La sfida dei diritti

Mai forse si è parlato tanto di diritti… ma di quali diritti si tratta?

È necessario fare chiarezza, porre fine alla retorica e alla banalizzazione che finisce per significare qualsiasi cosa e il suo contrario, ogni valore, di conseguenza, perde consistenza perché «quando un concetto significa tutto, non significa più niente. La perdita di qualsiasi ancoraggio semantico significa la morte di un concetto» (Vladimiro Giacché).

Basta aprire un giornale, connettersi a un social, accendere radio o TV… è “diritto” tutto e il contrario di tutto… si deve intervenire, quasi sempre “contro”, spesso con toni offensivi e violenti… l’opposto di diritto nel suo reale significato.

Ci si appella alla giustizia, alla libertà, all’autonomia, all’uguaglianza… parole grosse, importanti, ma rischiano di rimanere astratte: ciò che vale è la loro applicazione, i termini, le modalità, le leggi per realizzarle nei diversi contesti.

I problemi nascono quando dalle dichiarazioni si passa alle norme per concretizzarle, per uscire dalla “carta” e farsi storia reale; questi valori devono essere incarnati altrimenti rimangono un principio più di discussione filosofica (nulla di male, anzi spesso interessante e stimolante) che di realtà quotidiana.

Diritti, giustizia, libertà, autonomia, uguaglianza possono essere considerati valori assoluti, ma non potranno mai avere un contenuto assoluto per ogni tempo e luogo, nella loro attuazione hanno significati differenti in storie e geografie diverse.

Diritti, libertà, giustizia non sono concetti ideali, principi inalienabili, si raggiungono in un complesso percorso storico, sociale, culturale, etico. Libertà, giustizia, autonomia, uguaglianza… per principio sono valori condivisi… ma, cosa significa essere liberi, giusti, autonomi, uguali? come assicurare nel proprio tempo, personale e comune, nella “terra” che calpestiamo, il diritto alla libertà, alla giustizia, all’autonomia, all’uguaglianza?

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Nessun uomo è un’isola

«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto.
Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare,
l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse
un promontorio, come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa.
La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché
io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana: suona per te». John Donne

L’isola come paradiso perduto da ritrovare o utopia da costruire è presente a lungo nella storia del pensiero, oggi si parla di isole galleggianti (anche “fai da te”) come una specie di “covo della libertà”[1].

Un’ipotetica libertà totale, l’assenza pressoché assoluta di limiti portano ad un individualismo senza confini e fanno cadere le coordinate per un percorso comune di tutta la collettività.

Non dimentichiamo che tante isole furono scelte per costruirvi carceri, per impedire fughe e contatti, e proprio questo è ciò che succede a chi se ne costruisce una per proteggersi: la reclusione.

Il progetto neoliberista, la globalizzazione in veste economica diffondono un senso di insicurezza e precarietà in ogni ambito esistenziale, la soluzione offerta è la chiusura nel privato creando così ostacoli alla ricerca di uscite collettive.

Propaganda, strumentalizzazione, disinformazione spingono a temere il presente e, soprattutto, impediscono di immaginare un “mondo diverso” per il futuro.

Si rifiuta ogni confronto, ci si isola sempre più, ci si lamenta sempre più, ma non è mettendo insieme indifferenza, risentimento, rabbia che si crea un gruppo in grado di porsi come forza politica per affrontare le varie problematiche!

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[1] Alla fine degli anni ‘60 se ne era costruita una nel Mar Adriatico, poi fatta demolire, l’Isola delle Rose, autoproclamatasi stato indipendente, con un proprio governo, lingua, moneta. Tra tanti esempi attuali, l’isola Blue Estate che sarà realizzata nel Mar dei Caraibi, poco lontano da Miami, progettata per regalare una tranquillità assoluta e livelli di privacy, oltre che di lusso, senza precedenti, senza criminalità, con burocrazia ridotta al minimo, senza tasse.

Le frontiere del caos

«Il mondo è grande e terribile e complicato» scriveva Gramsci nel 1917 su L’Avanti… e più tardi: «il vecchio mondo sta morendo e il nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri».

È difficile descrivere con maggior incisività e chiarezza questo nostro tempo… si minimizza la forza del “vecchio”… si ignora la forza del “nuovo”… se non si riuscirà a dargli spazio al più presto, il mondo che faremo sarà troppo simile al vecchio, bloccato in un chiaroscuro che confonde e disorienta, dove agiscono le forze scatenate dal “sonno della ragione”.

Oggi il “chiaroscuro” prende spesso il nome di caos, emerso come per caso in un momento storico segnato da confusione e sbandamento: nulla, invece, è più voluto studiato programmato.

Nell’attesa che si prolunga, i “mostri” temuti da Gramsci sembrano espandersi; sempre al di sopra della legge, per nascondere la loro natura creano disordine e confusione da cui sembra impossibile sfuggire… mostri vecchi e nuovi che intrecciano i loro tentacoli nel presente.

Il problema più grave non è tanto indicare ì mostri che è facile individuare, ma smascherare la pericolosa “banalità del male” denunciata da Hannah Arendt, che, in vesti e funzioni diverse, si nasconde dietro la normalità, con le ombre racchiuse nelle pieghe della quotidianità… quei mostri con un’apparenza inoffensiva finché non gettano la maschera e si scatenano contro ogni parvenza di convivenza civile, cultura, rispetto e spalancano le porte a violenza, odio, calunnie, vendetta, falsità; inondano le reti sociali, s’infiltrano in piazze e rivendicazioni stravolgendone significati e obiettivi… “l’inevitabile” repressione viene presentata e percepita come necessaria, si accettano così decreti e regole che in tempi di “ordine” sarebbe impossibile imporre.

Questa situazione di decadenza, di degrado sociale, politico, culturale, etico appare “normale” per una parte dell’opinione pubblica.

Profitto – produttività – efficienza… gli dei (o i demoni) di oggi portati avanti da una (pretesa) ordinata logica mezzi–fini negano ogni traccia di razionalità in tutto ciò che fa sì che un uomo sia uomo nel significato più profondo: libertà bellezza amore paura speranza sogno fatica immaginazione dubbio sofferenza pensiero… per impedire ogni “disturbo” al cosiddetto progresso che si costruisce alle spalle – o contro – la maggior parte dell’umanità, destinata a divenire semplice pedina nel gioco del mercato e della tecnologia, sconvolgendo coordinate storiche e geografiche.

È l’ordine che serve ad appiattire, a togliere punti di riferimento, a creare il silenzio di idee, desideri, dubbi, a chiudere nell’oscurità della paura, in un assedio alla verità, alla giustizia, alla vita sino a capitolare in una disastrosa resa e chiudersi nel proprio mondo individuale.

Dal caos, si dice, nascono crisi a catena, così situazioni ignorate da sempre sembrano esplodere improvvisamente, con grande violenza e disordine.

Non è il caos a creare la crisi, sono le molteplici crisi – climatica, sanitaria, politica, sociale, economica, etica… – a provocare il caos che incontriamo ovunque.

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Il tempo della pazienza

Mi è sempre più chiaro che il tempo che stiamo attraversando chiede di essere chiamato tempo della pazienza.

La pazienza non è inerte sopportazione; è un’energia che agisce con forza: generativa, creativa, illuminante. È all’opera in tutti i momenti della vita, ma ci sono situazioni nelle quali la sua azione si mostra più chiaramente dandoci la possibilità di osservarla e di riconoscerla.

La sofferenza è uno di questi momenti e lì la vediamo all’opera con le tensioni, i conflitti che è costretta ad agire, perché la pazienza non è data. È il frutto di un esercizio difficile nel quale impariamo a conoscerci, riconoscendo le energie originarie della nostra natura: la mitezza, l’aggressività, l’ira… perché è con queste che ciascuno/a di noi affronta le tensioni da cui può scaturire la pazienza. Mi sembra di poter riconoscere tre generi di pazienza: la pazienza dell’attesa; la pazienza creativa; la pazienza filosofica.

Il tempo che stiamo vivendo le mette all’opera tutte e tre.

La pazienza dell’attesa, energia generativa, quella della madre che accoglie nel suo corpo la gestazione. Esperienza che si trova faccia a faccia con il mistero, in tensione con il senso di impotenza , in conflitto con la volontà di tutto controllare, con l’illusione di poter dominare il corso del processo… Facciamo fatica a percepire la maternità in questi termini perché la medicina ci dà l’illusione di tener sotto controllo la gravidanza, ma se ci pensiamo bene, non può interferire con il divenire dell’embrione, una volta avviato il processo, se non interrompendolo o disponendo qualche misura di protezione. Come fa un bravo giardiniere che ha messo a dimora un seme.

La pazienza creativa, propria dell’arte, della poesia, dell’invenzione letteraria. Questa pazienza matura in conflitto e in tensione con l’impazienza, la frettolosità, la volontà di raggiungere un risultato, l’incapacità di ascolto interiore… “Nel cuore è la sorgente della parola”, si legge nelle Upanishad. In questo tempo abbiamo bisogno di parole che scaturiscano da questa sorgente. La pazienza filosofica: la pazienza di pensare, di riflettere, di trovare parole precise. Perché maturi questa pazienza ci vuole coraggio, il coraggio di riguardare quello che è accaduto e sta accadendo nell’attesa che la verità si faccia sentire, che nella sofferenza si possa avvistare un significato aprendoci a letture impreviste del reale, aprendoci a una visione più ampia delle cose che accadono.


In conclusione, la segnalazione di una lettura utile e una riflessione di Romano Guardini:

*Gabriella Caramore, Pazienza, Il Mulino 2014

*“Per la pazienza ci vuole forza, molta forza. Solo l’uomo forte può esercitare una pazienza davvero viva: può riprendere su di sé sempre di nuovo ciò che è, e di continuo ricominciare. La pazienza senza forza è pura passività, supina subordinazione, abitudinarietà cosificata. E occorre amore, a una pazienza autentica, amore per la vita. Giacché le cose vive crescono lentamente, hanno la loro ora, fanno giri e rigiri numerosi. Esse hanno bisogno di fiducia. Chi non ama la vita non ha pazienza con essa. Allora arrivano le furie e i cortocircuiti. E ne nascono ferite e cocci.”

Il diritto alla bellezza

«Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore»[1].

La bellezza deve essere accessibile a tutti, deve essere considerata un diritto per tutta l’umanità perché è un mezzo indispensabile per la crescita spirituale dell’uomo, per la sua libertà di coscienza, per la sua presenza nella società e nella storia.

Friedrich Schiller – alla fine del ‘700 – si chiedeva: «Com’è possibile che in questi tempi moderni, con tutte le conoscenze e tutta la tecnologia, siamo ancora dei barbari? Vi deve essere qualcosa nella mente della gente, nel carattere degli esseri umani, che impedisce la ricezione diretta della verità. […] Ogni miglioramento nel dominio della politica può soltanto essere pensato attraverso la nobilitazione del carattere dell’individuo. […E ciò] Può accadere soltanto attraverso il bello artistico».

Egli è convinto che «il buon cittadino si forma nell’educazione alla bellezza e che quest’ultima si può fruire solo in un modo: nell’esercizio del gioco. Per Schiller si tratta di un riferimento metaforico, evidentemente, che allude alla fantasia e all’emozione. La bellezza è un meraviglioso gioco di crescita collettiva che non può essere negato a nessuno» (Irene Boldriga).

La storia ci offre numerosi esempi di come il ricorso alla “bellezza” sia stato chiesto e offerto in momenti oscuri.

Firenze, come tante altre contrade italiane, fu segnata da scontri di potere, lotte intestine, guerre tra fazioni opposte, calamità naturali che fecero numerose vittime… Nel 1373, in cerca di qualcosa che affrancasse, almeno per un po’, da tanta oscurità, un gruppo di cittadini invia ai Priori delle Belle Arti e al Gonfaloniere di Giustizia la richiesta della lettura pubblica della Divina Commedia:

«A favore dei cittadini della città di Firenze che desiderano essere istruiti nel libro di Dante, dal quale, tanto nella fuga dei vizi quanto nell’acquisizione delle virtù, quanto nella bella eloquenza possono anche i non grammatici essere educati […] chiediamo che abbiate la premura di ottenere e di approvare solennemente la scelta di un uomo capace e sapiente, ben istruito nella scienza di questo tipo di poesia, per il tempo che desiderate, ma non maggiore di un anno, perché legga il libro volgarmente chiamato El Dante nella città di Firenze a tutti coloro che vogliono ascoltare, tutti i giorni non festivi, in un ciclo di lezioni continue come di solito avviene in simili circostanze».

Il popolo cercava nella cultura, nel “bello” le risorse interiori per ritrovarsi e riprendersi, per trovare forza, speranza, coraggio del futuro con quella bellezza che riempie coscienza e intelligenza.

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Un’altra scuola è possibile?

Nulla, oggi, può apparire più scontato della scuola, dell’“andare a scuola”… un diritto conquistato a fatica contro ostacoli di ogni tipo, contro pregiudizi, alibi culturali, fattori politici, denunce del campo religioso… una volta dichiarata obbligatoria (e – sembrava – gratuita) si ritenne raggiunto l’obiettivo e l’attenzione si rivolse a problemi più “urgenti” lasciando questo settore strategico per l’intera società nelle mani di “addetti ai lavori”, che si sono rivelati spesso incompetenti e incapaci. Per Maria Montessori un paese che non ha a cuore l’istruzione dei bambini e dei giovani è un paese senza futuro.

Con il passar del tempo, come tanti altri diritti, anche quello di una scuola pubblica di qualità, aperta veramente a tutti, di un’educazione/istruzione nel più ampio significato è stato compromesso.

Sotto ogni bandiera politica i “tagli” alla scuola – soffocata in una selva di regole, decreti, decisioni lontane dalle sue finalità – sono stati devastanti ed hanno portato a situazioni insostenibili “corrette”, per continuare a rispondere il più possibile alla sua vera natura, dalla buona volontà e professionalità di persone presenti nelle istituzioni scolastiche. Ma questo non può essere sufficiente e ce ne rendiamo sempre più conto.

Anche la scuola è diventata una “merce”, un “prodotto di mercato” per cui deve rispondere alle sue esigenze preparando giovani capaci di servire “il” e “al” sistema economico e politico attuale?

Negli ultimi anni ai dirigenti scolastici è stato chiesto, in pratica, di divenire “imprenditori” e di gestire con logiche quasi economiciste un patrimonio comune che non ha nulla a che vedere con leggi e interessi finanziari.

La logica del mercato vuol trasformare il diritto universale all’educazione in un bene di consumo con l’obiettivo di creare persone “competenti” e “produttive”, “funzionali al sistema”. Chi non ha le stesse opportunità diviene manodopera a buon mercato, con sempre meno diritti, a rischio di esclusione, con un futuro incerto.

Quando alla scuola si chiede un qualche profitto, significa che non è più considerata uno degli strumenti principali per la democrazia, se ne perde totalmente il significato e la ragion d’essere.

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Il silenzio della verità

Per una “ecologia della parola”

Accanto all’ecologia dell’ambiente, ai pericoli che ne possono derivare per l’intera umanità se non si innescano costumi sostenibili e di rispetto dei suoi ritmi, c’è anche una “ecologia della parola” da rispettare e da usare in modo “sostenibile” perché ne dipende il senso stesso del vivere insieme, delle prospettive di futuro, dei valori che intessono l’espressione dell’esistenza come individui e come società.

«Le parole sono il bmeglio e il peggio che abbiamo… Per le meraviglieche si possono esprimerecon la parola, se usataconarmoniae profondità; possono però diventareviolenteseutilizzate male, se si cambiail loro significato» (José Saramago).

Alcune, nelle mani di persone abili a manipolare la comunicazione, vengono divulgate quasi come “parole d’ordine” alle quali tanti si sentono costretti ad ubbidire per non mettersi fuori dal contesto in cui vivono, perché così fanno tutti, senza preoccuparsi di capire il fine per cui vengono usate… parole che “fanno solo rumore” e non chiariscono concetti e fatti, non informano, non aiutano a “dar forma alla mente”.

In una reale democrazia le istituzioni politiche, per essere autorevoli e riconosciute, devono essere capaci, da una parte, di dare regole precise, dall’altra, di coinvolgere tutti i cittadini considerati non oggetti da utilizzare ai più diversi fini ma soggetti e protagonisti del vivere insieme.

Governi e istituzioni, invece, non parlano realmente alla gente, non spiegano la situazione e le proposte per superare i problemi… anzi creano spesso un clima di allarme per avere le mani libere e non dar spazio a critiche e contestazioni: “non ci sono alternative”, “se non si prendono queste misure il paese cadrà nel caos e il futuro sarà incerto e difficile per tutti”… L’insicurezza per il presente e il timore per il domani rendono la gente incerta e preoccupata, di conseguenza più controllabile.

Del resto, nessuno può negare che in tutto il percorso storico la menzogna e la manipolazione dell’informazione abbiano fatto parte degli strumenti del potere.

“Le parole sono pietre” (Carlo Levi) e, secondo l’uso che se ne fa, si possono costruire muri o ponti, senza dimenticare poi che, soprattutto in questi tempi, «informazioni false producono eventi veri», basta pensare alla guerra in Iraq del 2003, alla distorsione dei dati sull’immigrazione, alla strumentalizzazione del terrorismo….

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Il diritto della persona all’interno delle contraddizioni sociali

Interesse generale e interesse particolare

Interesse particolare e interesse generale sono concetti contraddittori e contrastanti o elementi che possono essere conciliati dalle norme giuridiche e dall’azione delle autorità pubbliche?

L’interesse particolare è incompatibile con l’interesse generale o ne è, normalmente, complementare?

Quale ruolo gioca l’interesse generale nello scenario politico-economico, socio-culturale attuale?

È ancora reale il suo valore come elemento di giustificazione dell’azione dello Stato e come fattore di coesione nelle società?

Il nostro futuro è legato alle risposte che sapremo dare a queste domande.

Nella prassi politica si fa grande uso (e abuso) del concetto di interesse generale, spesso per legittimare scelte ed azioni e dare un senso razionale a certe prese di posizioni senza dover ricorrere a troppe giustificazioni.

Il dibattito segue due linee fondamentali: l’utilità e la razionalità.

Nell’ottica dell’”utilità”, la questione viene risolta come “il massimo beneficio per il maggior numero di persone”; nella prospettiva della “razionalità”, invece, vengono posti limiti al criterio quantitativo, da cui deriverebbe una “dittatura della volontà della maggioranza”, la “sintesi finale” non può essere considerata espressione della volontà generale perché ne rimane estranea la partecipazione delle minoranze.

Nel corso della storia, pur con termini e caratteristiche diverse, l’interesse generale è stato oggetto di studi, analisi, diatribe ma acquisì maggior forza soprattutto a partire dal XVI secolo, in molti casi assumendo il carattere di “ragion di Stato”.

Machiavelli, in particolare, punta ad un ampliamento dello spazio di deroga delle norme che, sotto la pressione di una qualche emergenza, viene concesso alla politica in nome di un interesse generale superiore. L’unica ragione evidente, però, è quella di salvaguardare il potere del “sovrano”, senza tenere in considerazione la volontà popolare, secondo il principio che “il fine giustifica i mezzi” [1].

Quando chi gode del privilegio di governare parla di bene comune per difendere i propri interessi specifici, quando il concetto di interesse generale viene usato per dare utilità e razionalità alle azioni del potere, come argomento decisivo nel processo decisionale, risulta inevitabilmente snaturato, compromesso e perde il suo valore: non dipende più dalla volontà generale ed è funzionale a interessi particolari.

Una minoranza che fa propria l’interpretazione di ciò che è interesse generale ne fa una questione di potere; si proclama la razionalità delle proprie azioni per nascondere i reali interessi di un leader, di una élite, di lobby di ogni tipo, di un partito politico, di poteri economico-finanziari, dello staff di un giudice, di gruppi di pressione… una  “ragion di Stato” camuffata dietro il tanto abusato termine di “bene comune”.

Gli “interpreti” attuali della volontà collettiva, o almeno di ciò che viene presentato come interesse di tutti, si rifanno alla democrazia rappresentativa e non più ai miti o alle interpretazioni religiose del passato, ma ritengono ancora di avere il brevetto esclusivo di interpretare il senso comune, di determinare l’interesse generale, la cui garanzia, invece, corrisponde all’insieme sociale, alla società nel suo complesso, consapevole e cosciente di diritti e doveri, in una sintesi della volontà di tutti, in cui converge una pluralità di maggioranza e minoranza come salvaguardia dello Stato di diritto.

Ci si nasconde dietro la “razionalità” di certe scelte (risuona come un eco del “non ci sono alternative”!) per riaffermare il proprio potere decisionale e difendere interessi politici, elettorali, economici… Così una minoranza finisce per dominare la maggioranza e deciderne i destini; nel proporre l’uguaglianza garantita sull’interesse generale, di fatto, si crea – diritto alla mano – sempre più disuguaglianza.

L’interesse generale non è una verità assoluta rivelata a pochi eletti, tanto meno quando è nelle mani di chi esercita il potere, è un lungo percorso di un processo di sintesi d’interessi collettivi al cui interno nessun interesse peculiare deve prevalere.

Anche oggi, nella democrazia rappresentativa, si continua a delegare ad “interpreti” la comprensione della volontà popolare e ad agire di conseguenza.

È indispensabile trovare meccanismi che rendano inutile (o per lo meno controllabile) la presenza di questi interpreti, poiché un interesse è veramente generale solo se espressione della volontà collettiva liberamente espressa.

Troppo spesso, da ormai troppo tempo, gran parte della gente, superficiale e indifferente, ha finito per mettere nelle mani dei politici un assegno in bianco per determinare il suo futuro nell’illusione che venga salvaguardato il proprio interesse personale, senza neppure chiedersi quale esso veramente sia.

I fatti degli ultimi mesi hanno evidenziato come tante percezioni fossero errate e come sia necessario, e urgente, comprendere che l’interesse individuale passa attraverso l’interesse della collettività perché tutti possano sviluppare ed esprimere il massimo delle proprie capacità e diritti.

Dietro il concetto d’interesse generale c’è la persona e la sua dignità, c’è l’obiettivo di realizzare condizioni di vita che permettano il pieno sviluppo di ogni individuo e della collettività perché in una società di uomini e donne pienamente “realizzati” tutti vivono meglio.

La dignità, in una concezione integrale della persona, deve essere messa al centro, come fondamento di ogni collettività; l’essere umano viene riconosciuto come cardine e principio dello Stato e della società, nel rispetto del suo particolare valore, unito nella garanzia dei diritti di ogni persona e gruppo.

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«Se non ora, quando?»

Impossibile
è la definizione di un avvenimento
fino al momento prima che succeda.
Erri de Luca

La storia ci ha offerto tante occasioni per rispondere a questo interrogativo e troppo spesso l’abbiamo ignorato o abbiamo dato risposte sbagliate, risposte che hanno contribuito a preparare la situazione di oggi.

Galileo disse: «Dietro ogni problema c’è un’opportunità»… e forse è questo il momento in cui un problema diffuso e doloroso può spingerci a cercare opportunità inedite.

E se questa società “sfilacciata”, alla quale nel tempo siamo arrivati, ritrovasse nel contesto attuale i motivi per ricompattarsi?

E se la condivisione di un’emergenza così inaspettata e invasiva, fin nei più elementari gangli della vita personale prima ancora che sociale, ci facesse riscoprire di esser parte di un “tutto” globale, di appartenere, ad ogni latitudine, alla stessa Terra, di essere un tutt’uno con l’intera umanità?

La natura, la Madre Terra, la Pachamama, non ce la fa più e ci “avvisa” per le conseguenze che il suo sfruttamento insensato e planetario potrà portare… non una ribellione, ma una richiesta d’aiuto con continui “avvertimenti” per evitare catastrofi peggiori. Forse è il suo modo per poter “respirare”, costringendo alla quarantena non tanto auto e aerei, ma abitudini consolidate, errati modelli di consumo e di sviluppo.

Il filosofo Rupert Read parla di una “meravigliosa coincidenza”:

«È una meravigliosa coincidenza che quasi tutto ciò che dovremmo fare per fronteggiare l’emergenza climatica ed ecologica coincida esattamente con ciò che dovremmo fare per migliorare le nostre vite e incrementare i nostri mezzi di sussistenza, per affrancarci dalla triste condizione in cui ci troviamo attualmente».

Oggi è emersa, senza ombra di dubbio, la stretta interdipendenza tra essere umani ed ecosistemi come “fattore naturale” e solo ora, forse, ci rendiamo conto che i nostri “destini” sono intrecciati, interconnessi.

Siamo una rete fisica, materiale: il momento attuale ci offre l’occasione di comprendere che abbiamo dato troppa attenzione all’“io” e ben poca al “noi” e ci accorgiamo ora che l’“altro” è fatto anche di “te”, che siamo parte di qualcosa che abbiamo ritenuta estranea a noi stessi.

«Siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia» (David Quammen). Questi virus sono l’inevitabile risposta della natura all’assalto dell’uomo agli ecosistemi e all’ambiente.

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Tornando a casa. Diario di un trekking himalayano

Dedicato a mia figlia Valeria, perfetta compagna di cammino
Si ringraziano Keshab lo sherpa, Prabath la guida e soprattutto il magico Nepal

Una volta anche lui era angosciato
dalla morte. Sì, e pure dalla vita, per
questo. Forse soprattutto dalla vita.
Angosciato, sì. Ma era molto tempo
prima. Anche l’angoscia è rimasta tra le
montagne. Ora c’è per lo più grande
quiete in lui. E, intorno a lui, come tra le
montagne.
(G. Gunnarsson, Il pastore d’Islanda)

La polvere nei denti è la prima sensazione che ti regala Kathmandu. Strade per lo più sterrate, traffico caotico peggiorato dalla guida a sinistra all’inglese. Macchine, bus strabordanti persone, motorini, biciclette, mucche patite, sdraiate sulla carreggiata che i veicoli evitano con sterzate improvvise, galli e galline, cani dallo sguardo mansueto e polvere dovunque. Gruppetti di donne, armate di scope di saggina hand made, spostano con gesti automatici la polvere dai marciapiedi, la sollevano per lasciarla ricadere pochi metri più avanti. Ci sembra di capire che il governo garantisca alle donne della capitale una sorta di compenso simbolico per il lavoro di pulizia strade, che in realtà si riduce a un semplice alzare la polvere in aria.

Kathmandu, oltre che inquinata e polverosa, è lurida e povera. Espone la propria miseria senza ritegno, baracche e campi tendati in pieno centro inclusi. Il Nepal è uno dei paesi più poveri al mondo, con una caduta del PIL del 35% negli ultimi due anni e un elevato tasso di denutrizione infantile. Ogni anno dalle cinquemila alle dodicimila ragazze nepalesi, dai sette anni in su, vengono rapite per lavorare nei bordelli indiani.

Al calare del sole la città si fa buia, cavi elettrici malconci penzolano fra un pilone e l’altro quasi sfiorando terra, annodati gli uni agli altri, ingarbugliati. La corrente elettrica illumina solo gli esercizi commerciali e gli alberghi, le strade sono scure e ci si devono cavare gli occhi per non calpestare mucche, bufali o cani randagi adagiati sui marciapiedi.

Kathmandu sorge a 1.337 metri di altitudine, ma di montagne neanche l’ombra. Comincio a chiedermi che cosa mi abbia condotta in questo luogo dimenticato dagli dei e sommerso dallo smog e dalla polvere. Che cosa mi credevo di trovare? Che cosa cercavo? Da dove veniva tutta quell’attesa, quel desiderio di Nepal che covavo da decenni e che mi ha portata qui a calcare i primi passi della mia vita da pensionata?

Il nostro è un viaggio in autonomia. Ho cercato di associarmi a un gruppo di Avventure nel Mondo che però non ha avuto fortuna. Dunque: o rinunciare al Nepal o organizzarsi da sé. Ho scandagliato internet, indagando tutti i siti di trekking, per poi decidermi a contattare un’agenzia nepalese che ci fornisse una guida e uno sherpa. Due viaggiatrici: io e mia figlia Valeria che si è offerta di condividere con me questa avventura.

Non è prudente due donne sole in un paese lontano come il Nepal – mi dicevano gli amici. In realtà si tratta di un paese povero ma tranquillo, dove non capita di sentirsi insidiate o in pericolo. Poi il percorso scelto è molto frequentato, uno dei classici, niente di veramente avventuroso. E poi si deve andare.

La guida ci conduce in un vicolo non più pulito di altri e in fondo compare come un lampo Boudanath, lo stupa buddhista più grande del mondo, ricostruito dopo il terremoto del 2015 che uccise novemila persone e ne ferì gravemente ventiduemila, riempiendo la capitale di profughi che avevano abbandonato i villaggi. L’impatto con questa imponente costruzione sacra è fortissimo. Su una base quadrata, poggia un’ampia cupola bianca. Da una sorta di campanile gli occhi di Buddha ti seguono ovunque. Pellegrini, monaci e nepalesi qualunque s’incontrano qui per camminare intorno allo stupa, secondo il rituale, suonando le campane tibetane, facendo rollare le ruote di preghiera e, ovviamente, pregando. Intorno monasteri, laboratori che producono candele di burro, corni cerimoniali, cappelli piumati per i lama e tamburi, scuole di pittura sacra e bandiere di preghiera ovunque. Un senso di sacralità è palpabile, forse è questo girare ipnotico, ne’ avanti, ne’ indietro, solo camminando in tondo in senso orario, in silenzio, le campane che suonano di continuo mentre il cielo scolora. Originariamente lo stupa era una stazione postale fra Lhasa e Kathmandu, dove i mercanti tibetani si fermavano a pregare per propiziare il viaggio prima di affrontare gli alti passi himalayani. Mi viene l’idea di acquistare un rosario nepalese e cominciare a sgranarlo, ma invisibili lacci ancora mi trattengono, sono appena approdata in questo mondo enigmatico. Un gesto mancato.

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Un sorriso gigantesco sull’Algeria

Una lettera di Zazi Sadou, l’amica algerina da tempo ospite di secondorizzonte, sulle proteste suscitate dalla volontà di perpetuarsi di un potere arrogante e cieco

“Sono rientrata ieri da Algeri. Vi ho passato 15 giorni e naturalmente l’8 marzo.
Spero di potervi ritornare presto. Questo mi mette in movimento, come puoi vedere. Spero che le manifestazioni restino pacifiche come lo sono adesso. È assolutamente evidente il senso di fraternità e il buon umore. Un clima che non ho mai vissuto in passato. Aleggia sull’Algeria un sorriso gigantesco. È così che lo sento. Quando ci si incrocia nella strada ci si guarda e ci si sorride. Soprattutto con le donne e i giovani. Sono tutta sotto sopra. E ho un desiderio folle di ripartire.”

Lettera aperta a questo potere che rifiuta di ascoltareIL NOSTRO CUORE BATTE DI NUOVO

Da parecchie settimane un clamore immenso sale dal più profondo dell’Algeria. Milioni d’Algerine e d’Algerini misurano a grandi passi le città e i villaggi per dirvi: «Andatevene», «Sgomberate», «Voi siete indegni del nostro popolo e della nostra fiducia», «Il vostro sistema è marcio», «né prolungamento del 4° mandato né mantenimento del vostro sistema» …

Voi rifiutate di sentire questo clamore immenso. Ma né voi, né nessuno potrà soffocarlo.

Prendete lezione dalla storia e andatevene.  Restituite le chiavi del nostro bel paese. La rottura è consumata.

Se voi non sentite niente è perché siete morti o decidete di non sentire niente come avete fatto da decenni.

Nel 1970, il vostro sistema ha represso e imprigionato centinai di studenti e studentesse il cui unico torto era di reclamare la giustizia sociale.

Nel 1988, il vostro sistema ha fatto uscire i suoi carri armati per sparare su giovani che mostravano i loro petti nudi. Avete imprigionato decine di militanti il cui solo torto era di reclamare la giustizia sociale.

Nel 1999, il vostro sistema ha messo la museruola alla voce delle vittime del terrorismo e decretato l’amnistia degli assassini imponendo l’amnesia generale e il furto organizzato della nostra memoria collettiva. Avete fatto la scelta del crimine e pretendete di aver portato la pace. Quello che voi occultate è la resistenza eroica del nostro popolo di fronte alla barbarie del GIA e i suoi sostenitori. Avete fatto la scelta di ignorare l’estremo sacrificio dei suoi figli.

E’ ai sacrifici di Katia Bengana, Amel Zenoune, Mohamed Sellami, Benhamouda, Alloula, Medjoubi , Tahar Djaout, Djillali Liabes e di centinaia di migliaia di martiri anonimi e di donne e uomini resistenti civili, di patrioti, di soldati che noi dobbiamo il merito di aver conservato la nostra bandiera e il nostro inno nazionale.  Queste preziose eredità di Djamila Bouhired, Abane Ramdane, Maurice Audin e i milioni di martiri dell’indipendenza.

La nostra eterna riconoscenza va a quelle e a quelli che ci hanno permesso di sfuggire a una teocrazia wahabita sanguinaria e che permette ai giovani di oggi di manifestare affiancati, con rispetto e fraternità. Questa speranza nascente appartiene a loro. Voi non gliela potete sottrarre.

Il nostro popolo non ha alcun debito con voi. Da 20 anni voi lo tradite.

Prosciugando le ricchezze del nostro paese e aspirando il suo midollo fino all’osso…

Ipotecando la nostra sovranità nazionale e dando da bere la voce dell’Algeria sulla scena internazionale…

Volendoci umiliare davanti alla terra intera, facendoci passare per un popolo vassallo di una poltrona e di un volto…

Impedendoci di sognare un mondo nuovo e migliore per i nostri figli e nipoti…

Scoraggiando e anestetizzando migliaia di dirigenti integri in tutti i settori dell’economia, dell’educazione, della salute, della giustizia ecc… E che, a dispetto del disgusto che si è insinuato in essi, fanno del loro meglio perché l’Algeria non crolli ancora di più…

Distruggendo la speranza di un futuro luminoso per i giovani che, tutti i giorni, hanno sfidato la morte senza sepoltura gettandosi in mare…

Dando potere a incolti, predatori, ladri, ignoranti, leccapiedi, gente senza dignità né onore, senza fede né legge…

Usando la corruzione per governare.

E usando terrore e intimidazione per durare…

Concedendo i favoritismi, l’uso illecito di informazioni privilegiate, i procedimenti d’ingiunzione, la concussione, il furto organizzato per garantirvi fedeltà che finiranno per lasciarvi… Non dimenticate mai che quelle e quelli che hanno la pancia molle e «piena di fieno» temono il fuoco.

Presto o tardi vi renderete conto dei disastri in cui avete immerso l’Algeria. Voi vi attaccate a un trono vacillante … Cessate di giocare ai pompieri-piromani. Mettete fine a questa macabra sinfonia di sedie musicali. Inutile affaticare il diplomatico/pensionato per fabbricare una «soluzione» della crisi.  Lo schema dell’Onu di gestione di crisi è inoperante.

Ascoltate il clamore.  Sentitelo. Prendete atto della fine del vostro sistema.  Andatevene, il popolo lo grida da settimane.

Per il dopo, non preoccupatevi, c’è tanta energia e creatività da dispiegare per trovare buone soluzioni  e costruire una Repubblica, democratica e sociale.

Il nostro cuore batte di nuovo e non smetterà più di far brillare l’Algeria negli occhi magnifici delle nostre figlie e dei nostri figli. Sono così fiera di essere Algerina. Io non dimentico. Non abdico.

Zazi Sadou

Femminista Port-Parole del RADF – Rassemblement Algérien des Femmes Démocrates – 1993-2004 [lettera inviata il 14 marzo 2019, traduzione di Delfina Lusiardi]

Nel silenzio di Gighessa

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Ci sono luoghi che ti chiedono di fare scelte.

1

La strada che da Addis Abeba porta verso sud, di fatto l’unica grande arteria di collegamento del paese, esce dalla città attraversando una periferia in espansione.
Ai lati palazzine in costruzione già rivelano la loro futura bruttezza.
Sulle impalcature, semplici lunghi pali inchiodati tra loro e senza alcuna protezione, lavorano gli operai, spesso bambini sugli otto, nove anni.
E’ in costruzione anche la strada di questo quartiere, ma per il momento è uno sterrato fangoso tutto una buca.
Sul tubo dell’acquedotto si aprono qua e là rubinetti a cui la gente, in lunghe file, attinge acqua con taniche da benzina.
Taniche di tutti i colori e misure.
Taniche grandi e taniche piccole.
Taniche da adulto e taniche da bambino.
Perché tutti ne hanno una, se vuoi bere, se vuoi portare a casa l’acqua.
Tutti, anche i bambini più piccoli che devono subito imparare le leggi della sopravvivenza.
E la prima legge è che, dovunque ci sia acqua, tu devi essere attrezzato per prenderne la tua parte.
Ci si lava anche a questi rubinetti, ma, quando la fila è troppo lunga, può andare bene anche una pozzanghera per una rapida toeletta.
Un mendicante espone le piaghe.
Capre.
Via vai di gente che trasporta sulle spalle sacchi, legna, fagotti.
Nibbi bruni volteggiano sopra di noi.
Benvenuti in Africa.
Un’Africa in bilico tra voglia di progresso e contraddizioni sociali, tra mondo rurale e urbanizzazione senza controllo.
Ora la strada è asfaltata e trafficatissima.
Camion stracarichi entrano o escono dalla città sparando nubi nere dai tubi di scarico, mentre si fanno strada fra la gente a piedi e i carretti.
Parallelo alla strada vi è una sorta d’avvallamento dove pascolano mucche e capre.
Due bambini a guardia del bestiame salutano festosi il passaggio del nostro pulmino, sporgendo le faccine sorridenti ad altezza dei tubi di scappamento.
Allontanandosi dalla città il paesaggio diventa rapidamente una piana sconfinata su cui la strada disegna un lungo nastro rettilineo che scende fino al profondo sud, fino al confine col Kenya e poi ancora oltre, fino a Mombasa.
La nostra meta è, però, molto prima: siamo diretti a Gighessa, distretto di Shashamane, dove ormai da diversi anni è attivo un progetto chirurgico ortopedico che si avvale del supporto logistico della missione locale.
Due volte l’anno un gruppo di volontari, che a rotazione garantisce la presenza di medici ortopedici, anestesisti e infermieri, scende a Gighessa portando con sé tutto il materiale necessario per allestire una sala operatoria e farmaci per la degenza successiva.
Per due settimane la sala operatoria sarà attiva per garantire tra i cinquanta e i sessanta interventi.
Dopo di che, il gruppo si dà il turno con altri volontari che si occuperanno della fase riabilitativa.
E’ un piccolo progetto, nato e gestito in modo snello e in totale autonomia, che si propone di portare chirurgia ortopedica in una realtà sguarnita di strutture sanitarie.
In Etiopia, infatti, la situazione sanitaria ed ospedaliera è drammatica: gli ospedali sono pochi e i più qualificati sono solo nella capitale; il costo è a totale carico dell’ammalato e questo rende impossibili le cure per la maggior parte delle persone che vivono in condizioni economiche d’assoluta povertà.
L’ammalato deve non solo pagare degenza e farmaci ma, spesso,  provvedere anche al vitto e addirittura alla biancheria del letto.
Le cure chirurgiche, inoltre, anche per la cronica mancanza di chirurghi, sono di fatto improponibili.
Sono bambini e adolescenti i destinatari di questo progetto, con patologie ormai inesistenti nel mondo occidentale: patologie legate alla povertà, alla mancanza di prevenzione adeguata, alla mancanza di una cultura della salute e a condizioni ambientali che richiederebbero radicali trasformazioni.
Bambini che a causa della loro patologia resterebbero per lo più un peso per la famiglia, senza la possibilità di autonomia di movimento.
Ormai si è sparsa la voce che due volte l’anno i bambini potranno essere operati e curati gratuitamente a Gighessa e qui arrivano anche da lontano, magari dopo giorni di viaggio, le mamme giovanissime o le nonne, più raramente i papà, con i loro figli a volte neonati, a volte già grandicelli.
Veniamo informati che a Gighessa già c’è una piccola folla in attesa, ma prima bisogna fermarsi in altre due missioni a visitare anche qui possibili pazienti.
L’arrivo dei medici dall’Italia crea un’attesa ed un’aspettativa che in molti casi saranno deluse.
Non è facile far capire che i “medici italiani” non sono onnipotenti e hanno competenza solo per alcune patologie, non altre, e che spesso ci sono limiti oggettivi ad impedire il “miracolo”.
Una prima valutazione dei casi è fatta dal personale delle missioni, ma capita che molti giungano alla visita con una speranza che non potrà avere seguito.

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Pensiero del Presente / Trasformare la paura, si può

Fra le testimonianze di Zazi Sadou tradotte e pubblicate in Italia (“Ho scelto di lasciarvi immagini di vita e di bellezza”, Diotima, Il profumo della maestra, Liguori 1999; “Lotta al terrorismo. Imparare dalle donne d’Algeria”(“Via Dogana”, n. 58/59 2001, dopo l’11 settembre); “Trasformare la paura, si può” (Quaderno di Via Dogana, Fare pace dove c’è guerra, 2003), Secondorizzonte ha ritenuto opportuno riproporre quest’ultima.
Si tratta infatti di una narrazione ricca di riflessioni profonde e di insegnamenti sapienti, purtroppo straordinariamente attuali,  riguardo alla  maniera di trattare  la paura con la quale  il terrorismo  cerca di distruggere ogni disponibilità all’apertura e all’incontro tra esseri umani, facendoci dimenticare ciò che ci lega al di là delle appartenenze religiose e delle differenze culturali: l’amore per una  terra accogliente e il rifiuto della violenza sotto ogni forma.
“Trasformare la paura, si può” , nella versione integrale è disponibile a stampa, nel Quaderno di Via Dogana
Fare pace dove c’è guerra. Il Quaderno è in vendita alla Libreria delle donne (via Pietro Calvi 29, Milano) – che ringraziamo per l’autorizzazione alla riproduzione del testo sul nostro sito – e si può richiedere scrivendo a info@libreriadelledonne.it.

La paura è come la morte, la morte violenta. Non c’è niente di peggio. La paura è un sentimento ancor più forte dell’amore, della gioia. È qualcosa di talmente forte che, se arriva a dominare il suo pensiero, il suo corpo, la persona è morta. Non fa più niente… Malgrado la paura, siamo riuscite a creare un luogo di legami sociali, di solidarietà. Io uso la parola “strategia” perché noi abbiamo cerca­to di mettere in gioco delle azioni precise, volte a rompere il cerchio della paura collettiva. Quando una persona è isolata ha paura. Ma se sono migliaia le persone che hanno paura è l’isolamento più totale. Quando l’integralismo è arrivato con il terrore per inchiodare tutti al silenzio, alla paura, una voce si è alzata per dire: rompete il silenzio, perché questo silenzio è la morte. Sono state per prime le donne ad alzare la voce in Algeria, come risposta collettiva.*
Io credo che in ogni situazione, e non solo in Algeria o in Bosnia o in Afghanistan (società attraversate da conflitti sanguinosi), le risposte alla paura, a questa esperienza umana dolorosa, debbano essere le stesse.
La paura è un sentimento che tutti conoscono, più o meno. Confesso che io ho molta paura: lo so, l’accetto, la faccio diventare parte integrante di me stessa. È un sentimento orribile che paralizza. Sono d’accordo che occorre parlarne: è necessario poterla esprimere, ma solo a condizione che il parlarne non la renda contagiosa.
Per esperienza, infatti, riconosco tre tipi di paura. C’è questa paura contagiosa: una persona può suggestionare un gruppo distruggendo ogni possibilità di reazione, ogni possibilità di difesa, ogni possibilità di resistere. Sono situazioni di violenza estrema.
C’è la paura paralizzante, ha lo stesso effetto del tetano: se la persona o il gruppo che si trova in questa situazione non riesce a trasformare questa paura in un altro sentimento, come la rabbia ad esempio, per potere reagire e per potere attingere al massimo di energia per affrontarla, è la morte certa, è la prigione, è l’abbassare le braccia. La paura si prende tutto, è dare alla paura tutto il potere, sia da parte di singolo che da parte di un gruppo sociale o politico.
Infine, c’è la paura che personalmente, e penso anche collettiva­mente, abbiamo cercato di trasformare in paura motivante. Noi abbiamo conosciuto tutte le forme di paura. Ma è appunto quest’ul­tima, quando siamo riuscite a trasformarla in un guadagno di conoscenza, che ci ha dato la rabbia e di conseguenza la forza di reagire e di agire molto rapidamente.
Ogni individuo che vive la paura sa che è qualcosa di terribile, la paura può trasformare una persona, può trasformare un soggetto in una pecora. A quel punto, puoi fare di lui quello che vuoi. La paura è anche un segnale importante, ma quello che i movimenti totalitari fanno è di manipolare la paura degli individui. I gruppi armati isla­misti in Algeria hanno usato la paura e il terrore per mandare in pezzi la società, per cancellare la presenza delle donne nei luoghi pubblici e per prendere il potere. La resistenza, nelle sue diverse forme, ha avuto l’effetto di far regredire la paura collettiva, ostaco­lando questo processo.
All’inizio, c’è stato l’assassinio di poliziotti, di uomini della gen­darmeria, di militari. La società non ha ceduto. Noi abbiamo manife­stato fin dai primi assassinii. Poi c’è stato l’assassinio di intellettuali, e di giornalisti.
C’è stata una resistenza civile, la società non ha cedu­to. In seguito, a partire dal 1994, c’è stata un’altra fase: paralizzare, immobilizzare la società toccando il cuore della famiglia, cioè attac­cando le donne. Bisogna considerare il ruolo delle donne nella rap­presentazione simbolica, in società di tipo patriarcale come la nostra. Toccare una donna, violentare una ragazza nella sua casa, alla presenza dei fratelli, alla presenza del padre, provoca delle ondate di shock. Situazioni di questo genere sono state prodotte su larga scala. La violenza sessuale è stata utilizzata in Algeria dai grup­pi armati per terrorizzare la società. Sono state spesso le madri che hanno cercato di opporsi alla violenza e al sequestro della propria figlia. Ci sono casi concreti. Nella maggioranza delle testimonianze che abbiamo raccolto, le giovani donne violentate non volevano più ritornare a casa perché si sono sentite abbandonate dal padre e dal fratello che non hanno mosso un dito per proteggerle. È facile immaginare le conseguenze di queste relazioni nella società: viene lacerato in profondità il tessuto sociale, che poi deve essere ricosti­tuito. Abbiamo lavorato in situazioni di violenza estrema, di terrore. Essendosi questi casi moltiplicati, a partire dal momento in cui un numero sempre più elevato di ragazze venivano violentate o seque­strate, c’è stata una reazione che si può definire salutare perché un numero sempre maggiore di uomini hanno cominciato a organizzar­si in gruppi di resistenza. Padri di famiglia, nella loro testimonian­za, mi dicevano: io ho impugnato le armi perché sono venuti ad offendere l’onore di mia figlia. Ma, con l’organizzazione della resi­stenza divenuta sempre più importante in tutta l’Algeria grazie alla formazione dei gruppi di autodifesa e di patrioti, l’attività dei grup­pi armati terroristi ha subito un’evoluzione: è stato in quel momen­to che sono cominciati i massacri. Non era più una persona soltanto o una famiglia ad essere colpita, ma centinaia di persone che veniva­no assassinate nei villaggi. Massacri con un unico obiettivo: generare terrore per annientare ogni tentativo di opporsi ad essi.
Fare delle manifestazioni, delle marce, parlare in pubblico, inter­venire in una conferenza o scrivere esponendosi con il proprio volto e con il proprio nome, ha significato dire: io non ho paura di voi; io non posso tacere le cose che penso. Questa è stata in ogni momento la nostra politica, che toglie terreno a chi ricorre all’arma della paura. Ma ha anche l’effetto di far regredire la paura dentro di sé e farla regredire negli altri.
Ho visto rinascere la fiducia nelle relazioni. Quando un gruppo di individui constata che ci sono persone le quali, nonostante la paura che sentono non rinunciano a dichiarare orribile il progetto di colo­ro che minacciano tutti usando il terrore, si crea un luogo di solida­rietà.
Abbiamo dovuto anche trovare una lingua più potente della loro per dire che il nostro progetto è la vita. In questo modo noi stesse non ci siamo lasciate paralizzare dal terrore, dimostrando ad altri, ad altre che era possibile non lasciarsi trascinare fino in fondo dalla paura.

*Zazi Sadou, nel suo contributo al Seminario Verso un sapere del sentire, La paura, un segno forte del presente (Università delle donne di Brescia, aprile 2000), ricordava gli inizi della loro azione collettiva nel clima di terrore:
“Nel gennaio del 1995, era la vigilia del Ramadan in Algeria. Una bomba di cento chilogrammi di esplosivo , il T.N.T., esplose nel centro della capitale. Ci furono circa cento morti, centinaia di feriti. È esplosa al momento del passaggio di un auto­bus strapieno, diretto verso un quartiere popolare d’Algeri alle tre del pomeriggio, quando le persone erano uscite per fare le compere della vigilia del Ramadan. Ho sentito questa esplosione dal posto in cui ero con alcuni amici. Siamo andati sul posto immediatamente, appena avuta la notizia. È l’orrore, quando si arriva nel momento in cui ci sono pezzi di corpi da raccogliere. È assolutamente orribile da spiegare. Bisognava fare qualcosa: questo andava oltre i limiti personali. Avrei potu­to mettermi a raccogliere pezzi di corpi… occorreva fare qualcosa che rompesse il cerchio della paura, lo sapevamo. Lo sapevo che se pubblicamente non avessimo fatto un’azione spettacolare per lanciare un messaggio alla società da un lato e, dal­l’altro, ai terroristi che hanno rivendicato l’attentato (uno dei capi ha fatto una dichiarazione dagli Stati Uniti) per dire loro che noi non cederemo, che la società non cederà al terrore, noi avremmo cominciato a perdere la partita. E così abbiamo deciso quello stesso giorno di chiamare le donne a una manife­stazione sul luogo dell’attentato. Abbiamo scritto un comunicato che è uscito subito sui giornali. Abbiamo cominciato a telefonare alle persone. Non avevamo l’autoriz­zazione della polizia, ci sono state anche pressioni per impedirla, ma noi eravamo così convinte che si dovesse fare questa manifestazione che in meno di ventiquat­tr’ore centinaia di donne si sono presentate sul luogo dell’attentato. Eravamo sicu­re che ci sarebbero state, soprattutto le donne. Sul luogo dell’attentato restava un cratere di decine di metri, il sangue era ancora dappertutto, tutti i vetri della strada erano esplosi. E loro sono venute con delle candele e le hanno messe tutt’intorno.
Malgrado questo sentimento di paura, c’era stato qualcosa. E questa manifesta­zione ebbe un’eco straordinaria in tutta la società. L’eco fu importantissima sul piano psicologico come sul piano politico, perché fu la dimostrazione che ci sono delle algerine – per la maggior parte erano venute donne – che dicevano no, che esprime­vano un rifiuto, e che questa resistenza aveva il senso di rifiutare uno stato totalita­rio sotto la copertura della religione”.

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Pensiero del Presente / Non in nostro nome*

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*La lettera, scritta subito dopo le azioni terroristiche del 7 gennaio a Parigi, è indirizzata a Delfina Lusiardi, femminista bresciana, che l’ha tradotta e fatta circolare nell’ampia cerchia delle persone che in Italia hanno incontrato direttamente Zazi Sadou o l’hanno conosciuta attraverso le sue testimonianze.
Sono testimonianze della resistenza con la quale le donne algerine democratiche si sono opposte alle azioni di terrore dell’integralismo islamico negli anni novanta. Delfina Lusiardi le ha, di volta in volta, raccolte, curate e tradotte.

Carissima amica, sono ancora sotto choc per quello che è successo ieri a Parigi. Immagina la violenza delle emozioni che ci sommergono.
Ecco il testo che ho scritto come un grido del cuore…

Tahar Djaout, giornalista algerino è stato assassinato nelle strade di Algeri da un giovane uomo che l’ha chiamo con il suo nome prima di puntare l’odio di cui era armato contro la sua tempia… Robot della morte persuaso di aver vendicato Dio e il suo profeta.
Tahar Djaout aveva appena scritto: “Se parli muori, se taci muori allora parla e muori…”

Questa frase divenne il nostro slogan, una parola d’ordine che ha impegnato migliaia di algerine e di algerini che hanno resistito ai molteplici attentati  e assalti dei gruppi armati integralisti…
Le donne furono nelle prime linee per denunciare i crimini commessi in nome della religione  e di Dio!
Tutti i giorni, durante più di un decennio abbiamo occupato le strade e i cimiteri per denunciare a mani nude il nostro diritto alla Vita e alla Libertà difendendo così i nostri ideali repubblicani e democratici.
Dieci anni dopo aver lasciato l’Algeria sono ripresa dentro un incubo che ha ossessionato le nostre vite per due decenni.

L’attentato  contro i giornalisti di Charlie Hebdo è un crimine contro la Libertà d’espressione, base democratica incontestabile. Non c’è da avere alcun dubbio sull’intenzione degli assassini. L’impatto che può avere questo ignobile crimine è da prendere molto sul serio. Se gli assassini lo rivendicano a nome dell’Islam, non  lasciamoglielo fare. Che questo crimine ignobile non venga attribuito ai milioni di cittadini di orizzonti e di origini differenti. Non lasciamo che vengano usurpate e sequestrate la credenza di milioni di donne e di uomini e le culture legate ad essa per un ideale politico il cui solo obiettivo è di imporre una “dittatura” dove saranno banditi il libero arbitrio e la Libertà!
Agiamo, manifestiamo il nostro rifiuto di confusioni, denunciamo quelle e quelli che ci catalogano sotto l’etichetta di “musulmano” dunque potenzialmente integralista o violento!
Denunciamo, facciamo sentire le nostre voci e gridiamo forte in faccia a questi “spacciatori di paradiso”: vi è proibito agire in nostro nome!
Il movimento integralista legato all’islamismo politico è da combattere ovunque e con tutti i  mezzi. Che i suoi rappresentanti siano in colletto bianco o armati di Kalashnikov non lasciamogli occupare lo spazio pubblico! Che il sacrificio di centinaia di migliaia di vittime da Algeri a Gao, da Tombuctu a Kabul, dalle città dell’Irak a quelle della Siria non siano inutili.  Non si tratta di condurre “una guerra contro i musulmani” ma di agire INSIEME per impedire a quelli che ci uccidono di gettare i nostri figli  nei roghi che accendono dappertutto…
L’odio degli altri, l’odio verso lo straniero è l’ingrediente che alimenta questi focolai. Siamo solidali e vigili.

Zazi Sadou,
Militante femminista algerina
Portaparola del RAFD dal 1993 al 2002

Preferirei di no

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Una pellicola che si riavvolgeva, un film visto a ritroso: la strada per l’ospedale, osservata dal finestrino posteriore di un’ambulanza; seduta alla testa del paziente, lo sguardo incautamente rivolto all’indietro: sembrava un percorso rivisto dal traguardo, una storia letta dall’epilogo, una vita dall’odore di violetta e naftalina.
In emergenza, anche quando il mezzo sfrecciava contromano, su e giù per marciapiedi a velocità proibitive, lo stomaco non faceva una piega, ed era pur sempre lo stesso stomaco che al minimo ondeggiare abitualmente si rivoltava su se stesso. Sarà che nell’urgenza non c’è tempo per pensare ai propri organi traditori e il cervello è arrampicato su altri dirupi. Certo è che, assisa su un seggiolino instabile, abbarbicata ad un monitor, poteva permettersi di guardare indietro, veder sfrecciare sull’asfalto la linea bianca interrotta, come più volte la traccia dei suoi anni e poi ripresa con un balzo e ancora tenuta fra indice e pollice come filo sottile.
La pressione arteriosa reggeva, poteva stare tranquilla e continuare a sbirciare la sua vita srotolata dall’ultima pagina che si palesava dal finestrino.
L’emicrania bussava alle tempie, un ritmo pulsante, un dolore che sopportava da decenni, ma che negli ultimi anni scardinava quasi tutti i giorni, insensibile ormai ai farmaci per bocca, la obbligava sempre più spesso a ricorrere alle vene, senza trascurare il cortisone.
Non era sano, ancora una volta la sua vita aveva preso una piega nociva e sulfurea. Serviva un colpo di reni, un atto di coraggio per mollare la presa.
La saturazione dell’ossigeno superava il novantacinque per cento e la sua adrenalina sonnecchiava nell’angolo, pronta a ringhiare alla minima deflessione del valore percentuale. Lo sguardo scattava dal monitor al viso del paziente. Ora sfiorava i caschetti appesi al portellone da utilizzare in caso di pericolo, lo zaino intubazione, la borsa farmaci. Tutto era al suo posto, a tiro di braccia. Tutto quello che riempiva l’angusto spazio di un vano ambulanza, raggrumava la sua esistenza degli ultimi anni, tutta la sua storia recente, condensata in oggetti di soccorso, barelle, bombole d’ossigeno. Questo era ciò che doveva risolversi a lasciare, dopo l’addio urticante al bisturi, l’età lo imponeva ormai e la cefalea era lì pronta a scrivere il grafico di un corpo stanco, prostrato, che aveva fatto il suo tempo e che chiedeva respiro.
Era tempo di sciogliere le vele.
Bisognava assecondarla almeno questa volta, la vecchia carcassa, smettere di farla gemere, coricarla al bordo della carreggiata e lasciarla rallentare. Anche le resistenze della volontà si stavano sfilacciando, fiaccate da un dolore opprimente, onnipresente, che smembrava i giorni e ne faceva spazzatura. Tirava il vento della sottomissione e della resa.
Desiderava girare pagina, non solo rallentare la danza, ma ballare proprio un’altra danza. Non capiva ancora quale, certo non più questa. La fatica non stava tanto nell’emergenza, che pure non era una passeggiata, ma nella burocrazia che si mangiava la clinica, nel monitor di un computer che si frapponeva fra medico e paziente e nel tempo per l’ascolto che era divorato dai dati. Era bastata l’adozione di un nuovo programma informatico in pronto soccorso per appesantire vertiginosamente il lavoro e per scatenarle bordate di cefalea incontrollabili.
Aveva sempre visitato scrivendo poco, ascoltando e parlando tanto, mettendo le mani addosso ai pazienti per sentire cose che ora erano delegate solo a sonde ecografiche, gettando alle ortiche il sapere delle mani. Moncherini ai polsi e abuso di indagini diagnostiche.
E più si accertava, più si doveva accertare e documentare di averlo fatto, annotando il perché e il per come e, ovviamente l’ora e il minuto in cui si era deciso di farlo, l’ora e il minuto in cui si era materialmente fatto, l’ora e il minuto in cui si era ottenuto un referto. In questo delirio le parole dei pazienti si riducevano a monologhi consegnati a medici-automi ossessionati dal prendere nota pigiando compulsivamente sulla tastiera. Con gli occhi incollati al monitor, si agognavano pazienti disartrici o addirittura afasici per avere il tempo di sedare la voracità del computer.

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Pensiero del Presente / Partecipazione politica e costruzione del Sé

65.copertine-baldo.partecipazione

Questo scritto è una riflessione nata da una mia esperienza diretta, in qualità di candidata al consiglio comunale della mia città: non vuole essere una dissertazione teorica definitoria, ma semplicemente comunicare pensieri e domande che mi sono fatta durante quell’interessantissima esperienza.
Partendo da temi cari alla Psicosocioanalisi formulo questa domanda: l’agire politico esprime solo il tentativo di dare risposta a esigenze operative (economiche e organizzative) o si colloca in quell’area di complessità in cui le istanze originarie del si strutturano ed evolvono nell’incontro?
In altri termini la domanda che mi pongo è: “fare politica” risponde a bisogni sovrastrutturali o, al contrario, è una necessità psichica che, sia pure in differenti forme, ritroviamo come tratto distintivo dell’evoluzione dell’individuo?
Ormai una buona parte del pensiero psicoanalitico ha fatto proprio il modello della psiche che vede l’organizzazione del imprescindibile dalla relazione con l’ambiente. Lo stesso termine “” nasce come necessità di introdurre, nel concetto originario di “Io”, la componente relazionale, nella quale anche gli aspetti percettivi e somatici sono parte imprescindibile della costruzione dell’identità psichica.
La psicosocioanalisi appartiene alla costellazione teorica che s’interroga sugli aspetti relazionali, dove “relazione” è non solo quell’insieme di vicende collocabili nello spazio dell’esperienza affettiva primaria, ma diventa paradigma della dimensione culturale e gruppale nella quale è inserita la stessa relazione primaria. La “finestra psicosocioanalitica” proposta da Pagliarani resta un validissimo strumento per orientarsi nelle complesse vicissitudini della psiche. Nella sua semplicità grafico-spaziale mostra con immediatezza come gli spazi plurimi, che procedono dal singolare al gruppale, sono non percorsi che la psiche compie dopo che si è strutturata, ma luoghi di ridefinizione e ricostruzione della psiche stessa.
Sappiamo bene la conseguenza clinica di questa impostazione teorica: la mente è sì il frutto delle esperienze primarie, ma è anche portatrice di una plasticità adattiva e autogenerativa che la rende in buona misura “ricostruibile” nell’incontro. Non è un concetto da poco, poiché introduce una sorta di “speranza possibile” riguardo alla terapia di stati anche gravi, e mostra la dimensione gruppale come luogo del divenire demiurgico.
Gli interventi nelle aziende e nelle organizzazioni, fatti secondo il modello psicosocioanalitico, traggono la loro peculiarità proprio da questo presupposto teorico: prassi e apprendimento danno il massimo risultato in termini di raggiungimento dell’obiettivo, soddisfazione e possibile sviluppo, quando si muovono nello spazio della complessità e dell’integrazione tra componenti cognitive ed inconsce. Lo stesso criterio è applicabile a qualsiasi altro campo del fare, e non a caso s’incomincia a leggere l’attuale gravissima crisi economica come il risultato di una “scissione” troppo a lungo spacciata per pragmatismo ed efficienza.
Il dramma della crisi economica non è solo legato alla perdita del lavoro e all’impoverimento, ma all’improvviso accorgersi dell’alienazione diffusa che ha travolto gli aspetti identitari dei singoli e dei gruppi. Sicuramente anche la politica ha interpretato questa “scissione” che sembra il tratto connotante questo momento storico.

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Pensiero del Presente / Il ruolo dell’analisi istituzionale nell’affrontare l’ambiguità e la violenza nelle relazioni di cura

64.copertine-baldo.analisi

Vorrei fornire alcuni spunti per una riflessione sul tema della violenza nelle relazioni di cura all’interno di contesti istituzionali. E’ un argomento delicato che si presta forse anche a equivoci.
Mi riferisco al fatto che, credo, sia facile, mettendo in campo queste due parole -“violenza” e “istituzione”- andare con la mente agli episodi di abuso conclamato che ogni tanto compaiono anche nelle cronache giornalistiche: penso a fatti che coinvolgono ospedali o case di riposo dove accadono episodi di quella che viene chiamata “malasanità”, ma penso anche ad episodi in altri contesti (penso alle carceri o ai presìdi di polizia dove vengono fatti i primi interrogatori in caso di fermo).
In tutti questi casi si parla di abusi da parte di singole persone o gruppi di persone che vengono in qualche modo enucleati, per così dire, dall’istituzione nel suo insieme e alle quali viene poi contestato il fatto come espressione di un comportamento individualmente sbagliato, irrituale, violento. In tutti questi casi il sentimento diffuso è che quegli episodi esprimano una deviazione grave o tragica da quella che è confermata come buona procedura di base.
Si potrebbe a lungo discutere di questi aspetti, che indubbiamente esprimono un livello conclamato di violenza, ma non è di questo che voglio parlare.
Non vorrei, infatti, parlare di episodi di malapractice o di abusi di ruolo ascrivibili a responsabilità individuali. Non certo per sottovalutazione di questi episodi, ma perché vorrei piuttosto riallacciarmi al concetto di “violenza originaria” come elemento imprescindibile delle relazioni.
Trasferendo questo concetto nel campo delle istituzioni, vorrei capire se è la natura stessa dell’istituzione a introdurre con sé aree dove si può annidare un’intrinseca violenza.
Ne nasce una domanda alla quale non è detto che si riesca a dare una risposta né immediata, né facile, né soddisfacente. La domanda è: la violenza si esprime solo nei fatti gravi che assumono una rilevanza penale, o è piuttosto una componente delle relazioni istituite?
Per provare a dare risposta è necessario partire dalla constatazione che l’organizzazione istituzionale in sé ha a che vedere con l’incontro e l’organizzazione di diversità, di disparità, di gerarchie, di differenti livelli di potere. Questo fa parte del mandato di ogni istituzione: trovare un livello organizzativo nel quale l’istituzione riesca a dare risposta ai bisogni che è chiamata a prendere in considerazione, attraverso un sistema articolato di ruoli, mansioni, ritualità. Un sistema complesso.
Da qualche tempo la parola “complessità” è entrata a far parte del nostro dizionario: in effetti, è un termine che aiuta, con l’immediatezza di quelle parole che portano con sé significati logici ma anche evocativi, a visualizzare i termini della questione.
Nell’ambito che qui voglio prendere in considerazione, la questione è che le istituzioni non sono solamente l’apparato normativo e procedurale che esprimono, ma sono una grande operazione culturale per organizzare i significati psichici, anche inconsci, che il loro specifico compito smuove e mette in fibrillazione.
Vi è un grande filone del pensiero filosofico che si occupa d’istituzioni, anzi, possiamo dire che il pensiero occidentale si regge, in buona misura, proprio sulle riflessioni sul significato e senso intrinseco delle istituzioni, da Machiavelli a Keynes, da Platone a Schopenhauer, tanto per citare solo alcuni di coloro che se ne sono occupati. La psicanalisi ha ulteriormente contribuito alla costruzione di un pensiero sulle istituzioni, introducendo concetti e ipotesi che, per l’obiettivo che oggi qui ci proponiamo, ci sono di grande aiuto.
La peculiarità dell’approccio psicoanalitico alle istituzioni è aver individuato il collegamento tra le funzioni dell’Io e le funzioni delle istituzioni.
Secondo quest’approccio le istituzioni non sono solo luoghi di organizzazione del lavoro, ma luoghi di organizzazione dei grandi temi psichici che ciascuno di noi ha incontrato nel suo processo di strutturazione del sé, e che continuiamo a incontrare negli infiniti modi con cui la realtà li fa risuonare e riattualizzare.
Il testo che ha dato avvio a questo filone di ricerca e pensiero è “Il disagio della civiltà” scritto da Freud nel 1929. E’ stato un testo fondamentale che si collega a quel filone di ricerca teorica che, con “Totem e tabù” del 1912-13 e “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” del 1921, ha gettato le basi per le ricerche successive condotte dagli psicoanalisti che più specificamente si sono occupati di istituzioni e che sono, per citare quelli più noti e che maggiormente hanno scritto in proposito, Bion, Blèger, Fornari, Pagliarani, Kaës, Neri, Correale.
Il pensiero psicoanalitico in merito alle istituzioni ha, per così dire, riscritto la loro stessa definizione, mettendo in luce come i gruppi istituiti si comportino come un grande e complesso apparato psichico nel quale possiamo ritrovare linee di sviluppo, intoppi evolutivi, ansie, angosce, fantasie inconsce, né più né meno che nella psiche individuale.

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Pensiero del Presente / Differenza e invidia di genere nello spazio della politica

63.copertine-baldo.polis

Tutto posso perdonarti,
non però il fatto che sei ciò che sei,
anzi che io non sono te.
Cartesio

 

Questo testo è stato scritto all’inizio del 2012, nel momento di passaggio dal ventennio berlusconiano al governo Monti. E’ stato un momento di grande significato politico che ha inaugurato la controversa stagione dei governi tecnici, ed ha segnato, sul piano simbolico, la fine dell’era che potremmo chiamare del “soddisfacimento orale”. Di colpo la politica ha riscoperto il “limite”, il “vincolo”, declinati in modo rigidamente superegoico, in netto contrasto con quanto accaduto negli anni precedenti. Questo scritto – una sorta di diario sentimentale di quei giorni, suggerito dalle emozioni provocate da quell’inusuale passaggio – articola la riflessione su come sia possibile organizzare in termini di cultura e politica il tema della differenza, là dove esso pesca negli aspetti inconsci del mondo pulsionale e attraversa la questione dell’invidia tra i generi. La domanda cui si cerca di dare risposta è come sia simbolizzata la differenza sessuale nello spazio politico attuale, ritenendo che questo tema sia paradigmatico della qualità delle scelte politiche.

 

I – Percezioni dello spazio politico contemporaneo.  

Mi affaccio a questi primi giorni del 2012 con una sensazione di stordimento, come se io fossi – fossimo tutti – reduci da una grande sbornia che ora si fa sentire come cerchio alla testa, intorpidimento della mente, colpa.
Anche sollievo, per essersi salvati in extremis (ma sarà proprio così?) da una definitiva catastrofe del pensiero.
Il chiasso degli ultimi mesi lascia ora il posto a un ristoratore silenzio che starà a noi riempire con nuove parole e nuovi patti.
Ma, parole per dire cosa? Patti attorno a cosa? Siamo sicuri di sapere di cosa vogliamo e possiamo parlare?
Quale mondo futuro riusciamo a contenere nel nostro spazio mentale, per potergli, innanzi tutto, dare nome, e accompagnarlo verso la sua nascita, là dove l’epifania diventa possibilità di nuove relazioni, nuove intese, nuove edizioni dell’incontro?
La fatica che abbiamo sostenuto, per non soccombere agli ultimi anni della nostra storia nazionale, ora si fa sentire nella forma dell’insidioso dubbio di aver perso per strada il corretto collegamento tra parola e significato.
Non è forse stato lo stravolgimento del senso che ha caratterizzato quest’ultimo periodo? Parole lanciate come bombe e poi rimaneggiate come se fossero scherzi di carnevale. Parole svuotate della loro pregnanza storica, svuotate della loro provenienza, annullate nella loro possibilità di raccontare un divenire. Parole ridotte alla stregua di nomi commerciali di prodotti sulla cui probabile falsificazione non è dato indagare.
Credo che, se dovessimo dare un nome agli ultimi anni della nostra storia, lo potremmo chiamare “il tempo della falsificazione”. Menzogna sarebbe già troppo nobilitante, poiché attiene alla dimensione, comunque alta, della scelta.
Falsificare è, invece, un gioco scioccherello; è scrollarsi di dosso ogni possibile inciampo nel valore etico della responsabilità; è costruire una falsa verità alla quale si finisce per credere. E ci si crede sinceramente, attraverso quei meccanismi di scissione e negazione che la nostra mente, individuale e collettiva, mette in atto per eludere la realtà e proclamare il principio del piacere come unico codice di lettura.
Se consideriamo quanto accaduto dal punto di vista psichico, è stata una regressione collettiva verso il territorio dell’ambiguità, là dove si perdono le differenze e tutto si mescola in un indifferenziato mondo percettivo pre-verbale, ma ha anche indicato quali potrebbero essere i contorni della futura frontiera post-moderna. E’ stata una collettiva regressione intrapsichica e, al tempo stesso, un lungimirante ologramma di ciò che potrebbe essere il nostro mondo a venire se non riprendiamo con forza la capacità di dare nome alle cose e costruire identità, individuali e collettive, a partire da una ritrovata nominazione di quanto accade nell’incontro tra mondo pulsionale e realtà.
Nel dire “realtà” specificherei “realtà storica”, poiché quello che è accaduto ha mostrato quanto la fatica del pensiero occidentale – che fin qui ci ha accompagnato conferendoci identità collettiva – possa essere facilmente dissipata se non si presidia con la dovuta energia questa eredità che può, forse, non piacere del tutto, ma rappresenta la nostra appartenenza e il nostro legame con ciò da cui proveniamo.
Come tutte le eredità, ci obbliga a pensare al nostro essere figli, alla nostra condizione di generati e a come ci collochiamo nello spazio temporale che attraversa le generazioni legandole tra loro. Spazio dove la coscienza del tempo storico che trascorre diventa incontro con le fantasie sulla sessualità: come potremmo esistere se all’origine non ci fosse l’incontro tra maschio e femmina, tra padre e madre? Come potremmo dare senso al susseguirsi degli eventi se non ci fossimo, prima, incontrati col tempo della coppia, della relazione, il tempo necessario a fare accadere le cose?
Non è un caso se la deriva collettiva degli ultimi anni è stata caratterizzata da una parte dal misconoscimento dei processi storici – che legano tra loro i fatti all’interno di un imprescindibile racconto dove esiste un prima e un dopo, una causa ed un effetto – dall’altra dall’uso disinvolto di un modello sessuale del potere che ha recuperato i simboli e il linguaggio di una cultura fallocentrica che qualcuno si era illuso appartenesse ormai al passato.
Certo, si può dire che l’accoppiata di sesso e potere è spesso comparsa nel corso della storia, a connotare i momenti in cui si voleva con forza porre l’accento sulla dimensione fallica del potere politico. Come pure si può dire – ed è stato detto, quasi a giustificazione di quel che accadeva – che da sempre le belle donne si accompagnano agli uomini di potere, nella reciproca ricerca di conferma del proprio valore sociale.
Quel che è accaduto è, però, profondamente diverso ed ha segnato una vera rivoluzione dell’immaginario collettivo, ponendo altresì la domanda: è stato l’establishment politico a orientare il sentire collettivo o, viceversa, si è limitato ad intercettare un bisogno che circolava?
Come psicoterapeuta che, quotidianamente, incontra gli aspetti meno organizzati della psiche, credo che la questione abbia grande rilevanza, poiché quello che è accaduto ha messo in luce le angosce, individuali e collettive, riguardo ai temi sessuali, mostrando una volta di più che la politica non è solo l’organizzazione nella spartizione delle risorse produttive, ma è la forma con la quale i fantasmi attorno a maschile e femminile s’impongono al gruppo umano.
Sono fantasmi che attengono al riconoscimento e all’attraversamento della differenza sessuale, con tutto ciò che ne deriva: fantasie di mancanza, di castrazione, di invidia, che esprimono la fatica a superare l’onnipotenza originaria per entrare in una dimensione relazionale che riconosca innanzi tutto la differenza tra generazioni.

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Pensiero del Presente / Alcune considerazioni sull’invidia di genere

62.copertine-baldo.invidia

Abstract: Sempre più spesso nelle sedute di psicoterapia viene portata, soprattutto dai giovani, la difficoltà a trovare una personale identità di genere che rappresenti con forza e stabilità il personale progetto e la personale fecondità psichica. Sarebbe un errore considerare questo come espressione di un disagio individuale: è piuttosto espressione di una incapacità collettiva a trovare un nuovo lessico e una nuova semantica per dare nome agli assetti libidici, declinati nella liquidità della società attuale. Il perturbante tema della differenza, fondamento della costruzione dell’identità del soggetto, richiede di superare le modalità orali di relazione, oscillanti tra avidità e invidia, che si agitano non solo sulla scena della psiche individuale, ma su quella culturale e politica.

In questo nostro tempo, dove la liquidità dei nuovi assetti economici diventa fondamento di una nuova complessità sociale, mi chiedo se alcuni temi, sempre più spesso portati nelle psicoterapie, possano essere stimolo per una rilettura di alcuni passaggi della teoria psicoanalitica. Mi riferisco in particolare al tema dell’invidia di genere le cui vicissitudini, sia sul piano teorico sia su quello clinico, sembrano esprimere con efficacia la storia della difficile relazione tra i sessi.
Se consideriamo l’invidia del pene come unica via d’accesso all’identità femminile, attraverso l’accettazione della castrazione, potremmo essere d’accordo con chi ha letto tale teoria come espressione della cultura androcentrica dell’epoca. Se, però, consideriamo i contributi successivi dati dalle psicoanaliste che hanno proseguito questo filone di ricerca, possiamo dire che l’invidia del pene è solo l’espressione, sul versante femminile, di un’invidia più generale per il sesso dell’altro, il cui corrispettivo maschile è l’invidia per il genitale femminile.
Potremmo considerare l’invidia di genere come passaggio obbligato verso l’organizzazione dello sgomento di fronte all’alterità, tappa per la costruzione della propria identità sessuale, ma non solo. La differenza di genere, paradigma di tutte le differenze, angoscia poiché obbliga a riconoscere lo “straniero” e a riformulare la propria mitologia interpretativa della realtà interna ed esterna, individuale e storica.
Credo che solo partendo da questa ipotesi si possa comprendere il disorientamento di tanti pazienti di fronte ad una identità sessuale che faticano ad organizzare in una relazione progettuale e feconda. Sembra che il passaggio alla genitalità sia ostacolato dal sempre più difficile riconoscimento che l’incontro è possibile solo dopo aver rinunciato all’illusione onnipotente di poter avere ed essere tutto, come una cultura bulimica e confusiva suggerisce attraverso modelli culturali che anche la politica ha fatto propri.
Per entrare nello specifico dell’argomento vorrei portare un caso clinico. Si tratta di un maschio trentenne che si era rivolto a me per il ripetersi di attacchi di panico: da anni compromettevano la sua vita sociale e lavorativa e le precedenti terapie, anche farmacologiche, non avevano sortito alcun risultato. Quando la terapia con me era già avviata, il giovane aveva iniziato una relazione d’amore con una coetanea. Relazione molto complicata, che veniva frequentemente portata in seduta per i suoi complessi contenuti. Sembrava che la coppia avesse messo come posta in gioco non la ricerca del reciproco piacere e di un progetto condiviso, ma quella di capire come funzionasse la spartizione del potere. Non era certo una coppia tradizionalista e, anche dal punto di vista sessuale, non erano per nulla legati a stereotipi sociali. Avevano una buona consapevolezza che la parità nella coppia era un valore, come spesso accade alle coppie giovani e di buona cultura, tuttavia, nonostante questi presupposti più che apprezzabili, entravano in continuo conflitto su temi che riguardavano il reciproco riconoscimento sia come persone separate, sia come persone ciascuna portatrice di un genere sessuale, come se il superamento culturale delle tematiche relative ai ruoli tradizionali femminili e maschili avesse portato alla luce una originaria difficoltà a districarsi nelle differenze. Lei proveniva da precedenti relazioni esclusivamente omosessuali ed era la prima volta che aveva una relazione eterosessuale. Lui aveva avuto altre donne, ma con questa aveva provato per la prima volta una grande attrazione anche sul piano intellettuale. Si erano incontrati “alla pari”, ma proprio questo apriva a più profonde domande su cosa significhi essere femmina ed essere maschio e, ancor più, cosa significhi incontrarsi.
Sembrava che i ruoli, stereotipicamente distribuiti in attivi e passivi, maschili e femminili, si mescolassero in modo confusivo, creando frequenti occasioni d’attrito, poiché nessuno dei due si sentiva pienamente riconosciuto dall’altro nella propria parte desiderante, espressa da un’appartenenza di genere cui faticavano a dare forma. Questo ricadeva spesso nello spazio dell’intimità sessuale, dove compariva un disorientamento riguardo all’immagine di sé che, nella coppia, spesso riverberava in forme incomplete, deformate, spezzettate.

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Per una rilettura di “Senilità”: psicoanalisi, narrazione e cura nel pensiero di Svevo

61.copertine-baldo.svevo

I rapporti tra psicanalisi e letteratura sono talmente complessi che sembra sia impossibile poter esaustivamente cogliere i nessi profondi che legano queste due discipline fra le quali, da sempre, vi è un vivo interesse reciproco.
Vorrei qui limitare il discorso all’uso della psicanalisi, o meglio del suo linguaggio e delle sue strutture interpretative, in relazione alla critica letteraria.
Molto spesso la critica letteraria -ma anche quella che si applica al cinema o alle arti figurative – si avvale di strutture interpretative desunte dalla psicoanalisi che, utilizzata al di fuori del suo naturale habitat clinico, sembra essere in grado di offrire l’opportunità di svelare aspetti che, altrimenti, resterebbero nascosti.
È vero che la psicoanalisi nasce come strumento terapeutico, ma essa è anche un tramite di conoscenza secondo una teoria che può anche non essere condivisa, ma che comunque rappresenta uno dei possibili modi di leggere la realtà e, a maggior ragione, la realtà artistica, la produzione artistica, dal momento che in essa è quanto mai agevole riconoscere linee interne di percorso inconsce, passibili quindi di analisi del profondo.
L’impressione che se ne ricava è che queste due discipline si incontrino in uno spazio condiviso, abitato dalla comune ricerca del “capire” e del “dare significato”.
Il lavoro dello psicanalista consiste infatti nel “dare significato” a quel mondo interno che rischierebbe di restare inaccessibile o, peggio, utilizzabile solo con modalità patologiche, proprio come il lavoro del critico consiste nell’indicare i possibili modi di “leggere” un’opera, individuandone e portandone alla luce gli aspetti “segreti”.
Vi sono opere letterarie che con prepotenza si offrono a un’interpretazione analitica, o perché propongono personaggi dagli evidenti tratti patologici, o perché il loro intreccio induce a riflettere sulle dinamiche psicologiche, o, ancora, perché traspare in esse una ricerca dell’autore, più o meno consapevole, diretta verso le parti più profonde di sé.
Tra gli autori di opere siffatte rientra senza dubbio Italo Svevo: credo sia davvero impossibile leggere Svevo senza fare un collegamento con la psicoanalisi, se non altro per ragioni storiche, dal momento che la produzione sveviana si sovrappone cronologicamente a quella di Freud, il cui pensiero, come è noto, penetrò precocemente in Italia proprio nella Trieste sveviana.
Tuttavia, nell’individuare le ragioni dell’interesse reciproco fra psicoanalisi e letteratura, non va dimenticata quella che è certamente la meno riconoscibile, ma anche la più profonda, e cioè il fatto che la stessa psicanalisi può essere considerata un genere letterario basato sulla narrazione.
La psicanalisi, o le psicoterapie analitiche, si dipanano infatti secondo un filo narrativo, anzi si può dire che la psicoanalisi sia una narrazione, una narrazione del tutto particolare alla quale non interessa tanto il descrittivismo naturalistico, quanto la possibilità di individuare connessioni simboliche che introducano nella narrazione un elemento di conoscenza critica sulla quale fondare la possibilità di giungere alla meta finale che è la trasformazione di una struttura psichica.
Durante una psicoanalisi il paziente rivive e riscrive, e non già descrive, il “romanzo” della propria vita e, nel corso della narrazione, il paziente e il terapeuta sono chiamati al tempo stesso ad essere protagonisti ed osservatori.
Ecco che allora la psicanalisi solleva degli interrogativi relativi al senso del narrare: a cosa serve narrare ?
Quale è lo scopo del narrare?
È semplicemente portare fuori da sé quegli aspetti esistenziali che vengono percepiti come dolorosi o fastidiosi – per liberarsene – o è introdurre una possibilità di conoscenza trasformativa?
È proprio intorno a tali quesiti che si articola la differenza tra interpretazione analitica di un’opera letteraria ed opera letteraria di contenuto analitico.
La differenza sta, come si capisce, non tanto in ciò che si narra, ma nella qualità della narrazione; non consiste tanto nel descrivere una patologia, o semplicemente un carattere, quanto nel cogliere il nesso tra malattia e narrazione da una parte e narrazione e terapia dall’altro.
Da questo punto di vista Svevo è un autore che si può definire analitico, poiché la sua narrazione risponde a un buon numero di quelle caratteristiche che contraddistinguono la psicoanalisi.
Innanzi tutto egli, nel corso della narrazione, è osservatore, sa mantenersi lucido e critico, ma è anche protagonista, poiché il colore della narrazione è quello di una vicenda vissuta in prima persona (anche se formalmente “Senilità” è scritto in terza persona, a differenza della Coscienza di Zeno, che è un romanzo-diario).
Non solo, ma il tema centrale di “Senilità” è quello della narrazione, anzi di una narrazione mancata e, per traslato, di una terapia mancata e di una guarigione mancata.

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