La sindrome del corpo sfiduciato

Domenico Starnone, Spavento, Einaudi 2020 (pp. 290, euro 12)

Meglio se hai imboccato la via della vecchiaia (o ti pare di averlo fatto), meglio ancora se sei uomo (o, se donna, moglie di un uomo del genere): nel suo ultimo romanzo Starnone – l’avevamo lasciato allo Scherzetto del 2016, in queste note il 29 gennaio dell’anno seguente – si gode il piacere di raccontare una dettagliata, spiritosa, amara fenomenologia delle percezioni e dei sentimenti di un vecchio alle prime armi – 69 anni –, capace di notare l’ansia che lo prende a guidare di notte, per esempio, e a dedurne “che cos’è la vecchiaia: mancanza di fiducia; per il timore che il corpo perda colpi, ti abitui a sottoutilizzarlo; ma il corpo sottoutilizzato si abitua a perdere i colpi: un deprimente circolo vizioso”, che dà luogo a una ben precisa sindrome: “la sindrome del corpo sfiduciato”. Che se poi diventa un corpo assediato dai sintomi (uno per tutti: sangue nelle urine) ti trascina in un viaggio del tutto nuovo, nel quale sei portato a rievocazioni e bilanci. Il pensiero della morte, per esempio. Non che prima non ci fosse, ma era altro: “da bambino morivo spesso”, quando si giocava alla guerra, beninteso; da giovane, “la morte mi pareva solo una parola suggestiva”, almeno fino a quando era arrivata la morte della madre: “Quella morte mi aveva reso da un giorno all’altro il più mortale dei viventi e per una ventina d’anni avevo vigilato sulla mia salute ossessivamente”; poi però, attorno ai 40 anni, “un matrimonio abbastanza felice, figli senza problemi gravi, notorietà, agiatezza”…: la morte aveva perso consistenza. Ma adesso? Adesso il lavoro – scrittore, di sceneggiature ma non solo – non desta più l’interesse legato a tutto ciò che si è amato: “ne vedi la banalità, la frivolezza” e, sull’onda della prospettiva di una salute ormai incerta, al protagonista pare che “la vera malattia grave (sia) proprio lo sforzo inutile, ma che avevo compiuto per tutta la vita, di dar(s)i un ordine”, sicché il male sembra venire dalla radicata “pretesa di sbrogliare il garbuglio irredimibile del vissuto”: “avrei dovuto – ecco la spina del rimpianto – vivere tutta la vita senza affannarmi, e prendermi cura del mondo ma con disincanto (…) trovando la misura giusta tra svago e paura della fine”. E qui il discorso prende nuovo respiro: è La morte di Ivan Il’ič a tornare alla mente, il grande racconto tolstoiano che non a caso poche pagine dopo entra esplicitamente nella vicenda, quando il protagonista – in ospedale per accertamenti ed esami che lo angosciano – se ne fa portare dalla moglie una copia.

Attenzione però: il protagonista, si è detto. Ma quale? E qui sta un secondo piacere che Starnone coltiva (e il lettore segue, prima con qualche perplessità, poi stando piacevolmente al gioco): quello di intrecciare fino a confonderle la vicenda del personaggio e quella dello scrittore che l’ha messo in scena, complice la precarietà che affligge anche la salute di quest’ultimo. Ma, qui, di chi sta parlando? Ci si chiede a volte passando da un capitolo all’altro: lavoro superfluo. Avanti con la lettura, basta affidarsi al gioco e partecipare del gusto dell’autore di mescolare le carte.

E siamo arrivati così al terzo livello del discorso che percorre questo romanzo, quello attinente alla scrittura: “Cercai il notes sul comodino, ma era buio per scrivere (…). Non che sentissi una qualche particolare urgenza creativa, ma mi pareva necessario continuare a fare quello che facevo di solito: didascalia per qualsiasi cosa accadesse, nel mondo e a me”. La scrittura, vecchio, sperimentato espediente: “Questo reparto in cui mi hanno ricoverato può, volendo, entrare nel racconto”, occorre “mettere a frutto ciò che mi sta capitando”: “per calmarmi, per combattere la solitudine”. Per combattere il pensiero della morte: qualcuno ha detto che non per altra ragione si racconta, si scrive… Anche se il dubbio che la cosa funzioni non è di quelli che si lascino tacitare facilmente e da risorsa la scrittura può di colpo apparire lo “stupido inganno (di) credere di avere un dentro da riversare per tutta la vita su fogli bianchi, in forma di ghirigori di nero inchiostro”.

Se prima era venuto in mente Tolstoj, adesso a risuonare è il Calvino che nelle ultime righe di Collezione di sabbia si interroga “su cosa c’è scritto in quella sabbia di parole scritte che ho messo in fila nella mia vita”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un laboratorio di cultura militante

Piergiorgio Bellocchio, Un seme di umanità. Note di letteratura, Quodlibet 2020 (pp. 263, euro 19)

Come può accadere, quando si alzano gli occhi sulla libreria di casa e si scorrono i dorsi dei volumi lentamente accumulati nel corso degli anni, la prima impressione è quella di una congerie stratificata a secondo delle epoche, o delle nazionalità degli autori o anche degli editori che hanno pubblicato quei libri. L’arte di disporre secondo un ordine i propri libri è varia, e anche il lasciarli accostati in una sequenza casuale è pur sempre una scelta. Tra tutti spiccano in ogni caso alcuni titoli, alcuni scrittori che sembrano rivelare tra loro un nesso, sia pure indefinibile. Qualcosa del genere capita all’autore di questa raccolta di Note di letteratura, in gioventù soprattutto divoratore di romanzi: fra le tante sue letture, in molti casi “caotiche”, deve prender atto che “la parzialità delle (sue) scelte non è stata del tutto casuale” ma “indica piuttosto “reali preferenze”, che hanno via via privilegiato “quegli autori e quei libri con cui sentiv(a) di avere una particolare sintonia”. La propria biblioteca come diario del proprio cammino culturale, per certi versi esistenziale, quindi. Un cammino che, nel caso di Bellocchio, ha portato a un’impostazione saggistica “sempre piuttosto didascalica”, “a me congeniale oltre che – sottolinea – doverosa”: notazione tanto più apprezzabile in tempi nei quali recensioni e schede librarie oscillano fra il prevalere esclusivo del gusto soggettivo, che di fatto non dà un’idea del contenuto del libro, e l’intento scopertamente promozionale, che puntualmente vi individua un capolavoro. Decisamente altro l’orientamento che preliminarmente Bellocchio dichiara – lui che nei suoi “Quaderni piacentini” aveva per un certo periodo tenuto una rubrica in cui segnalava i “libri da non leggere” (a costo di prendere cantonate di cui poi pentirsi, del tipo includere fra i libri da evitare Lolita di Nabokov).

Sono queste le avvertenze che leggiamo nella breve Premessa e che ci avviano alla lettura di saggi capaci di delineare in pochi tratti il personaggio in questione: Giacomo Casanova, ad esempio, si riassume nella figura di un uomo il cui “talento teatrale” fu “esercitato nella vita anziché sulle scene”, a ciò portato, forse, anche dalla sua “origine bastarda” e dall’”abbandono dei genitori”, circostanze che contribuirono di certo a segnare il suo “destino di sradicato”, segnato da quelle “lacune” originarie che lui per altro “non sentì mai alcun bisogno di compensare, refrattario sempre a ogni legame stabile e legittimo”. Fino a ritrovarsi vecchio, solo e povero: “Unica proprietà il suo passato”, che gli dà l’opportunità di “rivivere la sua vita scrivendola”, nelle Memorie (a lungo lette con superficialità da molti, non escluso Fellini).

Analogamente, la figura di Flaubert emerge con nettezza dal ritratto che ne traccia Bellocchio: una “dedizione assoluta alla scrittura” come “suo peculiare modo di osservare la borghese religione del lavoro”, una religione tuttavia “eretica”, segnata sempre da un “odio del borghese” che non si trova neanche nella “coeva letteratura anarchica e socialista”. Diverso il modi di porsi di Dickens, tormentato dal “bisogno morboso di essere sempre a contatto con il suo pubblico”, un bisogno nel quale occorre d’altro canto riconoscere il segno del suo “rifiuto dell’integrazione”, e dunque la vicinanza ad un pubblico “affamato di libri che, dopo gli sconvolgimenti di un mondo pieno di fermenti rivoluzionari e di delusioni, cerca nel mondo fittizio dei romanzi un surrogato della realtà, una guida nel caos della vita, e un conforto per le illusioni perdute”.

E infine, per fare un altro esempio, più vicino ai giorni nostri, la breve notazione dedicata all’uomo, prima che allo scrittore, Fenoglio: una passione e una fermezza, le sue, che “richiamano il concetto di religione”, ma coerentemente rifiutano non solo il cattolicesimo ma anche “il carattere confessionale e chiesastico” del comunismo, in favore se mai di una “religione del dovere, dell’impegno, della fedeltà fino alla morte”.

In passaggi simili, ricorrenti in queste pagine, risulta evidente il carattere di una critica letteraria intesa, anche, come laboratorio di una cultura politica militante, che simpatizza naturalmente con autori come Čechov, alieno dalle “speranze in un avvenire migliore” e che dunque “non avrebbe mai approvato le teorie leniniste”, ma – con il suo Reparto n. 6 – non poteva trovare un lettore più intelligente e reattivo di Lenin”. O come Orwell, spesso travisato e mal interpretato, ma del quale non si può passare sotto silenzio l’errore decisivo ci credere “che occorresse un apparato di polizia mostruosamente esteso e perfezionato per mantenere il popolo nell’obbedienza”.

Non solo gli autori, tuttavia, vengono riletti criticamente, anche intere stagioni culturali come quella del ’68, quando “Alcuni dei più celebrati profeti del movimento, da Mao a Marcuse, furono in realtà pochissimo letti e men che meno meditati (la sinistra dei padri aveva letto molto di più, anche se in una sola direzione)”. Ma si badi – leggiamo in una nota di uno dei saggi dedicati a Böll – “bisogna affermare che il ’68 è stato un evento di eccezionale portata”, e nonostante “errori e equivoci” che l’hanno attraversato, occorre riconoscere che “Tutti i maggiori problemi che le lotte di quel periodo avevano posto all’ordine del giorno sono rimasti inevasi e anzi si sono aggravati”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un racconto epico

Sara Loffredi, Fronte di scavo, Einaudi 2020 (pp. 154, euro 17,50)

Ci sono la montagna, e il camminare in montagna, in questo romanzo, e anche il rapporto con il padre: abbastanza per avvertire, a tratti, un’assonanza con le otto montagne di Cognetti. Ma qui la montagna è l’avversario contro cui si lotta, “una lotta ad armi pari”: “Lei ci allagava, minacciando di rovinare sulle nostre teste per seppellirci tutti”, ma “sapevo che alla fine ce l’avremmo fatta”. A parlare è il protagonista, Ettore, un giovane ingegnere impegnato alla grande opera, il traforo del Monte Bianco, nel 1961. “Questa è una storia vera – avverte l’autrice nella Nota finale – e insieme non lo è”. Ci sono personaggi storici e riferimenti documentati “alle modalità di scavo e all’avanzamento dei lavori”, al pericolo dei crolli e degli allagamenti, agli incidenti e alle otto morti che l’impresa costò, ma anche figure che sono frutto dell’immaginazione e portano nella vicenda le loro storie, segnate da dolori antichi e rimorsi indelebili, o impersonano la saggezza della cultura della montagna. come nel caso del malgaro guaritore capace di curare le sofferenze del corpo e di comprendere quelle dell’anima. Ci sono l’amore, l’amicizia, la stima reciproca che solo il lavoro fatto bene, insieme, sa far nascere, ma soprattutto Lei, la montagna, perturbante prima, e poi finalmente amica: “C’era troppa neve per andare a camminare, eppure ogni sera mi allontanavo qualche centinaio di metri dal cantiere per ritrovarmi faccia a faccia con le cime, invaso dalla loro presenza. La voce della Regina Bianca aveva smesso di farmi paura”.

Il fronte di scavo evocato nel titolo non è solo la parete di roccia con la quale il lavoro dei minatori si deve misurare, è anche un’insuperabile barriera interiore, che si manifesta nel sentimento radicato di una propria sostanziale “inadeguatezza”, nelle “scorie” che si sono accumulate e continuano a ingombrare la mente. Ed è proprio su questo fronte che il protagonista – accettando di vivere in pienezza la dimensione collettiva del lavoro, quella contraddittoria di un amore impossibile, e fin l’esperienza inattesa di un rapporto paterno con un bambino che non è suo figlio – riuscirà finalmente a sciogliere quel nodo che si portava dentro: “Ero dentro un vortice e non mi facevo domande. Il sonno mi aggrediva a tratti, ero esausto ma per la prima volta in vita mia completamente presente a me stesso”.

La “storia che volevo raccontare – conclude la scrittrice – (era) quella di uno scavo nel ventre della montagna e nell’animo di Ettore”. Riservandoci, alla fine della sua Nota, una notizia illuminante che risale agli anni dell’infanzia passati in Val d’Aosta: “Mio padre ha lavorato al tunnel, negli anni Settanta: un alpinista che amava la sua montagna si è trovato a contatto con il varco che la attraversava. Quello sguardo è anche il mio.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Per non dimenticare i giorni del coronavirus

Paolo Giordano, Nel contagio, Einaudi 2020 (pp. 63, euro 10)

Massimo Tedeschi, Il grande flagello. Covid-19 a Bergamo e Brescia, Scholé – Editrice Morcelliana 2020 (pp. 328, euro 19,90)

Perché leggere oggi il piccolo libro di Giordano, perché scegliere, fra i molti nel frattempo usciti, proprio il più vecchio? Eh sì, è uscito solo quattro mesi fa, a marzo, ma era il marzo del nuovo tempo inaugurato dal contagio, e proprio qui sta una buona ragione per leggerlo, se non lo si è già fatto: perché ha preceduto la serie di instant book che ci ha inondato, rivelandosi spesso semplici aggiornamenti di libri usciti prima o che erano lì lì per uscire (e allora aggiungi “covid” nel sottotitolo e magari un ultimo improvvisato capitolo e il gioco è fatto). No, quello di Giordano registra davvero reazioni e ragionamenti in tempo reale: di fronte al primo diffondersi del virus (“Sars-Cov-2” o per brevità “Cov-2”, non “Covid-19”, che è la malattia) l’impressione è quella di una “sospensione dalla quotidianità”, di un “vuoto” che l’autore – come altri, chi c’è riuscito almeno – decide di colmare scrivendo, “per tenere a bada i presagi, e per trovare un modo migliore di pensare tutto questo”. Il che, per lui, significa occuparsi del lato matematico della faccenda, oggi come al tempo della scuola, perché “molto prima della scrittura, la matematica era il mio trucco per tenere a freno l’angoscia”. E difatti, prima che un romanziere, è un fisico, Giordano. Non un virologo o un epidemiologo o un infettivologo come quelli che abbiano ascoltato ogni giorno. Dunque il suo è un punto di vista diverso, e anche questa è una ragione per leggerlo. È lui stesso a sottolinearlo: “la matematica non è davvero la scienza dei numeri, è la scienza delle relazioni”, e “il contagio è un’infezione della nostra rete di relazioni”.

Attenzione però: quello che ci viene proposto è un discorso scientifico, con il suo apparato di concetti e il suo lessico, ma Giordano è uno scrittore, e dunque ci sa comunicare anche speranze e timori. Timori soprattutto, che purtroppo possiamo già veder confermati: “non voglio perdere ciò che l’epidemia ci sta svelando di noi stessi. Superata la paura, ogni consapevolezza volatile svanirà in un istante – succede sempre così con le malattie”. La paura: non tanto quella di ammalarsi, precisa l’autore, quanto quella “di scoprire che l’impalcatura della civiltà che conosco è un castello di carte. Ho paura dell’azzeramento, ma anche del suo contrario: che la paura passi senza lasciarsi dietro un cambiamento”.

 Facile profeta, si dirà, passando oltre. Oppure ci si potrà fermare, meditare su sentimenti e presagi tanto precoci e confrontarli con quelli venuti dopo, e che non abbiamo ancora smesso di sperimentare: “se non abbiamo anticorpi contro Cov-2, ne abbiamo contro tutto ciò che ci sconcerta. Vogliamo sempre conoscere le date di inizio e di scadenza delle cose. Siamo abituati a imporre il nostro tempo alla natura, non viceversa. Quindi esigo che il contagio finisca fra una settimana, che si torni alla normalità. Lo esigo sperandolo”.

Ma andiamo più in là: speriamo, certo, speriamo che il timore di una seconda ondata sia contraddetto dai fatti. Non dimentichiamo però che la pandemia non è (stata?) “un accidente casuale né un flagello”. Non un fatto inedito e irripetibile: “è già accaduto e accadrà ancora”. Perché “i virus sono fra i tanti profughi della distruzione ambientale (…) non sono tanto i nuovi microbi a cercarci, ma noi stanare loro. (…) Il contagio è un sintomo. L’infezione è nell’ecologia”.


Difficile, o quantomeno riduttivo, definirlo un instant book – per quanto “costruito con la tempistica del giornale quotidiano”, come l’autore stesso premette –, perché questo libro è una cronaca dettagliata e documentatissima che diventa pagina dopo pagina storia, dando corpo a un bilancio ponderato, a una riflessione coinvolgente. “È la prima accurata, documentata, ricerca sulla pandemia di questo annus horribilis e indimenticabile”, ha scritto Tino Bino nelle pagine bresciane del Corriere della Sera lo scorso 18 giugno.

E dunque, dalle intuizioni di Giordano alle constatazioni di Tedeschi su questa “vicenda tragica e corale”, al suo riuscito tentativo di “mettere ordine al fiume di notizie che ci ha investito, a volte sovrastato, spesso frastornato dalle settimane iniziali dell’epidemia e fino al 4 maggio”. Questo il periodo esaminato; lo spazio è quello che include le due provincie da subito e con più violenza colpite, Bergamo e Brescia, terreno di straordinarie manifestazioni di “tenuta e coraggio” ma anche di “errori strategici e lacune organizzative, limiti strutturali e scelte sbagliate” che “richiedono – e qui il resoconto si fa proiezione sul futuro immediato che ci attende – risposte approfondite, dettagliate, coraggiose, sempre meglio documentate”.

“Memoriale” si intitola la prima parte, che si propone – per usare le parole del Camus della Peste, citato in esergo – di “dire semplicemente quel che si impara in mezzo ai flagelli”: inutile cercar di rendere la forza con cui si propongono le situazioni richiamate; le testimonianze raccolte – a partire da quella di un medico rianimatore –; la rapida successione delle notizie (documentata anche nel Diario proposto nella terza parte) e la mole imponente dei dati messi a confronto e che non restano mai numeri ma lasciano trasparire la realtà umana cui si riferiscono, quella della “generazione bruciata” degli anziani innanzitutto; i riferimenti a una dimensione, provinciale ma non periferica, in grado – nel caso delle due città lombarde su sui ci concentra l’analisi – di offrire “al mondo il racconto di cosa può rappresentare l’epidemia in terre moderne, dinamiche, tecnologicamente attrezzate, produttivamente all’avanguardia”; le immagini incancellabili che le parole evocano, dagli sguardi muti fra malati e medici ai camion militari carichi di bare il 18 marzo a Bergamo.

L’evocazione cede tuttavia il passo alla considerazione obiettiva, in un’alternanza che avvince e non cessa di alimentare l’attenzione: “cuore del cuore produttivo d’Italia e d’Europa”, Brescia e Bergamo rivelano anche criticità nodali, la qualità dell’aria in primo luogo. Sicché gli studi sulla correlazione fra epidemia e inquinamento atmosferico” sono “molti e controversi” fin dalle prime settimane: è anche questo, il libro di Tedeschi, una mappa, cronologicamente organizzata, dei discorsi che si sono susseguiti e degli argomenti via via balzati all’ordine del giorno a nutrire speranze e timori fin dentro le nostre case, nelle parole che ci siamo scambiati giorno dopo giorno, nelle telefonate, nei messaggi. Uno strumento, quindi, per far memoria di un tempo sospeso, di una durata che sembra eccedere il suo effettivo arco temporale, che ci appare già lontana e allo stesso tempo non ha abbandonato la nostra mente, il nostro umore, gli strati più profondi del nostro immaginario. Uno strumento che sa rispondere alla necessità da più parti avvertita di non dimenticare e al di là delle intenzioni rimuovere quanto accaduto: “Impossibile non pensare a come ricordarlo – scriveva del resto, già alla fine di aprile sul suo giornale, lo stesso Tedeschi – con un segno pubblico, solido ed eloquente”. Come il suo libro, appunto, espressione di una sensibilità individuale, di una capacità affinata nel lavoro di giornalista, di un impegno civile che non tralascia di individuare “il punto di domanda più sostanzioso, più radicale” nelle “sorti del Sistema Sanitario Nazionale e di quello lombardo in particolare”, allargando tuttavia lo sguardo a render conto anche di altri privilegiati punti di vista con le interviste, raccolte nella seconda parte, oltre che ai sindaci e ai vescovi delle due città, anche al medico, all’infermiere, all’infettivologo.
Nulla di meglio delle parole dello stesso autore per sintetizzare, in conclusione, il senso del suo lavoro:
“Dopo in evento così enorme l’esercizio del ricordo non può venir meno.
A ciò si vorrebbe contribuisse questo libro.
Questo diario.
Questo memoriale”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il lavoro feriale e collettivo di essere uomini

Carlo Ossola, Trattato delle piccole virtù. Breviario di civiltà, Marsilio 2019 (pp. 120, euro 15)

“Dodici stazioni per divenire un po’ più uomini”. Così l’autore definisce, nella premessa, le “piccole virtù” cui gli uomini della sua generazione – quella dei nati nell’immediato secondo dopoguerra – venivano ancora educati. Prima che arrivassero “l’intemperanza e l’imprudenza del Sessantotto che trasferì all’energia del collettivo quello che al singolo restava troppo arduo da conseguire”. Questo versante della mentalità di quegli anni – a volte ammesso anche da chi ha continuato a ravvisarvi una decisiva carica di rinnovamento – venivano comunque dopo la pervasiva “tecnicizzazione” di ogni ambito della vita che aveva reso “brutali e precise” le movenze quotidiane, eliminando “dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo”: lo rilevava già Adorno, nel suoi Minima moralia, tradotto in Italia alla fine degli anni Cinquanta.

Non sono la buona educazione o il galateo che l’autore rimpiange, ma un ben più sottile e pervasivo atteggiamento quotidiano, fatto di “discrezione del non apparire”, di capacità di ascoltare, di “contegno pieno di riguardo” per gli altri. Tutto il contrario della “competizione, emulazione, valutazione comparativa” che “ci privano della prima tornitura, quella del sé”, allenandoci invece “alla vanità dell’orgoglio”. Eppure, si erano susseguiti nei secoli i “Maestri delle piccole virtù”: da Castiglione e Guicciardini a quel meno noto Giovan Battista Roberti da Bassano del quale si riporta in appendice il settecentesco Trattatello sulle virtù piccole. Sino a giungere alla Ginzburg e alle sue undici brevi prose della raccolta titolata, appunto, Le piccole virtù: “Virtù comuni – chiosa l’autore – che occorre esercitare ogni giorno nella fatica dell’essere in società, che non sono piccole se non perché come tali sono percepite, ma che richiedono un costante esercizio di sé, una vigile coscienza del limite, proprio e altrui”. Modi d’essere e di fare essenziali “nel lavoro, feriale e collettivo, di essere uomini”.

Si passano così in rassegna – in un rimando continuo ad autori di ogni epoca – queste dodici “impercettibili” e ordinarie virtù, partendo sempre però da un preciso quesito, da una breve riflessione o da un episodio vissuto. Uno per tutti, ad aprire il discorsetto sull’“affabilità”: “Il volo Air France è pieno; solita coda nel corridoio di cabina: arrivo al mio posto in fondo ma è occupato da una hostess, elegante e impassibile: Madame, quello sarebbe il mio posto!; Monsieur, per questo stavo ad attenderla! Come l’affabilità moderi con garbo una vana impazienza”.

Affabilità, dunque: una virtù esercitabile persino nei confronti dell’avversario. Lontanissima, inutile dirlo, dal “rottamare” come dall’“asfaltare”.

“Jean Cocteau definiva tutti i suoi romanzi ‘poesie di romanzo’. Questa espressione…”

“Jean Cocteau definiva tutti i suoi romanzi ‘poesie di romanzo’. Questa espressione mi è sempre piaciuta e distinguevo tra gli scrittori coloro che sono ‘poeti’ del romanzo e coloro che non lo sono (…). Essere poeta del romanzo significa concentrarsi ostinatamente sull’essenziale (esistenzialmente essenziale) ed eliminare il resto”. (Milan Kundera)

“Prima di cominciare ho letto molto. All’inizio volevo aggiungere qualcosa di mio…”

“Prima di cominciare ho letto molto. All’inizio volevo aggiungere qualcosa di mio a tutte queste letture. Poi ho voluto trovare storie, personaggi. Da un certo punto in poi la scrittura è scaturita invece da frasi che hanno bussato alla finestra. È un rumore di sottofondo che tento di catturare”. (Jean-Marie Gustave Le Clézio)

Una storia di ordinaria cattiveria familiare

Junichirō Tanizaki, La gatta, Shozo e le due donne, Neri Pozza 2020 (pp. 128, euro 17)

Lui, anche se ormai adulto, è soggetto alla madre, e del resto è fatto così: si adegua a quello che gli altri decidono per lui. La madre, preoccupata della pigrizia e della mancanza di iniziativa del figlio, si dà da fare perché lui scacci la moglie e si metta con un’altra, dotata di una buona dote e dunque in grado di assicurargli un futuro quando lei non ci sarà più.
Non ci sono cuori spezzati in questa storia di ordinaria cattiveria familiare. In gioco non ci sono l’amore e il dolore dell’abbandono, ma l’orgoglio e l’umiliazione. La prima moglie non accetta di esser stata scartata come una cosa e vuole rivalersi riprendendosi il marito; l’altra donna sorveglia come una carceriera l’uomo con cui si è messa perché non sopporterebbe l’offesa di vederlo tornare dalla prima.

Una comune storia borghese.
Non fosse che sulla scena agisce – o meglio: osserva in silenzio, senza giudicare si direbbe – un altro personaggio: una gatta. C’è lei al centro del triangolo: amata dall’uomo e mal tollerata o addirittura odiata dalle donne, che ne sono o ne sono state gelose.

Questo è un romanzo che soprattutto chi vive con un gatto saprà apprezzare.
Tanizaki aveva di sicuro questa esperienza. Non avrebbe altrimenti saputo scrivere pagine come quelle dedicate alla relazione che si instaura fra l’animale e il suo padrone, che osservando la sua gatta camminare col capo chino, smagrita dall’età ormai avanzata, sente di “avere sotto gli occhi una lezione sulla fugacità della vita” e non sa confrontare il dolore che proverebbe nel caso lei morisse con quello che gli provocherebbe la scomparsa di una persona vicina. Ma anche la moglie – che non aveva amato l’animale e, una volta scacciata dal marito, l’aveva rivoluto con sé solo allo scopo di indurre l’uomo a tornare da lei – sente ad un certo punto di saper “comprendere con chiarezza i pensieri della gatta dallo sguardo triste, vecchia e silenziosa” e “di tanto in tanto avvicina la bocca all’orecchio della gatta e le sussurra: Non sapevo che tu fossi tanto più ricca di me di sentimenti umani”.
Sarà sempre lei, la gatta, a guardare con saggia indifferenza il precipitare della situazione.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il disordine delle vite

Sandro Campani, I passi nel bosco, Einaudi 2020 (pp. 248, euro 19,50)

Siamo ancora là, nell’Appennino tosco-emiliano, come nel romanzo che avevamo letto  quasi tre anni fa (Il giro del miele, Einaudi 2017, in queste note il 16 luglio di quell’anno): anche in questi Passi nel bosco  troviamo una storia di famiglie, di amori e disamori, speranze e fallimenti, di destini che si credeva di aver scongiurato e invece negli anni l’hanno avuta vinta; vite che avrebbero potuto essere diverse, e non si sa cessare di interrogare per sapere perché sono andate come sono andate. E intorno il bosco, che circonda il mondo degli uomini e custodisce i loro segreti, sempre altro da loro anche se a loro soggetto. Anche se i tempi sono i nostri infatti, e si vive soprattutto di turismo e c’è chi sta recuperando uno dei tanti borghi disabitati da allestire ad “albergo diffuso” per accogliere i cittadini votati a velleitari ritorni alla natura, – di fare il periodico taglio del bosco si tratta, ed è questa operazione che ha riunito i diversi personaggi, modulati entro una gamma che si dispone fra un estremo e l’altro, e va dal vincente – si fa per dire – Luchino al perdente Daniele.

L’autore è uno di quelli che in Appennino è nato e continua a vivere, sia pure essendo passato dall’originaria montagna modenese a quella reggiana. Il bosco lo conosce bene: “I faggi sono quel che ti protegge dagli spiriti maligni: lo capisci già dalla corteccia, liscia, di quel grigio pieno d’occhi”. Così come da una lunga consuetudine nasce il personaggio attorno al quale in diverso modo gravitano tutti gli altri: Luchino, che prima di comparire in questo romanzo è stato protagonista di una canzone, E dove andrai, Luchino, perché Campani è anche cantante e chitarrista e scrive musica e testo di molte delle canzoni della sua band, gli Ismael. E i temi sono quelli: l’abbandono di una montagna che non si lascia abbandonare facilmente, che resta dentro.

Luchino era, nelle parole della canzone, quello che se ne va – “con la moto di tuo padre, dove noi non abbiamo il coraggio” – e qui, nel romanzo, che a un certo punto cita letteralmente il testo della canzone, è quello che torna e come sempre quando riappare scompiglia la vita della piccola comunità: “Arriva come il sole, come quelli a cui non importa niente. Per questo ce l’hanno con lui; eppure lo cercano al bar, quando torna, non possono ancora farne a meno, appesi a lui come all’unica vita che sarebbe valsa la pena di vivere”. Perché lui è uno che cade sempre in piedi, che gli altri amano, o odiano, o comunque invidiano. Un beniamino della vita, anche se in versione vagamente maudit: lui è “il filibustiere (che) arriva e incanta, i bimbi lo attorniano, i gatti lo seguono, tutto gli è sempre perdonato”. Anche da Daniele, il più fedele dei suoi seguaci: “Luchino era il furbo, Daniele l’entusiasta. Uno ha lanciato il sasso, l’altro non ha ritirato la mano”. E adesso Daniele – o Danielone, come lo chiamano, dopo che si è lasciato ingrassare a forza di birre, con il gusto di ostentare la propria bulimia disperata –, è uno sbandato, irascibile e aggressivo, dipendente dai soldi che chiede al padre, e al fratello. Tutto diverso da lui, Antonello: notaio come il padre Francesco, pragmatista e privo di scrupoli, “se lui ha deciso di fare una cosa, sicuramente c’è una strategia”, e “non potrà mai fare nulla di buono senza che gli venga attribuito un doppio fine”. Anche se in passato ha spesso garantito per il fratello, regolarmente licenziato da chi era stato persuaso ad assumerlo perché inaffidabile sul lavoro, ladro di portafogli dei compagni di lavoro, e dunque è Francesco, il padre, a cercar di farlo ragionare, a rincorrerlo, a cercarlo quando sparisce.

Ma i personaggi sono di più, e ciascuno – tutti tranne Luchino, significativamente – prende la scena a turno, raccontando i fatti dal suo punto di vista, come in uno spettacolo teatrale (di cui a inizio libro compare appunto il cartellone, ossia l’elenco dei nomi e dei ruoli).

Romanzo corale in cui le voci non si fondono in un coro, e le questioni del passato come le tensioni del presente restano in sospeso, filtrate da un linguaggio irto di espressioni e vocaboli ricalcati sul dialetto locale.
Inutile cercare una sia pur malinconica soluzione in questa storia: non è il taglio del bosco di Cassola, questo.  Qui non è con il dolore di una perdita, con un lutto che si ha a che fare. È con il disordine delle vite.
Non c’è un senso da ritrovare in esistenze residuali, in bilico fra rimpianti e delusioni, rancori e rimorsi. 

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una non-fiction scritta da storici e filosofi

Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Un caso di parricidio nel XIX secolo, a cura di Michel Foucault, Einaudi 2020 (pp. 352, euro 24)

Nel 1976, quando per la prima volta Einaudi lo pubblicò, questo libro si collocava in un clima di critica della psichiatria e più in generale delle istituzioni totali: L’istituzione negata di Franco Basaglia era uscito nel ’68, e Basaglia era lettore attento di Foucault e delle sue ricerche sul “disciplinamento” imposto da carceri e manicomi, prima che da un potere diffuso, microfisico e biopolitico: la Storia della follia in età classica si è leggeva in Italia fin dal ’61 e Nascita della clinica dall’anno successivo.

La ricostruzione della vicenda del contadino bretone Pierre Rivière forniva dunque un concreto, inedito riferimento a un interesse che andava oltre l’ambito specialistico, ma suggeriva anche, soprattutto per chi viveva dalle nostre parti, la possibilità di stabilire analogie con un fatto accaduto una quindicina di anni prima: il “mostro di Tremosine” era una figura ancora viva nella memoria dei bresciani, colpiti dal gesto di quel Giuseppe Rossi, diciottenne gardesano che aveva ucciso padre, madre e sorella sparandogli a bruciapelo con una doppietta, un comune fucile da caccia. Un massacro suscitato da un motivo futile – il padre si era rifiutato di prestare 30mila lire al figlio che doveva ripianare un debito –, maturato comunque entro la rete dei rapporti familiari e in questo simile, dunque, a quello perpetrato dal ventenne francese a colpi di roncola.

Foucault e altri studiosi suoi collaboratori (che nel libro compaiono quali autori dei saggi della seconda parte), nel corso delle loro ricerche archivistiche tese a chiarire l’evoluzione dei rapporti fra psichiatria e giustizia penale, si erano imbattuti in un documento sorprendente: la Memoria scritta da un parricida nel 1836. Scritta su sollecitazione dei medici, che in questo modo ritenevano di poter stabilire il grado di salute mentale del soggetto e la sua eventuale simulazione di follia; accolta dai magistrati fra le prove in base alle quali formulare il giudizio; ampiamente citata dai fogli di informazione che all’epoca diedero ampio spazio al fatto: a fermare l’équipe per più di un anno sulla vicenda fu proprio “la bellezza della memoria di Rivière”, ammette Foucault in apertura. “Tutto è iniziato dalla nostra stupefazione” di fronte a un discorso, come quello del giovane capace appena di leggere e di scrivere, in grado di introdurre un sostanziale elemento di “disturbo” nella “battaglia di discorsi” che cercavano di stabilire se il suo era il “discorso d’un pazzo o d’un criminale”.

Il primo impulso, in chi legge, è di saltare dall’introduzione di Foucault direttamente a questa Memoria, tralasciando i documenti che la precedono. Ma non conviene, e la ragione sta nel loro montaggio: non tipologico, in base cioè alla loro natura – medica, giudiziaria, cronachistica – , ma cronologico. E dunque si legge innanzitutto del crimine, poi di quel che avviene tra il fatto e l’arresto, si passa quindi all’istruttoria per giungere alla commutazione della pena dall’esecuzione capitale al carcere a vita (cui metterà fine il suicidio del recluso). Quello che ne esce è qualcosa di simile a un romanzo, a una non-fiction si direbbe oggi (A sangue freddo di Truman Capote, riferimento obbligato di questo genere, era stato scritto solo una decina d’anni prima, a metà anni ’60): i verbali redatti quando i corpi sono ancora lì dove sono caduti sotto i colpi di Pierre si intrecciano al racconto dei testimoni, le relazioni del procuratore del re agli articoli di giornale, mentre l’interrogatorio dell’omicida e la sentenza istruttoria forniscono le coordinate per comprendere la Memoria, uno “scritto di circa cinquanta pagine – spiega l’Istruttoria – al quale Riviére aveva lavorato dal momento del suo ingresso nella prigione” ma, lo sapremo da lui stesso, concepito già prima dell’assassinio, in un rapporto stretto fra il discorso sull’atto e l’atto stesso. E a questo punto si arriva finalmente al testo cruciale, una ricostruzione puntigliosa e angosciante dei litigi familiari, del coinvolgimento in essi dei figli, delle vessazioni della moglie sul marito: è per riscattare quel buon uomo del padre dalla prepotenza e dalle offese della madre che Pierre decide di intervenire, nel modo che sappiamo. Uccidendo la colpevole, la madre, ma anche la sorella che stava dalla sua parte, e il fratellino. Perché anche quest’ultimo, cui il padre era tanto affezionato? Per apparire crudele ai suoi occhi, agli occhi del padre che così non avrebbe sofferto per la sorte del primogenito: una giustificazione che rivela per alcuni la follia dell’assassino, per altri la sua volontà di confondere le acque, tanto da fornire una testimonianza che sfugge alla logica di chi l’aveva sollecitata e di fatto “paralizza” la volontà del magistrato quanto quella del medico affermando l’autonomia dell’autore, del fatto e del testo insieme. Un’autonomia che rimanda ad altro che sta fuori degli ospedali e dei tribunali riallacciandosi alla protesta muta che atti per nulla isolati come quello di Riviére rivelano: una ribellione senza parole contro la povertà delle campagne, che la Rivoluzione dell’89 non aveva risolto, e il nuovo potere borghese ad essa seguito aveva acuito.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Scrivere romanzi è inseguire possibilità. Vedo i miei libri…”

“Scrivere romanzi è inseguire possibilità. Vedo i miei libri come un inseguimento di vite diverse. Viviamo tutti in una sorta di gabbia, la gabbia che presuppone il fatto di essere solo te stesso. Se sei uno scrittore di narrativa, puoi uscire ed essere qualcosa di diverso. È quello che faccio la maggior parte delle volte… Vivere i miei io alternativi”. (Murakami Haruki)

La pandemia presentita da un ipocondriaco

Lorenzo Marone, Inventario di un cuore un allarme, Einaudi 2020 (pp. 284, euro 18)

“Penso che condividere le paure possa servire a destabilizzarle”, “fare gruppo aiuta: vedere che c’è un altro che soffre delle tue stesse ansie ti fa stare meglio, c’è poco da fare. (…) Sempre più ricerche dicono che avere buone amicizie alza il livello di Qr, il quoziente di resilienza; biologi, nutrizionisti, psicologi sono d’accordo nel ritenere che l’amicizia sia uno dei principali fattori per combattere virus e germi, incidendo sul funzionamento del sistema immunitario. (…) Cioè, perlomeno si tira avanti, che è una forma di vittoria, giusto?”. Giusto, a patto però che si tenga conto del fatto che queste considerazioni fiduciose risalgono a parecchi mesi prima, cioè sono state scritte a.C. (ante Coronovirus), il quale coronavirus non era dunque contemplato fra i “virus” sopracitati. Non è stata l’esperienza del lockdown a suggerire queste parole, ma quella di un ipocondriaco. Di un ipocondriaco che ha deciso di scrivere senza remore delle proprie angosce perché crede “che la condivisione sia un modo per venirne fuori”. “Parliamone quindi – esorta gli ipocondriaci che non ha dubbi si trovino fra i suoi lettori, dato che “Siamo tutti, chi più chi meno, ipocondriaci, ahimè, bombardati ogni giorno da infauste notizie” –, confidiamoci, raccontiamo, svisceriamo, non abbiamo timore di sembrare deboli”.

Ma la convinzione del messaggio si squaglia appena espressa: “tutto questo può valere per le persone normali, per chi cioè attraversa un momento difficile”. Non è questa la situazione dell’ipocondriaco: “Il periodo difficile per un ipocondriaco è la sua stessa vita, nella quale la paura è una costante”, “una sorta di acufene. Sapete cos’è, vero? Se la riposta fosse negativa, buon per voi, sareste persone normali impegnate a vivere”. Avvertenze come questa chiariscono subito che questo libro non è una “storia lamentosa”, ma neanche un manuale di sopravvivenza, tanto meno di guarigione, per malinconici e ansiosi in apprensione continua per il proprio stato di salute e che della paura della malattia sono arrivati a fare “una ragione di vita”. È bene, anzi, che chi si trova in questa condizione si convinca che non deve “rompere i coglioni di continuo a chi (gli) è accanto”. Se lo fa, del resto, si rende conto, come il protagonista, che né moglie né amici lo prendono più sul serio. Né lo farebbero i lettori, a meno che già le prime pagine garantiscano che se ne parlerà così, un po’ alla Woody Allen per intenderci, non a caso ricorrentemente citato. E allora lo seguiamo sorridendo, il nostro ipocondriaco, nelle sue elucubrazioni amletiche, nei suoi incontri con medici preti psicoterapeuti e santoni, nelle sue relazioni (moglie, figlio, parenti, amici, colleghi) pesantemente condizionate dallo stato d’animo d’un individuo che “ha un terrore fottuto di qualsiasi morbo, ma allo stesso tempo ha una paura fottuta di accorgersene”. Lo seguiamo in un lungo monologo denso di divagazioni scientifico-filosofiche che spesso assumono – anche con risultati apprezzabili – il tono della divulgazione. E così, paura dopo paura, catastrofe incombente dopo catastrofe imminente, ci arriviamo: alla pandemia. Una pandemia solo possibile, per l’autore, che infatti per darne un’idea prende quello che ha a disposizione, la peste del Trecento e quella del Seicento, e la Spagnola – “Mi chiedo spesso cosa avrei fatto se mi fossi trovato a vivere a quei tempi” –, ma sa anche andare al di là, con accenti che suonano, ahimè, vagamente profetici: che cosa succede “quando l’enorme giostra che abbiamo costruito per non pensare al nostro essere mortale viene d’un tratto meno”? “Se si fermasse quest’ultima, resteremmo scoperti, e mi domando chi saremmo davvero, io chi sarei: quello che scappa, quello che attende l’aiuto di un medico vestito da menagramo, colui che si dà alla fede, chi si dispera, o chi infine decide di godersela? Almeno nella fantasia, senza paura di essere smentito, mi piace pensare che farei parte di quelli che si danno all’alcol e al sesso. Non in questo ordine.”

C’è ragione di credere che il nostro sia stato smentito, contrariamente alle sue previsioni. Qualche ipotesi si può forse fare se si tiene presente che, a quanto pare, non solo l’ipocondria, ma anche altre nevrosi, e persino la paranoia nelle sue forme e gradi diversi, conoscano una fase di remissione in epoche di calamità (in parole povere, si allineino al proverbio secondo il quale il mal comune ha fra i suoi effetti collaterali un mezzo gaudio). Quel che sappiamo per certo è comunque che l’autore ha in queste settimane scritto un nuovo racconto destinato a essere diffuso in formato e-book con l’invito a fare una donazione all’ospedale Cotugno di Napoli per l’emergenza Coronavirus. Titolo: La primavera torna sempre.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Oltre l’Alto Adige dei turisti

Lenz Koppelstätter, Omicidio sul ghiacciaio, Corbaccio 2020 (p. 319, euro 16,90)

Portachiavi, calendari, palle di vetro con la neve e la figura di Ötzi, ma anche ombrelli, bastoni da passeggio, flaconi di shampoo, accendini: tutti con l’immagine dell’uomo di Similaun rinvenuto sul confine tra Italia e Austria nel 1991. Mancava solo un giallo a fregiarsi del sicuro appeal della mummia alpina. E ce lo si poteva aspettare, vista la fortuna del filone giallo-montagna (da Faggiani a D’Andrea, da Tuti a Manzini), che prima o poi anche Bolzano e le Alpi Venoste diventassero teatro di un intrigo. A scioglierlo, un commissario locale e a un ispettore immigrato napoletano (anche questa del poliziotto spaesato è ormai una costante).

Senonché a impedire che il racconto scivoli nella scontatezza, ci sono pagine dedicate al contesto da un autore che l’Alto Adige di oggi, da giornalista qual è, lo conosce bene e ci offre quindi motivi di confronto con le immagini che della regione ognuno di noi serba. Ne sa richiamare “la cultura tirolese e il tocco mediterraneo”, fra canederli e pizza; l’internazionalità e insieme un plurilinguismo fatto non solo di tedesco e italiano, ma di dialetti che variano da valle a valle e da paese a paese, ognuno geloso della sua specificità al punto che “un commissario di Bolzano (è) nient’altro che il braccio di Roma”, anche se da sempre residente nella Valle Isarco. Se basta tanto poco a far sentire forestiero il commissario figuriamoci l’ispettore, che non si orienta in un posto dove sembrano “esistere molti più punti cardinali dei quattro che aveva imparato”, per cui “da Bolzano a Merano si va aui (su), nella Val Senales invece eini (dentro) e in Svizzera ummi (di là)”. Ma, quel che più conta, basta cambiare di bar e dall’Alto Adige dei turisti si passa a quello della gente del posto, che esclude diffidente chi viene da fuori.

E Ötzi che cosa c’entra? C’entra eccome: è a lui che conducono gli indizi raccolti sul ghiacciaio dove un uomo è stata assassinato, con una freccia. Come Ötzi appunto. L’arma del delitto risale infatti ad allora, è stata trafugata dal Museo di Bolzano in cui la mummia è conservata, e a questo si aggiunga che la vittima era un misantropo ridottosi vivere più o meno come il progenitore neolitico. Ma, analogie a parte, è un’altra la domanda cui occorre rispondere: Ötzi era solo un cacciatore oppure era un capotribù, o uno sciamano? Un quesito di natura culturale, si direbbe. E invece no: la sua soluzione porterà il commissario Grauner a seguire la traccia giusta.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.