La tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi

Ilaria Rossetti, Le cose da salvare, Guanda 2020 (pp. 201, euro 17)

Due storie: quella di un ex professore di scuola media, da anni solo, abitante di un condominio risparmiato per un soffio dal crollo del ponte di Genova, e quella di un altro pensionato, non toccato direttamente dalla tragedia del ponte ma da un’altra, privata: la morte della moglie. A tenerle insieme una trentenne, da poco assunta da un giornale locale. Primo incarico: intervistare il professore che ostinatamente ha rifiutato di lasciare il suo appartamento. Perché? Vengono alla mente quel vecchio che non voleva lasciare la sua casa a Curon, alla vigilia della costruzione del bacino idroelettrico (quello del campanile che spunta dall’acqua: ce ne ha raccontato Marco Balzano un paio d’anni fa (Resto qui, Einaudi 2018, in queste note il 15 aprile 2018), ma qualcosa di molto simile pare sia avvenuto anche dalle nostre parti, quando venne realizzato l’invaso della Valvestino all’inizio degli anni Sessanta. Delle ragioni di Gabriele Maestrale però sappiamo di più, grazie a Petra, la giornalista, che poco a poco ne ottiene la fiducia e comincia a prender nota di ciò che l’uomo ha vissuto, sin dal momento del crollo del ponte, perché è allora che ha deciso, quando ha sentito il suo appartamento “scricchiolare” fra i “blocchi di cemento armato precipitati tutt’intorno”: “Gabriele capisce che forse crollerà” anche la sua casa, che “se ne deve andare il prima possibile”. “Ma – ecco il punto – quali sono le cose da salvare?”, da portarsi via nella fuga? Ebbene, lui “Non riesce a decidere quali sono le cose da salvare”, e dunque resta, bloccato dalla constatazione di “quanta vita c’è nelle nostre stanze”. Ossia del fatto che le cose non sono solo cose: le abbiamo incorporate nella nostra vita senza accorgerci, se non alla fine, o in casi estremi come questo, che loro hanno incorporato noi e chi ci stava vicino (è lo stesso tema che abbiamo incontrato nel libro di Massimo Mantellini recentemente letto (Dieci splendidi oggetti morti, Einaudi 2020, in queste note lo scorso 18 ottobre). 

E intanto, Petra si divide fra la storia dell’“Eremita del ponte” – come il giornale, con la solita stereotipata ricerca di sensazionalismo, lo definirà – e quella intima, lontana dalla cronaca, di suo padre, raggiunto dalla donna che era stata il suo primo amore a una settimana soltanto dalla morte della moglie. Le due storie crescono, si arricchiscono di significati che via via superano le circostanze in cui sono nate, e si complicano: nel palazzo pericolante non vive solo il professore, ma anche due clandestine eritree, madre e figlia, e l’arrivo di Vanda, l’antica fiamma del vedovo, non è stato dettato solo dal rimpianto, ma da una precisa volontà… Una trama avvincente, dunque, percorsa da quell’intercalare – le cose da salvare – che conosce sempre nuove modulazioni, fino a farsi metafora della scelta inevitabile che la finitudine della vita impone. Sono il passare del tempo e il riconoscimento, struggente e insieme sereno, a suo modo, della limitatezza dell’esistenza, a rappresentare il fulcro della narrazione. Lo avevamo potuto presentire, del resto, fin dagli esergo posti in apertura, dal primo soprattutto, di Cristina Campo: “Ho tante cose da dire! Quasi direi da salvare: tutta la tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi – cose che io sola sento di aver visto e sentito fino alla sofferenza e che assolutamente non devono morire”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La pazienza, virtù non eroica

Su “Doppiozero”, rivista on line, del 14 dicembre si può leggere una considerazione di Antonio Prete – autore di studi tra i quali secondorizzonte ha segnalato il 19 maggio 2019 Nostalgia. Storia di un sentimento, Cortina 2018 e il 10 novembre dello stesso anno La poesia del vivente. Leopardi con noi, Bollati Boringhieri 2019. 

Bastano poche, brevi citazioni per dare l’idea dell’originalità e della tempestività di questo scritto, leggibile nella sua interezza qui.

«Un sentimento che la condizione tragica della pandemia evoca, e incessantemente invoca, è certamente la compassione, cioè la prossimità al dolore dell’altro, il dialogo assiduo con quel dolore. Un altro sentimento su cui il tempo della pandemia invita a riflettere è la pazienza, sentimento-virtù che nell’etimo, e per un lungo tratto della sua storia, ha a che fare anch’esso con il patire, con il prendere su di sé le forme del patire. 

(…)

Con il diffondersi planetario del virus, e con il modificarsi dei modi di vita, di incontro, di relazione, un nuovo tempo si è dischiuso (…). Prendere su di sé questo tempo della sospensione, con il patimento che è implicito, è compito del sentimento, o virtù, che chiamiamo appunto pazienza. Solo in questa accezione, la pazienza può mostrarsi alleata di un’altra grande virtù, la speranza, un vento che può ravvivare l’aria ferma di questo tempo sospeso. 

Pazienza è virtù del sì. Accettazione. Un’accettazione che ha come presupposto il riconoscimento di un accadere che è al di là delle nostre singole scelte, della nostra volontà, o del nostro potere di immediata modificazione dell’esistente. Un’accettazione che non è passività, rinuncia alla critica, abbandono al flusso degli eventi, e tanto meno consenso a forme di potere che creano diseguaglianze o non agiscono per cambiare in meglio le condizioni di vita degli individui, sotto tutti i cieli.

(…)

[Nello Zibaldone,  Leopardi] scrive: “la pazienza è la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna apparenza d’eroico”. 

L’esercizio di questo eroismo nascosto, dimesso, privo d’orgoglio e di esibizione è certamente difficile, ma appartiene al dialogo con il dolore che il vivente può intrattenere. In questo senso la pazienza ritrova la sua radice, e si avvicina alla compassione. 

Oggi essa si propone a noi sia come relazione con un tempo che è tempo del paziente, del patire, sia come esercizio di un’attesa, che è attesa di un tempo altro: attesa liberata dalla spina dell’ansietà e desiderosa di scorgere il principio di una svolta».

La lotta di uno psichiatra nella Spagna ultracattolica di Franco

Almudena Grandes, La figlia ideale, Guanda 2020 (pp. 560, euro 20)

Le tre voci narranti che si alternano sono quelle di Germàn Velasquez, giovane psichiatra, María, un’infermiera ausiliaria, e Aurora Rodriguez Carbaillera, signora benestante e colta, ma anche assassina della propria figlia, uccisa senz’ombra di rimorso perché non corrispondente al modello che la donna avrebbe ritenuto rispondente alla propria eccellenza, alla propria missione di rinnovare niente meno che l’Umanità. Di qui il titolo italiano (La figlia ideale), senza dimenticare quello originale (La madre di Frankenstein).

Le storie che i tre personaggi raccontano sono innanzitutto le proprie, sulle quali si innestano le storie di chi ha contato nella loro vita: ha una struttura ad albero questo romanzo, che divaga e riprende il filo alternando, oltre alle voci, anche i piani temporali delle diverse vicende. Il tronco è senz’altro rappresentato dagli avvenimenti che segnano la vita di Germàn, ma di qui si dipartono i due rami maggiori (le due donne) che mettono a loro volta a quelli più sottili, ma per nulla secondari, di una schiera di personaggi diversi, in un intrico che sarebbe impossibile rendere in una breve nota.

A tenere insieme il tutto, oltre alla perizia narrativa dell’autrice, è il vero protagonista del romanzo: il franchismo, come del resto ci segnala il lungo sottotitolo facendo riferimento all’“apogeo della Spagna nazionalcattolica” e collocando con precisione i fatti (“Madrid, 1954-1956”). Lo scenario della vicenda è infatti un manicomio femminile che si trovava nei pressi della capitale: è lì che torna, dopo anni di esilio in Svizzera durate i quali si è impratichito nella professione, il protagonista, e fra le internate ne riconosce una, già paziente di suo padre, che ricordava bene, così come non l’aveva potuta dimenticare María, che della signora era stata, ancora bambina, amica e in qualche modo allieva, ma che ora non ne viene riconosciuta. O così pare, perché Donna Aurora è imperscrutabile nella sua depressione quanto nelle sue ire, nelle manifestazioni della sua intelligenza vigile e nei sogni deliranti che continuano ad accompagnarla. Il tutto, come si diceva, sullo sfondo di un paese nel quale sono in auge le “dottrine eugenetiche patrocinate dallo Stato franchista”, supportate dalla “morale ultracattolica che, interferendo continuamente nella pratica psichiatrica”, si oppone anche all’introduzione di un farmaco sperimentato in Svizzera, capace di attenuare i vaneggiamenti e le sofferenze indotte dalla schizofrenia e dunque, secondo le autorità della Chiesa, a tentare di “correggere il progetto divino”. La lunga storia della lotta – per nulla eroica, fatta piuttosto di onestà, di rispetto di sé stessi e quindi degli altri, e di amore – condotta da Germàn e María, nonostante le diversioni e le riprese continue, non è di quelle che si possono abbandonare prima di essere giunti all’ultima pagina del libro.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una tesi tempestiva e dirompente

Jonathan Franzen, E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica. Einaudi 2020 (pp. 64, euro 10)

Una tesi che giunge tempestiva, e dirompente, quella di Franzen, in tempi nei quali ricorrono – fino a diventar rituali, quando l’attenzione non è interamente assorbita dalla pandemia – i riferimenti al green new deal prossimo venturo: “Al contrario della destra – constata lo scrittore –, la sinistra si vanta di ascoltare i climatologi, i quali effettivamente riconoscono che la catastrofe è teoricamente evitabile. Ma non tutti sembrano ascoltare con attenzione”. Non si accorgono, o non vogliono tener conto di quel teoricamente. Perché praticamente, invece, la crisi climatica è irreversibile: sono solo “vecchie insulsaggini” quelle ripetute da chi – politico o militante ambientalista che sia – si dichiara convinto che “abbiamo ancora dieci anni” e dunque è il caso di “(metterci) al lavoro per salvare il pianeta”. Ecco la questione: dopo tante letture che si ponevano il problema dell’indifferenza diffusa al riscaldamento climatico, del fare come non si credesse alla sua realtà – da Gosh a Safran Foer a Vargas, per citare solo alcuni degli autori di saggi segnalati in queste note – Franzen, in poche, densissime pagine assume una posizione che molti (?) di noi non possono sentire del tutto estranea: occorre “venire a patti con la possibilità che l’apocalisse climatica si (verifichi) nel corso della (nostra) vita”, perché non c’è stata la volontà e non ci sono ormai più i tempi necessari di porvi rimedio, e dunque  insistere sulla questione poteva aver “senso negli anni Novanta, quando sembrava possibile che il mondo prendesse misure collettive per ridurre le emissioni di CO2”, non oggi che è “ormai chiaro che le misure collettive (sono) fallite”. Che cosa vuol dire allora, giunti a questo punto, quel “venire a patti” con la catastrofe incombente? E qui Franzen ci racconta del suo percorso recente: “il movimento ambientalista, che in precedenza difendeva animali e piante selvatici e si batteva per preservare i loro habitat, era stato quasi completamente fagocitato dalla questione del cambiamento climatico. Ormai i maggiori gruppi ambientalisti dedicavano gran parte delle loro energie e risorse a quell’unica questione, sostenendo che se non fermiamo il cambiamento climatico, nient’altro avrà più importanza.” Un discorso “futile”, se messo a confronto con il grado cui è giunta la crisi ambientale, mentre concreta dovrebbe essere l’“attenzione al mondo della natura, dove si (possono) ancora prendere misure di conservazione significative ed efficaci”. Gocce nel mare, si potrebbe obiettare, e Franzen ne è consapevole. Senonché, sostiene, far cose giuste dà senso alla vita. Anche quando è minacciata alle sue radici: “Una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono maggiore significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente. Ma la catastrofe che incombe rende più urgente quasi ogni azione di miglioramento del mondo. (…) è altrettanto importante combattere battaglie più piccole e locali che avete qualche realistica speranza di vincere. Continuate a fare la cosa giusta per il pianeta, sì, ma continuate anche a cercare di salvare ciò che amate nello specifico – una comunità, un’istituzione, un luogo selvaggio, una specie in difficoltà – e a rallegrarvi per i vostri piccoli successi. Ogni cosa buona che fate è presumibilmente una protezione contro un futuro più caldo, ma la cosa davvero importante è che è buona oggi”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La gratitudine, un sentimento plurale, che si realizza nella reciprocità

Delphine de Vigan, Le gratitudini, Einaudi 2020 (pp. 160, euro 17,50)

“E poi c’è stato quel giorno d’autunno, che nulla aveva preannunciato. Prima le cose funzionavano. Dopo non funzionavano più”: la vecchiaia conosce in molti casi, anche se non sempre con un carattere così repentino, un punto di svolta. Quello che separa l’autosufficienza dalla dipendenza dagli altri; che è rappresentato dall’abbandono forzato della propria casa, in cui si poteva continuare “a leggere, a vedere la televisione, a ricevere qualche visita”, per trasferirsi in un posto che impone le sue regole e non è un’altra casa ma di fatto lo sarà, fino alla fine, ormai sfumata la libertà di frequentare chi si preferisce e obbligati invece a relazioni sgradevoli, come quella con la direttrice della Rsa in cui Michka, la protagonista, si deve rassegnare a vivere. Perché “(sta) perdendo”: non sa dire che cosa ma lo sente.

Tutto si gioca nel dialogo, in questo romanzo. Anche ciò che Michka sta perdendo emerge dalle risposte che dà: “fa pena”, ma voleva dire “va bene”, e il condominio è “senza difensore”, per cui raggiungere il sesto piano è faticoso… Sono le parole, le parole giuste che questa vecchia donna non trova più quando le servono, lei che ha lavorato in un giornale come “correttrice” e non si lasciava sfuggire “i refusi, gli errori di sintassi, le concordanze sbagliate, le ripetizioni…”. Lei, donna di letture colte, si ritrova fra vecchie sconosciute, costrette alla sedia “a rondelle”, a dover vivere “un’esistenza sminuita, ristretta, ma perfettamente regolata”, fatta di “passettini, sonnellini, merendine, uscitine, visitine”. Non fosse per la presenza frequente di Marie – non una parente, di più (è stata allevata da Michka come una figlia) – e per i momenti passati con Jérôme, l’ortofonista dell’istituto. Sono loro a raccontarci di Michka e ad offrirci una gamma completa dei sentimenti che questa vecchiaia estrema – eppure a suo modo lucida, ribelle non di rado, ironica sempre – suscita. Il rispetto, in primo luogo: lo stato in cui si trova non può far dimenticare la donna che è stata, e non può quindi – avverte Marie – esser trattata come una bambina; ma anche il senso di impotenza di fronte alla pochezza cui la comunicazione, se deve ricorrere al telefono, è costretta. E poi la sorpresa – di Jérôme – di fronte alla vivacità intellettuale della sua paziente, l’ammirazione per l’arguzia che filtra attraverso le sue frasi, rese in molti casi bislacche dall’afasia incipiente. Si commuove, l’ortofonista, davanti a questa vecchia signora come agli altri vecchi che cura, perché quando li incontra per la prima volta è sempre “all’immagine del Prima” che pensa, al fatto che hanno vissuto, hanno amato, gridato, gioito: è denso di lezioni come questa, il romanzo, di lezioni su come superare le barriere che impediscono di stabilire relazioni vere, significative e trasparenti con i vecchi (“i vecchi”, come pretende si dica Michka, non “le persone anziane”). Barriere che sono in gran parte frutto della rimozione dei pensieri a proposito di sé stessi che i vecchi inducono: “Com’è possibile?” si chiede Jérôme davanti all’avanzare dei guasti della vecchiaia. “È davvero quello che ci toccherà, a tutti quanti, senza eccezioni?” E neanche Marie sfugge a pensieri simili: “Quando mi immagino da vecchia, proprio vecchia, (…) a sembrarmi più dolorosa, più terribile, è l’idea che non mi tocchi più nessuno. (…) forse il corpo si accartoccia, s’intorpidisce come per un lungo digiuno. O forse invece grida per la fame, un grido muto, insopportabile, che più nessuno vuole ascoltare”.

Riconoscere l’inevitabilità del declino – non accettarlo serenamente, come spesso la letteratura sulla vecchiaia disinvoltamente raccomanda – è condizione della serietà che il rapporto con i vecchi chiede: “Possiamo solo rallentare le cose, ma non possiamo fermarle”, dice, sia pure con qualche esitazione, l’ortofonista alla paziente, la quale a sua volta appare consapevole: “so benissimo come andrà. Alla fine non ci sarà più niente, niente più parole”. E l’autrice, in uno dei rari passaggi in cui prende la parola, riconosce a sua volta che “invecchiare è imparare a perdere. Incassare, ogni settimana o quasi, un nuovo deficit”, e allora “Riadattarsi. Riorganizzarsi. Fare senza. Passare oltre. Non avere più niente da perdere”. È la progressione che la protagonista è costretta a vivere, ma che non cancella il tratto fondamentale della sua esperienza, quel che la vita le ha insegnato: la gratitudine, le gratitudini anzi, per chi si prende cura di lei e ne riceve un laconico “Gratis”, il grazie di cui Michka è capace, ma anche per coloro che, tanto tempo prima l’ha salvata, dopo che i genitori erano scomparsi in un lager. Nicole e Henri: ne ricorda solo i nomi, non il cognome. Ma riuscirà a raggiungerli con l’aiuto di Marie e soprattutto di Jérôme, i suoi due angeli custodi, mossi anche loro dalla gratitudine, la gratitudine per questa vecchia donna che ha saputo vivere la sua vita, senza perdere di vista gli altri, fino all’ultimo.

È un sentimento che si declina in molti modi, un sentimento plurale, la gratitudine di cui ci viene raccontato in questo romanzo ma, soprattutto, un sentimento che si realizza nella reciprocità.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Senza una rappresentazione vigorosa delle cose – animate o inanimate…”

“Senza una rappresentazione vigorosa delle cose – animate o inanimate –, senza la rappresentazione di ciò che è reale, non resta niente. La linfa vitale della narrativa è la concretezza, l’incessante concentrazione sui particolari, il fervente interesse per la natura singolare delle cose e la profonda avversione per le generalizzazioni”. (Philip Roth)

I libri e le vite, prestiti a tempo

Domenico Dara, Malinverno, Feltrinelli 2020 (pp. 332, euro 18)

Timpamara, un paese e la sua gente – un catalogo di figure segnate da una fisionomia e da una storia irripetibili –, ricorda uno di quei luoghi che i romanzi latinoamericani hanno reso indimenticabili. A farne uno scenario inconfondibile è in questo caso la presenza di un maceratoio, annesso alla cartiera cui fornisce la materia prima, nel quale migliaia di libri finiscono in poltiglia, non senza aver però prima disperso per l’aria che circola fra le vie del paese pagine che gli abitanti prendono l’abitudine di leggere, cadendo vittime del “morbo della lettura” e traendone nomi letterari per i loro figli. Sicché a Timpamara può capitare di chiamarsi Victorugo o Mopassàn, Marselprù o Ortìs, e persino Astolfo, come il protagonista di questa storia fatte di storie, Astolfo Malinverno, quello del titolo appunto, che impariamo a conoscere, stimare, fino ad affezionarci alla sua persona pagina dopo pagina e a voler vedere che cosa accadrà del suo amore per Emma Bovary. Già, perché oltre che bibliotecario, Malinverno è guardiano del cimitero e nel personaggio flaubertiano identifica fin da subito la donna ritratta nella fotografia che decora una tomba senza nome e senza date. Una donna che si farà presente, in carne ed ossa…

I libri da una parte, i morti dall’altra: sono questi i due mondi nei quali si svolge la storia, due mondi fra loro assonanti: anche i libri muoiono – per morte violenta nel maceratoio, o per lenta consunzione, della carta, della legatura – e difatti seppellisce anche loro, il bibliotecario-camposantaro, riflettendo sul fatto che “in fondo tutto quello che ci viene dato nella vita è un prestito a tempo che prima o poi dovremo rendere” e dunque “nulla ci appartiene davvero, come se l’universo fosse una grande biblioteca nella quale si dispensano comodati d’uso di solitudine, gioia, rimpianto, tutti appuntati su schede scritte minutamente, sapendo già che a qualcun altro andranno un giorno i nostri oggetti, le nostre sensazioni, i nostri respiri”. Sono la semplicità di Malinverno, la verità trasparente del personaggio a far sì che pensieri del genere non risultino posticci né suonino retoricamente aggrondati. È un filosofo, lui, di quelli che non scrivono, perché sanno che il destino di ognuno “è già scritto”, “da un Signore immenso con in mano un quaderno sul quale scri(ve) le vote degli uomini e le loro morti”. Cionondimeno, le nostre vite non sono bell’e fatte, perché “noi non siamo quello che abbiamo vissuto; siamo quello che abbiamo pensato, immaginato, sperato, desiderato, dimenticato” e “l’universo mai saprà ciò che davvero è stata la nostra esistenza silenziosa e clandestina, nessuno mai conoscerà i nostri viaggi segreti, i nostri amori immaginati…”. E difatti – sono le parole conclusive – se il destino dei libri è morire come esseri viventi, anche gli uomini, quando smettono di respirare, non diventano che storie”.

Oltre che alla sua geniale levità, si è attribuito il successo straordinario di Valérie Perrin e del suo Cambiare l’acqua ai fiori (in queste note il 20 ottobre dell’anno scorso) alla propensione – indotta dalla pandemia – a pensare in modo diverso, meno episodico e superficiale alle grandi questioni della vita e della morte: se così è, merita di rappresentare un riferimento analogo il romanzo di Dara. Un romanzo filosofico, a suo modo, sorretto da una storia avvincente.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Le luci e le ombre dell’amicizia maschile

Roddy Doyle, Love, Guanda 2020 (pp. 352, euro 18,50)

Due amici, irlandesi, quasi sessantenni. Davy è andato ad abitare in Inghilterra – l’ha voluto la moglie, donna indipendente, imprevedibile, fascinosa –ma è a Dublino da qualche mese per assistere il padre, ormai alla fine.  Una sera telefona a Joe, grande amico fin dai tempi della scuola. E fanno quello che fanno da quelle parti: il giro dei pub, a bersi non san più neanche loro quante pinte di birra. “I pub, il mondo degli uomini”. Le donne, in netta minoranza in questo ambiente, “erano ospiti. Gli uomini i padroni di casa”. “Gli uomini uscivano da un mondo per entrare in quello vero. Quello segreto. Quello sacro. Quello che conoscevano soltanto loro. (…) Fuori era tutta una messinscena, giusto sopportazione. La vita era il pub”.

E in diversi di questi luoghi si svolge la storia, fatta del racconto di un fatto accaduto trentasette anni prima. In un pub, ovviamente: i due avevano conosciuto Jessica. “La nostra ragazza” l’avevano chiamata subito, perché ne erano stati entrambi ammagliati. Ma è Joe che casualmente la rincontra quasi quattro decenni più tardi. Ed è fatta: gli sembra di essere rimasto sempre con lei, come se gli anni, un matrimonio – felice, per altro – e i figli non ci fossero stati, non contassero. Li lascia infatti, per mettersi con lei, Jess. Perché fin dalla prima volta che si rivedono, dopo quell’incontro imprevisto, lui ha sentito di “essere entrato nei giorni che gli restavano da vivere”, ha sentito di coincidere con la propria vita, come se un vuoto di cui credeva di non sapere si fosse improvvisamente colmato. Il che non gli impedisce di continuare ad amare la moglie… Tutto qui: la storia è questa. Detta, ripetuta in cento modi, in una serata alcolica che è Davy a raccontare. Davy, che ascolta l’amico e capisce, perché la sa anche lui la differenza che c’è fra “star bene”, con una donna, e l’esserne innamorati…

Il tema vero del libro è l’amicizia maschile, le sue luci e le sue ombre. I due si spiano, misurano quanto di quel che era è rimasto nell’altro, e quanto invece è cambiato, dell’altro facendo lo specchio di sé stessi. Un’amicizia vera, comunque, che permette di dire tutto, anche quello che indispone, in un andirivieni fra passato e presente che sembra azzerare il tempo. Anche se il tempo si fa sentire: la vecchiaia è alle porte, lo sanno tutt’e due, i segni non mancano, anche si ci scherzano sopra. Ma il fatto è che l’amore è ancora lì – esperienza decisiva della vita, a conti fatti. Tanto da intitolarci il libro. L’amore. Dimensione pervasiva, diversa nelle diverse stagioni della vita, diversa nelle diverse relazioni che si vivono. L’amore, ma anche la fine, la morte: nella forma dell’agonia del padre di Davy, che conclude il libro, in pagine che gettano luce su tutto quanto ha preceduto.

E c’è dell’altro, a fare di questo romanzo una lettura in cui si sprofonda, battuta dopo battuta: la storia è affidata quasi interamente al dialogo. Un dialogo spezzato, pieno di interruzioni, di mezzi insulti, di scuse e messe a punto, di ironia e umorismo.

È così che si parla delle cose che contano nella vita, sembra dirci l’autore. È così che ne sanno parlare gli uomini, quanto meno.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“L’ispirazione è un fenomeno misterioso e non sempre uno scrittore…”

“L’ispirazione è un fenomeno misterioso e non sempre uno scrittore sa perché scrive quella certa storia che scrive. A me è capitato che una storia da 300 pagine mi venisse incontro bell’e pronta in mezzo minuto, mentre attraversavo la strada. Dovevo solo trovare il tempo di mettermi a scriverla e una volta terminata, riuscire a definire di che cosa il libro trattasse, in modo che ne potessi parlare”. (Auður Ava Ólafsdóttir)

Il corpo del poeta

Marco Santagata, Il copista, Guanda 2020 (pp. 144, euro 16,00)

“La schiena rigida, le giunture anchilosate”, “l’ulcera allo stomaco”, “uno stimolo al basso ventre” e “un confuso desiderio di urinare”, sintomi di quella che oggi si riconoscerebbe come prostatite, che tuttavia non escludono il desiderio confuso di “versare il seme dentro al corpo di una sconosciuta”: il ritratto, o il quadro nosologico se si vuole, di un vecchio, insomma, che pure non ha superato i 64 anni. Ma nel Trecento era una bella età… Eh sì, perché il vecchio di cui si parla – immalinconito, rancoroso e solo, non fosse per la presenza dei una vecchia governante – è Francesco Petrarca, e chi lo descrive con tanto spietato realismo è un petrarchista di fama internazionale, cui dobbiamo la cura di un’edizione recente del Canzoniere (nei Meridiani Mondadori) e l’individuazione della novità rivoluzionaria del poeta, la cui poesia – leggiamo in un saggio pubblicato nel sito dell’autore: – “rompe con la dimensione sociale” per sostituivi una dimensione interiore”, al cui centro non c’è più “l’amata”, ma “l’Io del poeta”. Non è tuttavia lo storico della letteratura che incontriamo qui, bensì il romanziere, che rivisita la materia dei suoi saggi in chiave narrativa (così aveva fatto anche nel 2015 a proposito di dante e Beatrice con Come donna innamorata (Guanda). Altrettanto adesso, con un romanzo – che aveva già visto la luce dieci anni fa da Sellerio e ora l’autore ha rivisto – nel quale compaiono anche lo scetticismo e i dubbi religiosi del poeta, aspetti già sondati in sede accademica e che ora si fanno ingrediente non secondario di un ritratto che, pur sempre entro i limiti della verosimiglianza e del rispetto della verità storico-biografica, deve molto all’immaginazione del narratore. A partire dalla scelta di avvicinare il protagonista in un giorno per lui fatidico, un venerdì – siamo a Padova, nel 1368 –, un venerdì come quello che nel 1327 ricorreva il 6 aprile, data del primo incontro con Laura ad Avignone; un venerdì come quello della sua morte per peste nel 1348.  Una Laura che nel frattempo aveva vissuto, comunque, e aveva fatto a tempo a invecchiare (a differenza delle donne dello Stil Novo che potevano morire, ma non conoscere la terza età, ci fa notare l’autore stesso in un’intervista sulla Lettura dello scorso 10 maggio) e a diventare una “matrona sfiancata dalle gravidanze”, di cui l’ultima volta che l’aveva vista non aveva potuto non notare il “culone ballonzolante” e la “pancia gonfia che neppure si distingue dalle tette”.

Ma si deve all’immaginazione partecipe del narratore anche la descrizione non  solo degli acciacchi fisici del poeta, ma anche dei suoi dolori morali: per l’abbandono, l’anno prima, da parte del suo giovane copista, tal Giovanni Malpaghini, su cui aveva trasferito le aspettative che il figlio Giovannino (ormai morto da tre anni, anche lui di peste) aveva deluso, con il suo assoluto disinteresse per la cultura, e che non aveva  potuto soddisfare neanche il nipote Franceschino, figlio della figlia Francesca, la precoce scomparsa del quale ha ancor più irrimediabilmente ferito l’animo del nonno.

Una vita famigliare travagliata, che nega ogni consolazione al vecchio poeta, e si era svolta del resto all’insegna di un rapporto equivoco, e spregiudicato, con le donne, tanto che entrambe le madri dei due figli restano ignote (come del resto quella, o quelle, dei cinque figli di un amico di Petrarca, Giovanni Boccaccio, che compare nel romanzo). Senonché, anche in questo caso la fantasia dell’autore cerca di colmare un vuoto, almeno per quel che riguarda la genitrice di Giovannino: una zingara, “capelli corvini, pelle ambrata, lucida, profumata” (“Caro Francesco, a te sono sempre piaciute le baldracche, si diceva. Puttane e concubine sono le mogli del poeta!”).

Resta nella mente, a letture finita, la figura di questo vecchio ridotto a pagare in solitudine il prezzo di una vita condotta all’insegna di un “desiderio bruciante di gloria” che si è rovesciato ormai nel quotidiano “desiderio di avvoltolarsi nel dormiveglia”, in “un torpore animalesco”, in una “pigrizia” che dal momento del risveglio si è via via estesa all’“intero arco del giorno”, sì che la pur continua produzione di scritti, accolti da una schiera di estimatori diffusi in tutta Europa, è solo il frutto di una coazione, di un lavoro in cui la “grazia di un tempo” ha lasciato il posto ai “sotterfugi” sufficienti per scrivere “frasi ritrite” e lettere del tutto formali: “Caro Francesco – è la sconsolata e lucida ammissione del poeta – tu petrarcheggi, sei la scimmia di te stesso”. Ma un “compiaciuto disincanto” ha nonostante tutto la meglio: “il barare era un buon mezzo, se non per conquistare la fama, almeno per conservarla”. È il ritratto di un uomo malato di un bisogno insopprimibile di riconoscimento quello che alla fine il romanzo ci consegna, un Petrarca molto attuale, anche in questo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un romanzo di formazione alla fine di un’epoca

Paolo Malaguti, Se l’acqua ride, Einaudi 2020 (pp. 189, euro 18,50)

Metà anni Sessanta; un paese, Battaglia, della Bassa Padovana con la sua rete di fiumi (Brenta, Bacchiglione) e canali che ne derivano: questo lo sfondo su cui si svolge la vicenda di Ganbeto, nipote e figlio di barcari. Il nonno Caronte è proprietario di un burcio, la Teresina, uno dei tanti barconi da carico che navigano nella zona spingendosi fino a Chioggia e Pellestrina, e a Venezia qualche volta.

Una vicenda in cui campeggia, oltre a quella del protagonista, la figura del paròn del burcio, conoscitore consumato del suo mestiere, ruvido e intuitivo, sprezzante e generoso: chi ha visto in televisione Andrea Pennacchi, detto il Pojana, non può che dare il suo volto e la sua voce al vecchio Caronte.

Desideroso di lasciare una scuola dove si parla una lingua lontana da quella di tutti i giorni e si insegnano cose astratte e  inutili, Ganbeto – magrino e curvo come il ferro a U che serve a unire la catena all’ancora – aspira a fare il barcaro, come il nonno e il padre, e il suo sogno si avvererà, per due estati, quando però il tempo dei burci è ormai alla fine, persino di quelli che non usano più la vela (come la Teresina) ma il motore e sono tuttavia insidiati dalla concorrenza che sempre più esercitano i camion.

Con una lingua densa di termini dialettali (opportuno il glossario in appendice), si evocano atmosfere alla Huckleberry Finn, ma che richiamano, sempre con un sorriso partecipe – color Amarcord, a volte –, anche il Carlino di Ippolito Nievo quando Ganbeto vede per la prima volta il mare, oltre la laguna.

Con i primi rudimenti – badare ad esempio se l’acqua ride, gorgoglia cioè, perché lì  il fondo è pericolosamente basso – il ragazzo conosce i primi turbamenti sessuali, il fascino misterioso cui allude un parola altrettanto enigmatica, “formicazione”, e si innamora di Lucia, la giovane di bottega incontrata a Pellestrina, in ciò inaspettatamente incoraggiato dal nonno del quale, dopo che il padre ha dovuto rassegnarsi a entrare alla “Fabrica”, da morè (mozzo) che era è diventato marinèr (aiutante in seconda, si direbbe se il burcio fosse una nave).

Ma il tempo dei barcari, si diceva, è giunto al tramonto e la fierezza di Caronte si farà puntiglio, attaccamento ostinato a una cultura dissolta: “Noialtri giriamo il mondo, siamo foresti dapartutto, l’unica nostra casa l’è la barca”, dirà il vecchio fino all’ultimo, fino all’”acqua granda” del novembre ’66 in cui scomparirà. Mentre lui, Ganbeto, ormai dismesso il suo nome da “bocia”, si rassegnerà a un lavoro sedentario, in un’officina, consolando con la tanto desiderata Vespa e un nuovo amore il suo cuore di barcaro. Un romanzo di formazione sempre lieve nei toni, che rifuggono dall’epica ma non da un rimpianto sincero, a tratti struggente.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Dietro la maschera del progetto intellettuale nella stesura di un romanzo…”

“Dietro la maschera del progetto intellettuale nella stesura di un romanzo c’è un enorme lavoro tecnico. Per i lettori quello che conta è l’intenzione intellettuale, il percorso che lo scrittore intraprende quando scrive, ma dal punto di vista del romanziere è la tecnica narrativa che bisogna avere e che sostiene la struttura del testo. (…) I lettori pensano all’ispirazione dello scrittore, mentre io credo che sia più una questione di traspirazione; lo scrittore suda”. (Pierre Lemaitre)

Prescrizioni per aspiranti scrittori

Vanni Santoni, La scrittura non si insegna, minimum fax 2020 (pp. 99, euro 13)

Però la “mentalità dello scrittore”, il “pensare come uno scrittore”, sì, quello si può insegnare – leggiamo nell’introduzione – purché non si associ a questo modo di pensare l’immagine romantica dello “scrittore solitario e geniale, che lotta con le sue sole forze nonostante un’editoria sorda e corrotta che cerca di ostacolarlo in ogni modo”.

Segue una rassegna di pareri autorevoli secondo i quali, appunto, la scrittura non si insegna. Uno per tutti, Natalia Ginzburg: “Certo, se hai tra le mani un manoscritto, allora puoi dire la tua, osservare: qui mi sembra troppo lungo, qui troppo sovraffollato. Ma questo non è insegnare, si tratta di consigli”. Senonché, le scuole di scrittura sono dilagate e l’autore stesso ammette di tenere svariati corsi, pur essendo dell’opinione espressa nel titolo. Come si spiega? “Il motivo è uno, semplice e perentorio: la vastità infinita delle possibilità di un testo narrativo implica che infinite cose si possano scrivere in infiniti modi”. E allora le scuole di scrittura non sono dannose, sempre che non si prefiggano di insegnare definizioni e regole della narratologia: “se uno scrittore è interessato alla ‘tecniche’ – diceva Faulkner – farebbe meglio a darsi alla chirurgia o alla muratura. (…)  Un giovane scrittore che pensa di poter seguire una teoria è un imbecille”. Insegnare a scrivere, insomma, non è offrire cibi nutrienti e già cucinati che si tratta solo di digerire: è piuttosto “una sorta di integratore, perché a scrivere si impara solo leggendo e scrivendo”.

Poste queste premesse, è possibile prendere in considerazione alcuni punti fondamentali, che l’autore sceglie di proporre in un torrenziale e franco, a volte provocatorio, colloquio con l’immaginario aspirante scrittore.

Quello che abbiamo fra le mani è infatti un pamphlet – l’autore stesso lo definisce così – che dà suggerimenti precisi: al di là del tono volutamente perentorio, essenziali, utili, seri. Perché tratti dalla propria concreta esperienza di scrittore.

E dunque, leggere innanzitutto, e leggere ancora, ma non di tutto. Occorre partire niente meno che da Proust e Joyce – sì: dalla Ricerca e dall’Ulisse – per affrontare poi alcuni “romanzi-mondo” del ’900 e proseguire con altri autori, molti altri (vedi elenco, anzi: elenchi). Perché “l’aspirante scrittore deve anzitutto cambiare il proprio approccio alla lettura” e “la prima cosa che va curata, se si vuole scrivere seriamente, è la dieta. Solo nutrendosi di libri buoni si può pensare di produrne uno decoroso”, senza dimenticare che ci sono libri buonissimi dai quali però “non è immediato imparare qualcosa” (Lo straniero di Camus, per dire).

Dopo la “dieta”, la “disciplina”: “Se vuoi scrivere seriamente dovrai togliere tempo a molte cose, e in ogni momento avere con te un libro. In genere gli altri interessi scompaiono e anche la vita privata ne patisce”. Inevitabile, perché si tratta – ecco il “segreto aureo” – di scrivere tutti i giorni almeno duemila battute, “meglio se a orari fissi” e senza impegni e scadenze incombenti: “l’ispirazione arriva regolarmente solo se ci si mette al lavoro con regolarità” e allora, solo allora  “ci si scopre a pensare al romanzo o al racconto da scrivere anche mentre non si sta scrivendo” (e dunque sempre un taccuino a portata di mano) e la fondamentale fase di “incubazione”, successiva a quella dell’“ideazione”, può protrarsi durante tutta la fase di “stesura”, che è invece necessario non si mescoli con l’ultima, quella di “revisione”. E tantomeno con la navigazione in rete, anche se finalizzata a trovar vocaboli o notizie utili alla scrittura in corso. Meglio rimandare a dopo.

E il famoso blocco? il non saper o il non aver più voglia di scrivere? C’è il rimedio: portare avanti tre o quattro capitoli o racconti in contemporanea. Da uno o dall’altro si ripartirà. Ma se non si sa proprio cosa scrivere? Scrivere comunque, copiando la pagina di un grande, se occorre: l’essenziale è non stare neanche un giorno senza scrivere.

“Questo libro potrebbe finire qui”, non fosse che resta da “insegnare soprattutto cosa non fare”, come diceva Carver. Non “cadere nei cliché”, in primo luogo, nei “luoghi comuni”, che possono annidarsi nello stile come nella vicenda (per i primi, si veda l’illuminante elenco formule stereotipate e frasi fatte). In secondo luogo, “non scrivere cose noiose”, cose cioè in cui mancano “necessità” o “specificità”. Ovvero: “tutto ciò che metti in un testo deve servire a qualcosa”, e guai alle spiegazioni non richieste da parte del’autore; fuggire la genericità, inserendo pochi ma essenziali dettagli, con originalità, in modo da costruire una propria “voce”; non far mancare una dimensione di conflitto: “‘un gatto va sul tappeto’ non è una storia. ‘Un gatto va sul tappeto di un altro gatto’, invece, sì”.

E infine, una volta scritto, non omettere di revisionare, rileggere e rileggere una volta ancora (anche “in ordine inverso”, anche ad alta voce, anche su carta) quel che si è scritto. Ma non oltre quel punto oltre il quale invece di migliorare si comincia a peggiorare il testo. E poi farlo leggere ad altri, ad amici che siano “pari”: non il consorte o l’amico più caro, per intenderci, ma neanche l’autore noto, lo scrittore di professione che tempo per i manoscritti degli altri non ne ha. “Pari” sono gli amici che scrivono anche loro, o ci provano, non importa se trovati attraverso internet. Far leggere quel che si è scritto, dunque, anche pubblicandolo su blog personali o collettivi. Anche raccontandolo quando ancora lo stai scrivendo.

A quel punto, la pubblicazione non è che la forma finale dell’ostensione: finale, il che significa che il naturale e comprensibile desiderio di pubblicare non deve essere dominante rispetto a tutto il lavoro necessario per metterlo al mondo, il tuo romanzo. A quel punto evitare gli editori a pagamento. Meglio il self-publishing, “un’opzione più pulita”, ma senza pensare che rappresenti un primo passo sulla via del diventare davvero uno scrittore (né una buona presentazione per editori veri). Le riviste letterarie piuttosto (un utile elenco, anche di queste), o i premi per inediti. Quanto agli agenti editoriali, non sono una garanzia, anche se il loro ruolo è destinato a diventare sempre più decisivo. Una considerazione conclusiva, anche se affidata a una nota in una pagina lontana dalla fine del libro: se un libro è buono viene pubblicato. “Questo perché, sebbene gli editori vogliano una sola cosa – vendere libri – esiste ancora una fascia specifica di mercato, quella dei lettori di buona letteratura, ed è a essa che devi puntare”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La cultura e l’arte di arrangiarsi

Franco Faggiani, Non esistono posti lontani, Fazi 2020 (pp. 285, euro 18)

Monuments Men: è il film del 2014 a tornare in mente. Anche nel romanzo di Faggiani si tratta infatti di strappare al furto dei nazisti quadri di valore. Ma i protagonisti di questo romanzo non sono eroi. Un duo donchisciottesco, piuttosto: il professor Filippo Cavalcanti, archeologo di fama – è frutto di uno scavo da lui diretto il prezioso sarcofago che sta per prendere la via della Germania insieme al resto – degradato a oscuro impiegato negli scantinati del ministero, è un colto e convinto difensore del patrimonio artistico nazionale. Spedito da Roma a Bressanone per controllare il regolare svolgimento del trasporto non si lascia scappare l’occasione di impedirlo, mosso da senso di giustizia e civile spirito di servizio più che da una presa di posizione antifascista che in lui – per sua stessa ammissione: è la voce narrante – non ha mai superato i limiti di “un’opposizione minima, un fatto d’orgoglio personale”. Non ce la farebbe tuttavia se non incontrasse casualmente Quintino, giovane ladruncolo di Ischia mandato lassù al confino, maestro nell’arte di arrangiarsi, animato da un ottimismo inattaccabile. È lui, meccanico provetto, a rubare un camion grosso e potente (“’o rinoceronte”), a dargli l’aspetto di un mezzo della Croce Rossa, a caricarvi le casse in cui si custodisce il prezioso carico e generi alimentari da barattare con carburante, a ideare un percorso che, per giungere a Roma, passerà per la Svizzera e il Piemonte al fine di evitare tedeschi e repubblichini.

A poco a poco, il dislivello culturale e la differenza di età fra i due (il professore, tanto distinto da non sfigurare nel travestimento da colonnello tedesco, ha passato i settanta), così come il divario fra il disincanto pessimista dell’uno e l’intraprendenza  spregiudicata dell’altro, vanno attenuandosi e il professor Cavalcanti devo ammetterlo: Quintino, orfano di madre, con un genitore violento, cresciuto grazie alle cure provvidenziali di una signora altolocata e nonostante ciò finito a fare il ladruncolo, è  “davvero un ragazzo sveglio e allegro, con un passato difficile ma che in un futuro meno severo se la sarebbe potuta comunque cavare senza difficoltà”.  Non lo dimostrano solo le sue trovate geniali, che trovano nell’attempato compagno una spalla sempre meno renitente, ma anche la sua generosità con i poveracci che incontrano in una lunga peregrinazione lungo la linea Gotica in fase di costruzione: un monaco errante, un donna nascosta in  un cimitero coi due figlioletti, grazie alla quale possono incontrare il marito, capo partigiano, e poi altri monaci, a Camaldoli e a Fonte Avellana, finché finiscono nelle mani dei tedeschi, e saranno ancora una volta il coraggio e la prontezza, il “genio selvatico”  di Quintino a salvarli e a permettergli di giungere a Roma, nel frattempo liberata e nella mani di americani che si mostrano tuttavia non meno famelici dei tedeschi quando sentono parlare di opere d’arte allo sbando. E allora non c’è che una soluzione: proseguire il viaggio, puntare su Ischia, perché “non ci sono posti lontani”.  È dunque là che finiranno i quadri dopo un viaggio di centinaia di chilometri: mimetizzati fra i falsi di cui la marchesa, ormai svanita ma sempre abile nella copia pittorica, ha costellato le pareti della sua villa. E a Ischia, benché promosso a sovrintendente alle Belle arti e ai Beni archeologici nella capitale, ma in una situazione che rende impossibile l’esercizio di un ruolo del genere, finirà anche il professore, in attesa che torni ad esistere uno Stato abbastanza affidabile da potergli restituire quel che lui e Quintino hanno impedito ai nazisti di portarsi via.

Sembra di raccontare un film – tipo La Grande fuga – e invece è la trama di un libro, questa. Un libro cui sembra non mancare nulla per passare allo schermo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Il fatto è che ero lì, all’età di 40 anni. Avevo…”

“Il fatto è che ero lì, all’età di 40 anni. Avevo una moglie bellissima, tre bellissimi bambini, li adoravo tutti. Ma non ero veramente felice. Non è necessariamente la maledizione dello scrittore, questo. Ma forse è la maledizione dello scrittore di esserne consapevole, chiedersi: perché tutto questo, tutto quello che ho, non è abbastanza?”. (Karl Ove Knausgård)