ricorda il sedicenne protagonista trent’anni dopo, quando ricostruisce quell’estate che ha cambiato la sua vita. L’estate nella quale la confusione paranoica del padre è precipitata nel rapimento di una ragazza, atto conclusivo di un progressivo deragliamento che in casa si è finto di non vedere, o meglio: ci si è sforzati di comprendere: “devi cercare di capirlo, – dice la madre al figlio. – Devi sforzarti. Ci sono persone che sentono le cose in modo diverso dagli altri. Tuo padre è uno di quelli.”
Quando ne leggiamo sui giornali, di fatti simili, è solo dell’epilogo che veniamo informati, della tragica conclusione di un percorso riassunto in uno scarno cenno alla salute mentale del soggetto in questione. Qui no, è il percorso che conta, e si fa seguire, una pagina dopo l’altra, sul filo del racconto del figlio e, contemporaneamente, nella cronaca in diretta del rapimento. Fino a che il cerchio si chiude: ciò che sapevamo fin dall’inizio è accaduto. Quel che resta è “il bene che, nonostante tutto, diamo e riceviamo”: non c’è altro. Non c’è altra felicità nella vita.

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