Tempo dell’Appennino

Maria Rosaria Valentini, Magnifica, Sellerio 2016, pp. 274, euro 16

Una penna d’oro indispensabile per scrivere storie lasciata in dono da un figlio che se n’è andato, personaggi (femminili, quelli protagonisti) che sembrano sfumare l’uno nell’altro più che distinguersi in una sequenza. Ma non è questo che disorienta alle prime pagine: sono i luoghi.

La storia prende il passo che ti aspetti, ma ti fa entrare poco alla volta. I luoghi sembra non ti accolgano, all’inizio, e la lingua – con tutte quelle immagini, e metafore che più che ardite suonano a volte stralunate – sembra imporsi, occupare troppo lo spazio della narrazione. Poi, però, capisci che non bisogna dar troppo peso a questi svoli di parole, come agli abbellimenti in certa musica barocca, e allora il filo del racconto emerge, discretamente si fa seguire, e cominci a vederli, i luoghi. Ci entri poco alla volta: come accade quando ti addentri nell’Appennino. Non quando lo attraversi per andare altrove, correndo sull’autostrada, e lo puoi immaginare uguale alla montagna che conosci, all’Alpe. Quello che si fa avanti, se non vai via, se rallenti e percorri le sue strade, se ti fermi in qualcuno dei suoi paesi, è altro: è l’Appennino “appartato, remoto”, “distante da qualsiasi altra parte del mondo”, dove può capitare di trovarsi “a mezza montagna, in un orizzonte chiuso, circondati da cime più alte” dalle quali tuttavia si può “avvistare il mare, nei giorni più limpidi e fortunati”.
I luoghi sembrano prevalere, in questo romanzo, sulle persone che vi si muovono, e le stagioni sulle vicende. Il Tempo sembra essersi ritirato, come il prato davanti al bosco che riprende spazio. La Storia aver ceduto al mito, e alle sue cadenze di nascite e morti, amori e partenze.

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