“La sua biblioteca era ristretta. Col passar degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri…”

“La sua biblioteca era ristretta. Col passar degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere ed a evitare il superfluo. (…)  Da tempo cercava d’allontanare da sé la letteratura, quasi vergognandosi della vanità d’aver voluto essere, in gioventù, scrittore. Era stato svelto a capire l’errore che c’è sotto: la pretesa d’una sopravvivenza individuale, senz’aver fatto nient’altro per meritarla che mettere in salvo un’immagine – vera o falsa – di sé. La letteratura delle persone gli parve una distesa di lapidi del cimitero: quella dei vivi e quella dei morti. Ormai nei libri cercava altro: la sapienza delle epoche o semplicemente qualcosa che servisse a capire qualcosa. Ma siccome era abituato a ragionare per immagini continuava a scegliere nei libri dei pensatori il nocciolo immaginoso, cioè a scambiarli per poeti (…).”

(Italo Calvino)

Una distopia sorridente e inquietante

Giacomo Papi, Il censimento dei radical chic, Feltrinelli 2019 (pp. 141, euro 13)

Siamo dalle parti del “Bispensiero” del George Orwell di 1984, per cui “la menzogna diventa verità e passa alla storia”, e soprattutto della sua  “Neolingua”, che lascia spazio solo ai concetti più elementari vietando l’uso di molte parole; ma anche “la milizia del fuoco” di Fahrenheit 451 sembra far capolino in queste pagine, anche se qui di incendi di libri, ad opera dei detentori del potere almeno, non se ne vedono. Forse perché non sono tempi di tragedia i nostri, ma di commedia, e dunque per parlare della catastrofe culturale e politica è più appropriato un romanzo leggero, percorso da un umorismo che cattura fin dalla prima pagina (nonostante il fattaccio da cui si parte). Se infatti è vero che il buon racconto si vede dall’incipit – e lo deve credere certamente Papi, il cui primo romanzo non lasciava dubbi: Era una notte buia e tempestosa. 1430 modi per iniziare un romanzo (Baldini&Castoldi 1993) – ci siamo: “Il primo lo ammazzarono a bastonate perché aveva citato Spinoza durante un talk show”. “Nel mio programma – aveva precisato il conduttore – non permetto a nessuno di usare parole difficili. Le pose da intellettuale sono vietate”, e non era stato da meno il ministro degli Interni: “Si vergogni! Lei fa citazioni mentre il popolo muore di fame”. Ovvio che anche i social facciano la loro parte: “Muori tu e quel culattone di Spinozza!”

Una distopia dunque, di quelle però che ti dicono che il futuro è adesso, non solo perché il “primo ministro degli Interni” (si dice così, essendo che nel nuovo sistema le due figure coincidono…) ha curriculum, modi e fattezze che ricordano da vicino Lui – l’attuale primo ministro degli Interni, appunto – ma anche perché il timbro riprodotto in quarta di copertina ci assicura che “Questo libro non contiene parole difficili”. Lo assicura l’“Autorità Garante per la Semplificazione della lingua Italiana”, e lo dimostrano le cancellature di parole da intellettuali che costellano il testo.

La prima vittima è un attempato professore, esemplare in via di estinzione di quanti hanno “assistito allo sbriciolarsi del loro posto nel mondo senza intuirne le ragioni”: gente ostinatamente legata a modi di pensare novecenteschi – direbbe Baricco –, “parassiti” dicono i più nella Milano in cui la storia si svolge. E chi li guarda con simpatia, se non con rispetto, inutile dirlo: è un buonista, così come – ci viene opportunamente ricordato – quelli che si opposero alle leggi razziali nel 1938 i fascisti li chiamavano ‘pietisti’”.

I buonisti, comunque, sono pochi, sempre meno: il Popolo è unito nell’odio contro gli intellettuali, o meglio: i radical chic, riconoscibili dai maglioni di cachemire che portano ma soprattutto da tutti i libri che si tengono in casa. Nessun pogrom però: l’abbiamo detto, qui siamo alla commedia. Meglio un censimento del radical chic, che li protegga dal giusto furore popolare (sempre che versino la dovuta quota per risultare iscritti: come ad un albo professionale, insomma).

Di qui in poi al lettore resta solo di aspettarsi ad ogni pagina la trovata che tiene in vita fino alla fine il gioco del cosa succederebbe se davvero si arrivasse a questo punto. Si sorride quindi, ma sempre più amaro: il cosa succederebbe si confonde spesso con un inquietante cosa succederà, se non con un cosa sta succedendo. Come quando si arriva al “decalogo” contro la complessità, ad esempio: la complessità “umilia il popolo”, “è noiosa, quindi inutile”, ma soprattutto “è un’arma delle élite per ingannare il popolo”. Dunque, semplificazione della lingua, epurazione di centinaia di lemmi dal Devoto Oli (non dallo Zingarelli, “scartato a causa del nome imbarazzante, tanto più nella versione con Cd-Rom”), nuova grammatica (57 pagine in tutto: al primo posto, l’abolizione del congiuntivo). E intanto, le vittime? gli intellettuali, i radical chic? Be’, c’è da dire che, se si attengono a un comportamento ironicamente prudente non se la passano male. Parlano di politica e letteratura come gli altri di macchine e di sport: niente di più che “una differenza di argomento, non di sostanza”. Ma non tutti sono così: una minoranza continua ad esistere. Quella di chi è convinto che “non è vero che gli intellettuali non servono a niente”: servono a “sentirsi meno soli”, perché “le cose dentro i libri dimostrano che le cose dentro le persone si assomigliano”, e la cultura, più in generale, “è una scommessa sul fatto che alla fine ci si possa capire.” Una scommessa che vale la pena di continuare a giocare anche se “hanno vinto loro, per un po’”. Nel frattempo, conviene non dimenticare le parole incriminate, e dunque abolite. Per “custodirle”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il tempo della limonaia

Il fragore dei magli si ode sin dall’ingresso nel paese, ma non giunge fin là, alle limonaie vicine al porto: Toscolano non è paese di giardini d’agrumi. È Gargnano quello, dove se non sono carbonai o pescatori sono giardinieri, e vivono quieti il loro tempo, segnato dal sole e dalla luna, e dalle stagioni. Qui no, qui a dir le ore, estate e inverno, notte e giorno, è l’arrivo da Desenzano dei barconi carichi di stracci per far carta, il passo dei mulattieri coi loro animali che van lungo il fiume a portar sacchi di quella materia per poi riportar di nuovo giù al porto risme candide, e a contare i minuti non è il battere degli orologi ma quello dei magli, che di quegli stracci fan la poltiglia da cui si trae il foglio.

Laggiù alla Capra però, come si dice la piana di ulivi che stan sulla parte sinistra della penisola fatta dal fiume, è ancora la campana della parrocchiale a marcare il tempo, perché oltre la chiesa non ci sono cartiere ma limonaie, le poche che prosperano nel paese della carta.

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Il tempo della limonaia (audio)

L’attrice Francesca Garioni legge Il tempo della limonaia, di Carlo Simoni, in occasione della manifestazione “Giardini d’agrumi” (chiostro della Chiesa di S. Francesco a Gargnano, 27 aprile 2019):

Carlo Simoni: Il tempo della limonaia

Per leggere il racconto di Carlo Simoni clicca qui.



Francesca Garioni
presentazione
curriculum

Quanto è diverso il diverso?

Angelo Villa, L’origine negata. La soggettività e il Corano, Mimesis 2018 (pp. 142, euro 14)

Sapersi confrontare con il diverso, accoglierlo nella sua diversità sono disposizioni che, più o meno implicitamente, implicano l’esigenza di sapere quanto il diverso è tale, come e in che cosa, sapendo bene che è proprio in questa esigenza, in sé legittima ma bisognosa di essere portata alla luce senza ambiguità, che trovano terreno fertile pregiudizi, fantasmi identitari, notizie nella maggior parte dei casi approssimative e parziali.

Nella nostra cultura, la cultura occidentale, il tema della soggettività occupa un posto centrale, e questo tema è ormai inscindibile dalle concezioni introdotte da Freud e dalle elaborazioni successivamente fornite dalla psicoanalisi.

Confrontarsi con la diversità – psicologica, culturale, religiosa, antropologica – significa innanzitutto, per noi, considerare la differenza di atteggiamenti rispetto alla soggettività intesa come rivendicazione della soggettività stessa, di quella realtà “intimamente connessa con quello che un singolo individuo umano è o ritiene di essere”. Una soggettività frutto di interpretazione, quindi, ma di un’interpretazione che non può dimenticare di essere sempre condizionata dal fatto che l’“Io non è padrone in casa propria” e la sua intenzionalità è in buona parte rimossa: è piuttosto l’inconscio ad esprimere, nei modi che gli sono propri, “una tensione che anela alla ricerca di una verità, non appagandosi delle menzogne – difese, coperture, ideologizzazioni – che l’Io subdolamente gli propina” e smascherando impietosamente l’illusione dell’esistenza di un “soggetto consistente, presente e identico a sé”.

Concentrando l’attenzione sulla cultura – sulle culture – “di matrice islamica”, l’autore segnala due circostanze decisive: in primo luogo, la soggettività appare in quest’ambito “un tema poco frequentato”, soprattutto – occorre aggiungere – se a prevalere è, come in effetti pare sia oggi, una lettura dogmatica, ostile a un atteggiamento di interpretazione del Corano. Testo che, comunque, risulta caratterizzato da aporie e contraddizioni che lasciano adito alla visione di un dio che non ammette dialogo con l’uomo, e ad una realtà in cui questioni come quelle della paternità, della femminilità e più in generale della sessualità risultano rigidamente definite, una volta per tutte normate, e per molti aspetti non univocamente tematizzate. Senza che, sull’onda di simili constatazioni, si debba disconoscere la presenza, in questo testo “polisemico”, di passaggi che sembrano aprire a concezioni diverse e porsi con esse in un rapporto di compatibilità.

In secondo luogo, l’inconscio, luogo delle storie che hanno accolto e accompagnato il soggetto dall’inizio della sua esistenza nel mondo, è attraversato dai discorsi, dai desideri, dalle storie degli altri, dei familiari innanzitutto, e più in generale dalla cultura e dalla lingua che definiscono il contesto in cui il soggetto si è venuto a trovare. E il religioso, il tradizionale – nella loro accezione islamica non diversamente che in altre – possono risultare ostacoli al lavoro di analisi e di comprensione della realtà dell’individuo quanto “lo scientismo o la superficialità contemporanea”.

Non si tratta di postulare un’astorica e immutabile realtà umana, indifferente ai caratteri culturali e religiosi nei quali si declina, ma di riconoscere come sia proprio dell’umano interrogarsi circa gli “enigmi che assillano la vita di [ogni] individuo nel suo impatto con l’esistenza, con il trauma rappresentato dalla sessualità”: “ciascun essere umano è erede della propria storia, la quale è inevitabilmente marcata dalla cultura d’appartenenza. La questione riguarda meno la suddetta cultura che non la relazione che il singolo realizza o permette sussista tra la stessa e il prender forma di un percorso di rilettura della medesima.”

Attorno a queste assunzioni di fondo si dipanano analisi e considerazioni storiche e filosofiche che mettono in relazione la religione musulmana con quelle ebraica e cristiana, oltre che ampie digressioni in ambito psicoanalitico che spaziano dal pensiero di Freud a quello di Lacan. Nella consapevolezza che, se sono “semplificazioni” quelle degli islamisti che piegano la loro religione a un’“idéologie de combat”, altrettanto lo sono i “pregiudizi occidentali rispetto all’Islam”: tutti, nel tempo della mondializzazione, siamo “colti di sorpresa ed egualmente impreparati” davanti ai fenomeni inediti e spesso traumatici che, in misura e secondo prospettive diverse, viviamo, ma a tutti si offre la possibilità, anch’essa inedita, della “concretezza di uno scambio” nel quale si fanno “più permeabili le barriere” fra culture diverse e, nello specifico, fra “il sapere freudiano” e la religione musulmana. “Può essere – si domanda in conclusione l’autore – questa crisi, storicamente in atto, l’occasione propizia affinché anche per chi non ha avuto modo, per ragioni cosiddette culturali, di confrontarsi con la realtà del proprio inconscio si materializzi la possibilità di saperne qualcosa?”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Per un’ecologia filosoficamente intesa

Natan Feltrin-Federica Lovato, Umani, prede e predatori, Graphe.it edizioni 2018

Daniele Palmieri-Nicola Zengiato, Il mondo dell’animalità: dalla biologia alla metafisica, Graphe.it edizioni 2018

Ci sono ambiti di discorso che chiedono un pensiero radicale, che esigono di essere prodotti e animati da un pensiero critico alieno da prudenze e distinguo. Quello attinente al rapporto che intercorre tra noi e gli animali, e più in generale all’ecologia e alla crisi dell’ambiente, è uno di questi. E quello quelloquellquellad un’”ecologia filosoficamente intesa” – di cui i primi due volumi della collana “Semi per il futuro” offrono prove illuminanti – appare allora un passaggio obbligato. Non si tratta tanto di ripercorre la storia del pensiero filosofico per rintracciarvi assonanze significative e ascendenti autorevoli – un approccio per altro ineludibile, lo dimostrano studi come Filosofia della crisi ecologica, di Vittorio Hösle (Einaudi 1992) –, quanto di confrontarsi  con espressioni disinvoltamente adottate dal linguaggio giornalistico e con concezioni che, come quella antropocentrica, nonostante siano state da tempo sottoposte a critiche circostanziate, risultano nei fatti largamente egemoni.

“Antropocene” è una di quelle espressioni, e non a caso Natan Feltrin si concentra su di essa, depurandola, in primo luogo, di ogni possibile ambiguità: se alla collisone della Terra con un asteroide è generalmente fatta risalire l’estinzione di più del settanta per cento delle specie, sessantacinque milioni di anni fa, oggi, “i Sapiens, e in particolar modo i più ricchi e oltracotanti tra essi, incarnano il micidiale asteroide”, e occorre dunque mettere a fuoco il senso profondo del termine, e correggerlo: l’era “in cui il pianeta esisterà quasi esclusivamente grazie  noi e per noi” merita piuttosto di essere definita “Eremocene, l’Era della Solitudine”. Della solitudine di uomini che avranno totalmente sottomesso il wilderness.

Ne deriva la necessità di andare “oltre gli ideali di preservazione e conservazione” imboccando una strada inedita: quella del rewilding, “un processo antropologico in cui Homo sapiens riscopre il suo essere Animale co-partecipe e co-responsabile del proprio ambiente. Un percorso, dunque, di liberazione. Liberazione dell’animale uomo dalle catene che si è autoimposto nel momento in cui domesticando il mondo domesticava, in prima istanza, se stesso”. Vittima del proprio “orgoglio di specie”; in realtà, mai davvero emancipato dalla paura atavica della natura, dell’alterità animale, una paura, e un odio vendicativo, maturati  quando gli uomini, lungi dall’essere “predatori alfa” erano al tempo stesso prede e predatori. Uscire finalmente da questo non detto, sotterraneo e pure potente nel forgiare i comportamenti – quello alimentare innanzitutto – è condizione imprescindibile per non “sprofondare nel nichilismo di cui la civiltà globale non è che la maschera”, per segnare una discontinuità netta nel “processo d’estraneazione del genere umano dalla natura”, come sottolinea Federica Lovato a conclusione del suo breve densissimo saggio sulla storia della caccia “Dalla predazione dell’animale alla distruzione dell’ecosistema”: un processo sfociato in “un vero e proprio antagonismo”, dal momento che “l’uomo, oggi, sembra aver assunto che lo sviluppo sociale possa avvenire solo a spese dello sviluppo naturale”.

Mettere in luce un termine come Antropocene porta inevitabilmente all’esame di concezioni radicate, come si diceva: l’antropocentrismo, da questo punto di vista, merita di essere indagato – avendo presente l’insegnamento decisivo di Jacob von Uexküll, sul quale offre un utile contributo Daniele Palmieri – a partire dai due dogmi che sembrano renderlo inattaccabile, ritenendosi impossibile uscirne, obiettivo del resto velleitario in quanto ispirato e conformato comunque entro un quadro di riferimento ineludibilmente antropocentrico. Non si tratta di aggiungere alle molte formulate nuove perorazioni avverse all’antropocentrismo. Occorre invece – spiega Nicola Zengiaro – riuscire ad assumere che “lo stesso mondo – di cui ci pretendiamo più o meno implicitamente al centro – è vissuto da esseri aventi schemi concettuali propri e perciò differenti punti di vista che determinano diverse realtà”: è “attraverso la comparazione percettiva (che) usciamo dal primo dogma”, così come ci liberiano del secondo passando “da strumenti differenti da quelli che comunemente sono accettati come distintivi e specifici di Homo sapiens”, ossia “il ragionamento logico e il linguaggio”. Il discorso va seguito nel suo dipanarsi serrato, e in certi punti senz’altro impegnativo, per arrivare comunque a un’immagine risolutiva – e non estranea all’esperienza di molti – a cui proposito Zengiaro richiama Filosofia dell’animalità di Felice Cimatti: “«Accettare di farsi guardare dall’animale significa aprire la porta a questa molteplicità di viventi”». E’ questo il vero movimento che dev’essere attuato dall’essere umano per uscire dall’antropocentrismo. Significa aprirsi all’evento dell’incontro tra il proprio corpo e l’alterità”, alla possibilità di “comprendere noi stessi attraverso la sensazione di essere guardati dal mondo.”

Lo diceva anche John Berger, quando si chiedeva Perché guardiamo gli animali (Il Saggiatore 2016): “l’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiare lo sguardo degli animali”, somiglianza e diversità convivono nell’attimo in cui vive, sospesa, questa muta reciprocità. Si tratta di accettarla, di non sfuggirla, e allora si comprenderà che “l’animale ha segreti che, a differenza dei segreti delle caverne, delle montagne, dei mari, si rivolgono specificamente all’uomo”.

Una seconda verità

Claudio Coletta, Prima della neve, Sellerio 2019 (pp. 182, euro 13)

Andare per boschi per non doversi un giorno accorgere che non si è vissuto – così Thoreau – o lasciare la città e raggiungere la montagna, per schiarirsi le idee, alla Cognetti: per cercare una verità che giù, fra i rumori e le chiacchiere, si può solo sospettare esista. Ma nel romanzo di Coletta la montagna è un passo obbligato, e non è ospitale. È lavoro duro dietro alle mucche, è freddo, nebbia. Ma è comunque là che occorre andare. Solo là si potrà chiarire il “mistero” di “come certe cose accadano in un preciso momento e non in un altro” e scoprire che “esiste una seconda verità” fra “le pieghe di questa storia, sotterranea e sfuggente”: la storia di due amici, legati da un’amicizia tanto stretta da sconfinare nel patologico, e di due donne, una sorella e una moglie, protagonisti di un romanzo che alterna alla loro vicenda l’evocazione degli anni di piombo, ricordo bruciante per chi li ha vissuti da protagonista e adesso, passati gli anni, non sa spiegare il senso delle proprie scelte se non in negativo: “non c’era altro, se non l’eroina. Metà dei compagni morti di overdose, gli altri in giro come tanti lazzari, a vendersi per una dose tagliata chissà come, le braccia massacrate dai buchi. Hanno invaso l’Italia con quella merda, hanno distrutto un’intera generazione. Non abbiamo avuto scelta, la verità è questa”. E invece no, non era destino che le cose andassero come sono andate: “Come sarebbe bello se davvero esistesse il destino, invece della caotica sequenza di coincidenze, decisioni, azioni, che se ne fregano della nostra volontà e delle nostre speranze.” Solo i sentimenti restano nella casualità insensata cui sembra ridursi la storia di ognuno, sono forse solo quelli a darle una direzione, o a cercare di farlo. Anche quando non se ne sa, o non se ne vuole comprendere il messaggio. Una storia drammatica, e triste, immersa in un disincanto pensoso, raccontata con la leggerezza delle parole di tutti i giorni.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Una reciproca, irrimediabile delusione

Lisa Ginzburg, Pura invenzione. Dodici invenzioni sul Frankenstein di Mary Shelley, Marsilio 2018 (pp. 109, euro 12)

Se della vicenda conoscete solo la trasposizione cinematografica di Frankenstein Junior, niente paura: anche l’autrice è partita da lì, non sapeva nulla del libro di Mary Shelley prima di leggerlo, rileggerlo e darcene una lettura che non è solo un’analisi originale, ma soprattutto il tramite di una nuova storia che riflette in un gioco di specchi la vicenda della scrittrice inglese, quella dei suoi personaggi – sia il medico visionario che il “Mostro” – e la vicenda dell’autrice stessa. Un gioco di specchi che si annuncia sin dalla copertina, dove titolo e sottotitolo si dispongono specularmente, e si traduce in una serie di rimandi, pertinenti quanto inattesi: la “straziante solitudine” del Mostro sono analoghi all’autocommiserazione di Frankenstein (che è il medico, non come spesso si crede, la sua creatura): “I toni derelitti usati da entrambi sono speculari (…) il creatore lamenta la sconfitta, le conseguenze della propria hubris; il Mostro piange l’amore che gli è mancato – quello di una donna, ma anche quello di un demiurgo/padre.” Sennonché quest’ultimo non riconosce nel Mostro la propria creatura, che a sua volta non può quindi riconoscere nel suo creatore un padre: è da una tale “reciproca, irrimediabile delusione”, che nascono il risentimento, la rabbia. Dei protagonisti. Ma anche di lei, Mary Shelley, rimasta per sempre segnata dalla ferita inferta dalla morte della madre, ferita e indotta a un risentimento che solo nella “pura invenzione” sa trasfigurarsi e dar luogo al lungo racconto che la renderà capace di affrontare la propria condizione di “brava figlia di due persone di preclara fama letteraria”. Ed è qui che anche l’immagine della Ginzburg entra nella storia: “che altro potrei fare – si chiede – vista la mia storia e l’ambiente in cui sono cresciuta?” Che altro se non scrivere? Gli interrogativi che si pone Lisa Ginzburg – nipote di Natalia, figlia di due storici come Carlo Ginzburg e Anna Rossi Doria – sono in tutto simili a quelli con cui si era misurata Mary Shelley: “proprio perché è tanto poco sorprendente che lo faccia, come riuscire, come trovare un modo, un cammino che sia davvero mio?”. E come sentirsi legittimati a seguire questa strada se non ottenendo il riconoscimento di chi quella stessa strada ha, di fatto, indotto a intraprendere? Solo cinque anni dopo la pubblicazione di Frankenstein, il padre di Mary le comunica la propria ammirazione: “Io – confessa Ginzburg – simile legittimazione non l’ho avuta: forse anche per ciò tanto mi emoziona ricordare come l’ho trovata in mia madre, e viceversa sono colpita quando riscontro nelle storie di altri l’incoraggiamento da parte dei loro padri. Basica invidia, la mia: sentirsi appoggiato nei propri talenti, e prima ancora, nelle inclinazioni, sempre, è apparso il dono più grande, il miglior battesimo che si possa ricevere da un genitore.”

Dall’intrico dei richiami e delle analogie in cui il lettore si trova coinvolto, sono le motivazioni e la possibilità stessa di scrivere ad emergere e precisarsi in approssimazioni successive e sempre più stringenti in un libro che nasce dall’incontro con un altro libro, dal quale l’autrice si lascia attraversare ingaggiando un corpo a corpo con la vicenda e le parole di un’altra scrittrice: un caso esemplare di quel lasciarsi leggere dal libro che si sta leggendo di cui ha recentemente scritto Massimo Recalcati (A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli 2018).

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

“[L’arte di narrare] si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado d’incontrare persone…”

“[L’arte di narrare] si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi vorrebbe sentirsi raccontare una storia.”

(Mario Luzi)

Amiamo le nostre ossessioni

Nadia Terranova, Addio Fantasmi, Einaudi 2018 (pp. 202, euro 17)

A che punto si è nella vita: forse è questo che dei loro protagonisti vorremmo i romanzi ci dicessero, e il racconto fosse lo spazio necessario per dirci delle ragioni e dei percorsi che li han portati lì. Leggere romanzi è anche questo: confrontarsi con le storie di altri per ricavare spunti utili a far luce sulla propria, a farsi un’idea del punto cui ciascuno di noi è arrivato.

La vita di Ida è di quelle segnate da un prima e un dopo. Lei è nel dopo, ma non sa dimenticare il prima né tanto meno la linea che ha separato le due parti in cui la sua esistenza si è divisa. Ci sarà uno stacco ulteriore, una seconda cesura capace di restituirle una vita sua? Il titolo ce lo fa pensare, l’inizio no: la madre l’ha chiamata a Messina perché ha deciso di sistemare la casa in cui la famiglia abitava, in cui lei ha continuato ad abitare; in cui ha abitato anche il marito, il padre di Ida –fino al giorno in cui, senza preavviso, se n’è andato, è scomparso, annientato dalla depressione – e anche la figlia ha abitato, prima di trasferirsi a Roma, trovare un lavoro (scrive “finte storie vere” per la radio) e sposarsi, con un uomo gentile, con il quale però il desiderio si è esaurito. E il desiderio, quando si è incrinato, non si può “rattoppare”, neanche se si è ancora giovani, poco più che trentenni, e quel che resta sono allora la tenerezza, la comprensione, la solidarietà. Perché i matrimoni, tutti i matrimoni si arenano “imprigionati nella pretesa di avere accanto un’unica persona a cui abbiamo chiesto di farci da amante, compagno, familiare, amico, per poi assistere devastati all’inevitabile franare di una di queste definizioni o di tutte insieme.” Sono parecchie le pagine riservate al tema del rapporto fra uomini e donne, ma non è, questo, l’unico fulcro attorno al quale la narrazione si addensa: la madre ha chiamato la figlia per svuotarla, quella casa, non solo per sistemarla in vista di una possibile vendita. E qui emerge il discorso sugli oggetti, e sul loro essere appigli essenziali, veicoli imprescindibili della memoria: “Non voleva che un giorno potessi rinfacciarle di aver dato via i miei oggetti, bisognava che tornassi per scegliere cosa lasciar andare. Pensai che era facile, perché, a parte una scatola di ferro rosso custodita in fondo a un cassetto, non tenevo a niente.” Una scatola di ferro rosso: “dal momento in cui un oggetto compare in una narrazione, si carica d’una forza speciale”, notava Calvino, ed è questo il caso, come scopriremo nelle ultime pagine. Ma prima di arrivarci occorre attraversarne altre, pervase da un dire teso, accorato, incerto della propria necessità eppure costretto da un bisogno di ricostruire, capire, dissezionare i sentimenti, evocare fino allo stremo quel passato che non sa passare, quel lutto non elaborato dalla madre e tanto meno dalla figlia, e tuttavia  marcando passi avanti, sempre precari  ma capaci di fissarsi in frasi, in immagini che sostanziano la vicenda, la rendono unica, ne mettono in luce aspetti che vanno oltre di essa e ci raggiungono. A partire, appunto, dai passi dedicati alle cose che ci seguono nella vita, che conserviamo e finiscono per assumere la fisionomia di “speranze inutilizzate”. Perché “la vita non si fa con i residui”, e gli oggetti, anche i più cari, i più evocativi, “non sono affidabili”, e “i ricordi non esistono, esistono solo le ossessioni”. E ossessivo è il dolore della perdita del padre: “Hai permesso al tuo dolore di divorarti – dice a Ida l’unica amica rimasta nella città natale – e la tua ferita è diventata più grande di te. Vivi come una schiava, sei la schiava di quello che ti è successo”. E lo ammette la stessa protagonista: “Amiamo le nostre ossessioni, e non si ama ciò che ci rende felici”.

“Una diade ossessiva” è anche quella formata da madre e figlia: “sbranarci era una forma d’intimità”, riconosce Ida, che ha capito “cos’è davvero una madre: qualcosa da cui non esiste riparo. Dicono che una madre dà tutto e non chiede niente; nessuno dice invece che chiede tutto e dà ciò che non chiediamo di avere.”

Scrivere allora. Quelle storie per la radio: “io riuscivo a tollerare il dolore solo scrivendone, e trasformandolo in invenzione potevo trovare quella pace che nella quotidianità mi mancava”; “i fatti scorrono accanto a noi mentre ci illudiamo, un giorno, di dominarli. Ecco perché mi rifugiavo nelle mie finte storie vere: su di loro io esercitavo una signoria assoluta. Di quello che scrivevo ero sovrana. (…) Scrivendo, mi illudevo di essere autarchica.”

Non dalla scrittura però ma da un oggetto, anzi dai due oggetti riposti ventitre anni prima in quella scatola rossa, verrà la liberazione: dalla pipa appartenuta al padre e dalla sua voce, registrata in un’audiocassetta. Perché sono l’odore e la voce, “le due tracce più volatili”, a riportarci la vicinanza di chi è assente. Una vicinanza che può tuttavia risolversi nella distanza necessaria per vivere, finalmente.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La lezione attuale e opportuna di un grande scrittore

Giuseppe Pontiggia, Le parole necessarie. Tecniche di scrittura e utopia della lettura, Marietti 1820, 2018 (pp. 107, euro 9,50)

“Contribuire alla formazione di una coscienza del linguaggio che sia insieme etica e retorico-espressiva”: i corsi di Pontiggia – di cui il libro offre brevi significativi saggi – avevano di mira “l’acquisizione di un linguaggio responsabile”, non per questo disposto a rinunciare a convincere (“vincere con l’accordo dell’altro”) grazie “alla persuasione in una duplice valenza: psicologica ed estetica”. Che è come dire: si tratta di scegliere con accuratezza le parole e usarle a proposito, con rispetto, in primo luogo, e poi combinarle senza disdegnare il ricorso all’arte della retorica, un’arte ingiustamente assimilata all’ipocrisia o all’inutile sfoggio: di fatto, non più riconosciuta nelle sue valenze positive e dunque dimenticata dalla scuola (un po’ come la paziente pratica della scrittura manuale). E, prima di esser dimenticata, osteggiata dalla cultura idealistica che assimilava la retorica ad una tecnica, ossia ad un sapere minore e puramente strumentale.

Discorsi, quelli di Pontiggia, che suonano tanto attuali da apparire stridenti di fronte alle semplificazioni linguistica e alla povertà argomentativa dell’odierno linguaggio pubblico (solo pubblico? Come parlano fra loro i giovani, soprattutto sui social?). L’autore stesso, del resto, era consapevole del “deterioramento del linguaggio”, di cui “l’invadenza dei gerghi”, dei linguaggi specialistici è un fattore decisivo: linguaggi che rappresentano “una scorciatoia pericolosa”, che contraddice la capacità del linguaggio di “esplorare esperienze nuove e diverse”, sottintendendo un “accordo preliminare” quanto molto spesso inesistente tra chi parla e chi ascolta.

D’altra parte non si può insegnare a scrivere, non c’è scuola di “scrittura creativa” che possa far diventare scrittore chi non possiede quella vocazione alla scrittura che è tanto indefinibile quanto indispensabile. Non si nasce scrittori, ma lo si diventa per vie che l’insegnamento non può artificialmente riprodurre. È meglio allora concentrarsi sul possibile, sul “migliorare la qualità espressiva” ad esempio, anzitutto studiando modelli di scrittura efficace, individuando i meccanismi ad essi sottesi, e poi passando in rassegna gli errori più comuni, e non rifuggendo da una critica reciproca dei testi che sappia indicare senza infingimenti e genericità che cosa va bene e che cosa non va. 

Scrivere, ma anche parlare: non sappiamo far bene né l’una né l’altra cosa, e non conviene prendere esempio da molti intellettuali che parlano “come libri stampati” e “dunque non parlano. Non si servono della parola con energia e convinzione.”  Quanto ai “nostri politici”, osserva Pontiggia, “molte volte non sono all’altezza” della “forte educazione retorica” che posseggono (e qui – solo qui, ma occorre riconoscerlo – il discorso appare decisamente datato…).

Non si scrive e non si parla soltanto, comunque: si legge, o converrebbe farlo: “Pontiggia – osserva Daniela Marcheschi nella sua introduzione – insegna a leggere e nello stesso tempo offre indicazioni per scrivere” e, offrendo indicazioni per scrivere, contemporaneamente insegna a leggere”. Ma ha ugualmente presente la dose di velleitarismo che inevitabilmente si annida nelle campagne di promozione della lettura: “perché il libro non è, come la carne, una tentazione universale. È una vocazione individuale”, ed è altamente “improbabile che il libro possa diventare di moda”. Piuttosto, “se c’è una moda che il libro può perseguire è di essere orgogliosamente fuori moda.”

La scrittura e la vita

Annie Ernaux, La vergogna, L’orma 2018 (pp. 125, euro 15)

“Ho riportato alla luce i codici e le regole degli ambienti in cui ero rinchiusa. Ho inventariato i linguaggi dei quali ero impregnata e che plasmavano la mia percezione di me stessa e del mondo.” La drogheria dei genitori; la loro subalternità psicologica e culturale, “prova dell’esistenza di due mondi e della nostra inconfutabile appartenenza a quello di sotto”; la chiusura del paese, un mondo altro rispetto alla città solo fantasticata; il complesso di usi, norme, abitudini che scandiscono il tempo della giornata, dell’anno, della vita; l’orizzonte ristretto e gravato di precetti, detti e non detti, dell’istituto religioso che lei frequenta: il mondo della giovanissima Ernaux ci era noto dai libri che L’orma ha ripubblicato negli ultimi anni. In questo – già uscito da Rizzoli nel 1997 – un elemento nuovo si aggiunge senza potersi amalgamare al contesto. Né nel proprio mondo interiore né in quello che la circonda, la dodicenne sa infatti inscrivere la “scena di quella domenica di giugno”: “Mio padre ha voluto uccidere mia madre”, è la frase con cui inizia il romanzo. Non l’ha fatto, e tutto è continuato come prima. Tutto tranne un sentimento nuovo che costituisce l’unico, il più profondo fra la donna adulta, che ne scrive, e la ragazzina di allora: la vergogna. La vergogna che si è come rappresa in quella scena: se un fatto del genere è accaduto nella mia casa, “non sono più degna della scuola privata, della sua eccellenza e della sua perfezione.” Quello che è avvenuto, anche se non ha avuto conseguenze ulteriori, riduce all’isolamento chi ne è stato testimone: “L’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla”, e in essa “c’è questo: la sensazione che possa accaderci qualsiasi cosa, che non ci sia scampo, che alla vergogna possa seguire soltanto una vergogna ancora maggiore.”

Ma al di là dei fatti, del loro vissuto, dell’ambiente – e dell’epoca, perché anche in questo romanzo Ernaux sa dilatare la memoria individuale in quella collettiva – in cui si verificano, un altro itinerario di riflessione percorre come sempre le pagine di Ernaux: “non posso cominciare a scrivere davvero senza fare luce sulle premesse della mia scrittura”. Né è possibile adagiarsi nella suggestione del narrare. “Già solo dire quell’estate, o l’estate dei miei dodici anni, rende romanzesco ciò che all’epoca non lo era, non più di quanto lo sia per me, oggi, nel 1995, questa estate in cui sto scrivendo”. Scrivere non garantisce, di per sé, il guadagno di una visione in grado di gettare nuova luce sul passato: “sto iniziando un nuovo libro, mi sono assunta il rischio di aver rivelato tutto fin da principio. Ma in realtà non ho svelato nulla, se non i nudi fatti.” Perché, nonostante lo scopo dello scrivere questo romanzo sia quello di “ritrovare le parole attraverso le quali pensavo me stessa e il mondo circostante”, “la donna che sono nel ’95 è incapace di ricollocarsi nella ragazzina del ’52”. Occorre riconoscerlo: “non esiste un’autentica memoria di sé”. E cercare di contrastare questo dato, evocando il se stesso di un tempo, può avere un risultato paradossale: “Mi fa sentire e mi conferma la mia frammentazione e la mia storicità”.

Neanche quando si è coerenti, coraggiosi, essenziali come Annie Ernaux; neanche quando si dispone di una capacità di narrare e di narrarsi come la sua, neanche allora la vita accetta di risolversi nella scrittura, neanche allora la scrittura sa riscattare davvero la vita.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Scrivere di sé: le ragioni, le pratiche, i guadagni

Ludovica Danieli, Donatella Messina, A scuola di autobiografia. Gràphein, Mimesis 2018 (pp. 140, euro 12)

Il sottotitolo rimanda alla pratica alla quale la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari da vent’anni avvicina coloro che, secondo percorsi e gradi di approssimazione diversi, hanno individuato nella scrittura una risorsa per la vita e nello scrivere di sé la via per accedervi (“Il progetto di scrivere la mia storia ha preso forma quasi contemporaneamente al progetto di scrivere”, diceva Georges Perec). Una Scuola di scrittura autobiografica, quindi, che tuttavia non si può confondere con le numerose scuole di scrittura che al di là delle intenzioni, finiscono nella maggior parte dei casi per limitarsi a trasmettere regole e tecniche, più o meno efficaci.

I presupposti della Lua e le sue finalità traggono spunto dal pensiero di Duccio Demetrio e dalla sua concezione dell’autobiografia come cura di sé (come recitava il titolo del libro pubblicato alla vigilia dell’avvio dell’esperienza di Anghiari: Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Cortina 1996). “Un luogo accogliente, tranquillo, silenzioso” e la possibilità di godere di un “tempo per sé” sono dunque ciò che in primo luogo si offre: silenzio e solitudine, condizioni ma anche sostanza dello scrivere, insieme tuttavia allo scambio, a un confronto con gli altri improntato alla “cura”, intesa come forma della relazione, e alla sospensione del giudizio sulla propria e l’altrui scrittura. È lo “stare individualmente insieme” di cui parlava Bauman, la condizione di fondo che si persegue, il quadro entro il quale lo scrivere di sé può evitare il rischio del ripiegamento narcisistico e l’illusione dell’autosufficienza per consentire invece un avvicinamento al “nucleo centrale” che costituisce ognuno di noi, che ci fa simili e allo stesso tempo unici. Avvicinamento, mai compiuto disvelamento, perché la scrittura non ci restituisce una verità, oggettiva e inconfutabile, su noi stessi e la nostra vita, ma permette di individuare i nodi della nostra esistenza riattivando la memoria, rivisitando i ricordi, recuperando la dimensione collettiva entro la quale si sono formati.

Non è un’operazione semplice, attuabile a partire semplicemente dal desiderio di scrivere di sé: incertezze e resistenze vi si oppongono. Occorre interrompere la “voce interna che sembra colonizzare il pensiero”, sono necessari il coraggio di esporsi e insieme l’umiltà di riconoscere il proprio limite per accettare e dar corso all’umana aspirazione a lasciare una traccia della propria storia.

È per questo infatti che si scrive, secondo molti che della scrittura hanno fatto il loro lavoro: si scrive perché si ha paura della morte, ma anche perché si ha paura della vita; si scrive per dare sbocco alla nostalgia dell’infanzia, ma anche per attenuare il rimpianto, o il rimorso, per le scelte non fatte, che hanno determinato la nostra vicenda quanto quelle fatte, e dunque per “avvolgere il dolore in una rete di parole”, per riuscire a sentirlo come parte ineliminabile e costitutiva di sé; si scrive dunque per trovare un senso della nostra esistenza. Ma anche per giocare: per giocare con la serietà di cui sono capaci i bambini.

Non solo il coraggio di osare e l’umiltà di farlo con senso della misura, occorrono per scrivere, ma anche introspezione e insieme presa di distanza da se stessi, quella sorta di “bilocazione cognitiva” che si rivela come un guadagno sul piano della conoscenza di sé, ma anche su quello più propriamente esistenziale, incoraggiando la rinuncia a collocarsi sempre “nel fare, nell’agire, nell’accelerare”, quando invece si tratta, scrivendo, di “rallentare, fino a fermarsi, rispettare le indecisioni, le interruzioni, le soste e gli intermezzi”. Una sospensione della logica dell’efficienza è necessaria, un sottrarsi al dominio della ragione strumentale che governa i nostri giorni.

Scrivere, come risulta evidente, è sempre riflettere sullo scrivere, ad Anghiari. È recuperare la fiducia, il rispetto delle parole in tempi nei quali sono spesso piegate ad assumere significati diversi o addirittura opposti al loro. È riconoscere la propria identità in tempi nei quali essa sembra dipendere da imprecisati quanto aggressivi distinguo fra noi e loro. Nella consapevolezza, sempre, che “la scrittura non salva ma ripara”, e “rivitalizza l’invito ad esserci, perché “la penna diventa l’oggetto simbolico attraverso i quale ci si riconnette al sentimento più vasto dell’arrendersi alla vita”.

L’unico modo per viverla davvero, forse.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

L’avventura di due sposi

Maurizio Maggiani, L’amore, Feltrinelli 2018 (pp. 200, euro 16)

Sì, il titolo mantiene quel che promette: disseminato in queste si può rintracciare un trattato De l’amour, l’amore per la “sposa” – una moglie c’è, una sposa la si sceglie ogni giorno. Un amore che si intreccia a far tutt’uno con l’amore per la vita, un amore per nulla astratto, fatto invece di quello che la giornata porta, del saper godere di quello che si ha, del sentirsi parte dell’insieme più vasto delle piante, degli animali. Senza dimenticare la fragilità di tutto questo, ma senza lasciarsi avvelenare i giorni dal senso della caducità, perché il “mancare” – di qualcuno che si amava, di cui si era amici – “è un fatto, una verità” e “mancare è una buona parola, è l’unico buon modo per spiegare che c’è la morte”. Del resto, “cosa ne sappiamo noi della morte, niente di niente…”. E allora di vivere, si tratta, all’insegna di un ottimismo pacato, estraneo ai toni di quello obbligatorio della pubblicità e dei consumi, fondato invece sulla certezza che “c’è sempre un buon modo di fare”, che “si può imparare un buon modo per fare ogni cosa”, e le cose possono sempre “prendere una piega inaspettata e promettente”.

La scrittura divagante di Maggiani, digressiva nei contenuti e a tratti apparentemente stralunata, è percorsa da un’ironia serena fatta non per prender le distanze ma, al contrario, per esercitare uno sguardo pregiudizialmente empatico nei confronti degli altri, ripercorrere momenti della propria vita, ricordare incontri, amicizie, amori: il tutto nell’arco di una giornata, di una comune giornata, illuminata dalla superiore intelligenza della gentilezza, della bonomia, della pietas, fin che viene sera e si cucina per lei, in ciò celebrando il “sacro” che ancora resta nel nostro mondo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

“Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self…”

“Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…”

(Italo Calvino)

Ti guardo, e lagrimo, / Venezia mia! / (…) La voce manca, / Sul ponte sventola / Bandiera bianca!*

Francesco Erbani, Non è triste Venezia. Pietre, acque, persone. Reportage narrativo da una città che deve ricominciare, Manni 2018 (pp. 232, euro 15)

Vero: non è triste. È disperata. E noi con lei.

Questo viene da pensare leggendo il “reportage narrativo” del giornalista di “Repubblica”. Che a Venezia esistano – come si illustra nel primo capitolo – “le condizioni per prefigurare un organismo urbano del futuro” e che siano presenti nella città occasioni e soggetti che esprimono una “resistenza” – vedi l’ultimo – non basta a bilanciare la rabbia e la desolazione che gli altri cinque capitoli suscitano: la Laguna è “maltrattata”, dopo secoli di sapiente convivenza con i veneziani ridotta a semplice contorno  della città; la quale a sua volta si è spopolata – innanzitutto per la differenza fra nati e morti – e, coi suoi poco più di cinquantamila abitanti viene simbolicamente oltre che economicamente e fisicamente “mangiata dal turismo”. “Una città di crociera” dalla quale non si sa bene come e quando verranno espulse le grandi navi e è destinata per anni ancora ad assistere alla tragicommedia del Mose, “scandalo infinito” che ha attraversato stagioni politiche fra loro diverse.

Dati aggiornati e incontri con intelligenze critiche vive nella città – a partire da quella di Edoardo Salzano – sono l’opportunità indubbia che il libro offre. Ma perché dargli quel titolo? Non si può scrivere se non ci si legittima nell’universo dell’ottimismo obbligatorio?

A quanto pare sì: Se Venezia muore, si intitolava il libro che Salvatore Settis ha dedicato alla città (Einaudi 2014).

* Arnaldo Fusinato, L’ultima ora di Venezia (19 agosto 1849)