Silvio Perrella, Io ho paura, Neri Pozza 2018 (pp. 124, euro 15)
“Una collezione di pensieri raccontati”. O anche: “uno Zibaldone di paure”, il “diario di un mese trascorso in un luogo di paure naturali”. L’autore stesso tenta ripetutamente di definire il libro che sta scrivendo, che ha scritto: ha promesso all’editore un libro sulla paura, sulle paure anzi, e per farlo è andato in un luogo di mare dove sopravvivono, appunto, “paure naturali”, quelle che un oggetto ce l’hanno, un oggetto che si può nominare, e che quindi i pescatori del posto non dimenticano ma sanno “celebrare com’è giusto che sia”. Non negare, non rimuovere. Anzi: le paure fan parte della vita, se la vita non è stata privata dell’invisibile. Dove tutto pretende di essere visibile, invece, e si dice che non si più paura, di niente, le paure dilagano, distruggono le relazioni, ci rendono soli, e sudditi. Sono le paure che non hanno nome, solo un acronimo se mai (AIDS, ISIS) e quando un nome parrebbero averlo è come non l’avessero: Migranti non evoca persone, ma solo un pericolo. Una paura appunto, una di quelle “fabbricate”. Perché la paura si può fabbricare su scala industriale: “Non c’è oggi fabbrica più fiorente”. Non occorre pensare a un maligno Grande Fratello: basta considerare che le paure, nate da fonti diverse e scoordinate, alla fine “tendono a fare sistema”, e a insinuare un’inquietudine incomunicabile. Qualcosa di indefinibile che “Sta a cuore a io e sta a cuore a tu. Ma non riusciamo a farlo stare a cuore a noi.”
Il luogo, fra nuotate e racconti dei locali, fa emergere “il tempo dell’oggi” nella sua insensatezza fatta di paure. Paure contro le quali occorrerebbe “una presa d’atto delle nostre ignoranze”, terreno fertile dei fabbricanti di paure: occorrerebbe “una messa in comune di quel che non sappiamo, e un tentativo di costruire conoscenze condivise. I tempi del mondo sono così tanti, anche in epoca di cosiddetta globalizzazione, e sarebbe importante fare studi di polifonia. Oggi bisognerebbe diffondere Bach; fare ascoltare le sue fughe, quel modo di intrecciare le voci mettendole in rapporto. Senza che l’una debba prevalere sull’altra.” Un romanzo? Un saggio? Un libro senza una forma precisa: come le paure di cui vuole parlare.
Luigi Guarnieri, Forsennatamente. Mr Foscolo, La nave di Teseo 2018 (pp. 205, euro 17)
Gabriele Dadati, L’ultima notte di Canova, Baldini+Castoldi 2018 (pp. 343, euro 18)
Simona Baldelli, L’ultimo spartito di Rossini, Piemme 2018 (pp. 381, euro 18,50)
Che fosse antipatico di suo, pare accertato, e il
giudizio era assodato anche prima che Gadda facesse del “vispo Nicoletto” il
bersaglio del suo sarcasmo in Il Guerriero, l’Amazzone, lo
Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (Adelphi 2015), attribuendo al poeta “una prosopopea insopportabile e una cialtroneria da
intrigante mandrillo”.
Non pare discostarsi da questo atteggiamento Luigi Guarnieri,
che del trentottenne Niccolò Foscolo, detto Ugo, racconta gli anni dell’esilio
a Londra: “attore istrionico e grande oratore”, “incanta e stupisce con la sua
forsennata vivacità”; “agghindato alla moda del periodo come un dandy”, “ai
ricevimenti e ai balli è un figura che s’impone: circondato dall’aureola della
celebrità letteraria, scandaloso come lo saranno solo le rockstar negli anni
Settanta del Ventesimo secolo, autore di un patetico romanzo di successo su un
amore infelice [Le ultime lettere di
Jacopo Ortis], è carismatico nel suo soprabito di panno azzurro coi bottoni
dorati, il cappello di pelo di castoro…”.
Ma è, e sempre più si rivelerà, solo apparenza: l’uomo è
malandato fisicamente, spendaccione e assediato dai debiti (fino a conoscere la
prigione per insolvenza), impacciato dal suo poco e cattivo inglese, e dunque
non può stupire che il suo ingegno sia “arrugginito dalle infermità e dai
guai”. Nonostante la sua sgradevolezza è comunque per la sua sorte che il
grand’uomo sollecita una solidale compassione nel lettore, dunque? No, al
contrario: più la storia delle sue disgrazie e dei suoi mali procede, più si ha
la sensazione che il racconto sottintenda un implicito ben gli sta. E non attenuano certo il giudizio i frequenti flash
back che completano la biografia risalendo agli anni precedenti: Foscolo è da
sempre sopra le righe, pieno di se stesso, autore di innumerevoli quanto
“esaltate” lettere d’amore, profittatore e ambiguo nei rapporti sentimentali
come in quelli con la figlia naturale e con i familiari lontani e sempre
vanamente in attesa di un suo aiuto.
Com’è possibile che un uomo simile scriva quelli che Guarnieri
stesso definisce “assoluti capolavori”, come Alla sera e A Zacinto? La
domanda non si pone, la questione del rapporto fra l’uomo e la sua opera non
pare proprio tra quelle che interessino Luigi Guarnieri: quello che si potrebbe
ritenere un nodo ineludibile per chi scrive della vita di un artista pare
ignorato. La biografia conferma lo stereotipo, e questo pare bastare.
All’autore, quantomeno.
Diverso il risultato cui giunge un altro romanzo pure dedicato
alla fine di un grande creatore. L’Antonio Canova che emerge dalle pagine di
Dadati non è quello che avevamo già in mente. È un uomo che, giunto alle sue
ultime ore, risponde al desiderio estremo di evocare il proprio passato e
giudicare il proprio operato, senza paura del dolore che gliene verrà. I flash
back, qui, sono conseguenza di questa volontà, e dunque risultano
narrativamente necessari: ne escono scene vive dell’età napoleonica, personaggi
non schiacciati sull’immagine codificata. A cominciare da Napoleone,
protagonista della storia – insieme alla sua seconda consorte, Maria Luisa – al
pari di Canova. L’uno e l’altro, l’imperatore e l’artista, accomunati dal
destino di figli orfani del padre e di uomini che non avranno figli: “alberi
senza radici, alberi senza fronde. In questo, dunque, da considerare fratelli”.
Uno sguardo disincantato e risolto sulla vita e sugli uomini
attraversa l’intera narrazione, giungendo alla conclusione che “occorre
imparare questo: ad aprire le mani, e lasciar andare i propri morti. Non
bisogna trattenerli, dopo che hanno smesso di far parte di questo mondo, perché
se no si vive in perenne tristezza.”
Romanzi biografici come questo sembrano smentire la convinzione di Borges secondo la quale “che un individuo voglia risvegliare in un altro individuo ricordi che non appartennero che ad un terzo, è un paradosso evidente.” Per cui, “realizzare in tutta tranquillità questo paradosso, (sarebbe) l’innocente volontà di ogni biografia.”
Lo stesso si potrebbe dire di un terzo romanzo nel
quale è un musicista a vivere l’ultima stagione della propria vita, Gioacchino
Rossini, evocato sulla base di una documentazione rigorosa e felicemente
tradotta in racconto, secondo un metodo che l’autrice stessa richiama nella
nota finale: “scrivere un romanzo, benché storico, non è solo inanellare
aneddoti. Occorre trovare una crepa in cui infilarsi e, pur nel rispetto del
personaggio, introdurre la propria voce”. La voce del narratore che cerca di
stabilire un nesso credibile fra la vicenda umana e la produzione artistica
dell’uomo: detto in altre parole, da dove viene la vocazione a divertire di
Rossini, e da dove la sua perenne fragilità, la sua paura di veder crollare da
un momento all’altro la sua straordinaria popolarità, le sue cadute frequenti
nella depressione, in certi periodi non attenuata neanche dal gusto smodato
della tavola? È già alla sua prima esibizione al fianco della mamma, cantante
per necessità, che il settenne Gioacchino capisce che il pubblico vuole vedere
gente allegra sul palcoscenico: lui “li avrebbe accontentati. Mai avrebbero
saputo della carestia in casa, la tristezza della tavola vuota, del padre in
galera e le mani della madre bucate dall’ago. (…) Avrebbe sorriso, sempre. A
costo di fare la scimmia ammaestrata”. Ma lui è ben altro. Il Mozart e il
Beethoven che escono dai quadri appesi alle pareti della sua camera di malato
terminale dialogano con Rossini, il musicista che richiesto di dire chi fosse
il più grande musicista di tutti i tempi rispose senza esitare: Beethoven, e alla sorpresa di chi gli
aveva posto la domanda, al corrente come tutti della sua predilezione per
Mozart aveva risposto, serafico: Mozart
non è un musicista, Mozart è la musica.
“Il concepimento è ben poca cosa rispetto al parto. Intendo dire che, fino a quando non sono state assorbite in una strategia narrativa d’insieme, le mie ‘idee’ – sul sesso, il senso di colpa, l’infanzia (…) – non erano diverse da quelle di chiunque altro. Tutti hanno ‘idee’ per romanzi; la metropolitana è piena di persone che si reggono alle maniglie rigirandosi per la testa idee per romanzi che non riusciranno mai a scrivere. Spesso anch’io sono uno di loro.”
Franco La Cecla, Essere amici, Einaudi 2019 (pp. 124, euro 12)
Che cos’è l’amicizia, innanzitutto: la sua indefinibilità, la sua “inafferrabilità” e insieme gli aspetti che possiamo ricavare dall’esperienza che ne facciamo percorrono le pagine del libro. Sin dall’inizio: “un’attrazione, un legame più o meno forte, che è come una parentesi fra tutte le altre relazioni formali o formalizzate, la famiglia, il mondo del lavoro, il mondo della politica. È un fuori salutare, un potersi chiamare fuori ogni tanto, una valvola di sfogo dagli impegni, un appoggio non richiesto ma possibile (…) apparentemente un fatto “meno importante” (e qui sta la poca perspicacia delle nostre società), un fenomeno a margine delle cose che contano. In realtà dietro a questa svalutazione, che è l’opposto di quanto il mondo antico sapeva, c’è una strategia interessante”, implicita, inconsapevole ma decisiva: “resistere alla famelica intrusività della società contemporanea.” La colonizzazione degli spazi informali che pratica ad esempio Facebook: il desiderio di amicizia non è l’amicizia, lo diceva già Aristotele e quella che ci offre il social è una “solitudine affollata”, frutto di “puro latrocinio”. Facebook “ci espropria del lavoro vitale che è quello di intrattenere rapporti, la costruzione quotidiana della nostra società intima e allargata.” Il che risulta tanto più grave se consideriamo che l’amicizia è “il campo costituente” delle moderne democrazie, “proprio perché precede ed è la condizione sine qua non del legame libero tra i cittadini”. Libero, come l’amicizia appunto, che non è tale se non è revocabile, in ogni momento, per le più diverse ragioni. Non garanzia ma reciprocità: le due caratteristiche essenziali di un legame, soprattutto nelle società occidentali di oggi, più forte della parentela spesso: “La relazione tra amici è più intima di quella che c’è tra fratelli”, secondo un detto cinese: “perciò gli amici si chiamano tra loro fratelli e i più intimi tra i fratelli sono amici.”
Osservazioni calzanti, che fanno riflettere, ma anche racconto di un sentimento che le parole fanno fatica a circoscrivere. E allora occorrono le metafore: “L’amicizia è l’esperienza di uno stare al balcone del presente non sapendo, mentre la si vive, che quello è il presente. C’è in essa una costituzione del tempo come riflesso nel presente di un tempo comune”, “un ambito dentro il quale il mondo può essere commentato”, magari cazzeggiando, ricorrendo a “quel parlare che è un gioco in sé”, il segno di una complicità, l’esito felice di una scommessa “rispetto all’idea che in fin dei conti siamo soli al mondo”, la conferma della possibilità di una relazione capace persino di travalicare la morte: “Cosa importa che Čechov sia morto? Per l’effetto che egli ha su di me conta molto poco. E questo vale per l’amicizia in generale. Essa non viene cancellata dalla scomparsa dell’amico o dell’amica, ma rimane fluttuante come garanzia di un mondo condiviso.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Carlo Carabba, Come un giovane uomo, Marsilio 2018 (pp. 174, euro 17)
Sono tanti i romanzi che in esergo richiamano la Recherche, pochi quelli che ne ricreano con esiti il più delle volte suggestivi la relazione con il presente e il passato, e addirittura il periodare denso di similitudini: “Nel corso degli anni, ormai cresciuto, avrei tentato più volte, passeggiando o correndo, di risalire a quel tempo smarrito, sperando che il contratto con lo stesso suolo che avevo visto coperto di bianco – come nelle fiabe la ripetizione di un gesto familiare rivela alla principessa smemorata che è tornata a compierlo le sue nobili origini e che non è quella che sta vivendo l’esistenza a cui è destinata – sapesse ritrovare la vibrazione originaria che aveva prodotto l’eco di ricordi che da tanti anni risuonava nella mia mente, restituendomi il centro perduto della reminiscenza e dell’oblio di cui ignoravo tanto e da cui tanto di quello che ero e sono dipende: la mia infanzia”.
Ma non sono solo incisi come questo a restituire
un’atmosfera proustiana: è lo sguardo che l’autore-protagonista rivolge al
mondo a far procedere la narrazione sui piani paralleli di ciò che avviene e di
quello che via via chi scrive ha provato, pensato, immaginato.
La relazione con il tempo, e dunque con la morte,
attraversa il racconto: non una riproposizione – che sarebbe necessariamente
velleitaria – di Proust, ma l’evocazione sommessa, e sorvegliata, del proustismo che abita ciascuno di noi.
Enrique Vila-Matas, Un problema per Mac, Feltrinelli 2008 (pp. 282, euro 19)
Un paradosso, a detta dello stesso Vila-Matas: un esordiente – anche se attempato imprenditore immobiliare fallito – che si propone di scrivere un romanzo postumo. Ma non solo: postumo e incompiuto. Non interrotto – dalla morte, come sarebbe giustificato pensare –, incompiuto, che è cosa diversa. Un libro che nasce all’insegna della falsificazione dunque, come del resto tutta la letteratura: “un modo di trasformare l’impossibilità di accedere a qualcosa di perduto in una possibilità o, quantomeno, di ricostruirlo, pur sapendo che non c’è più e che a nostra disposizione abbiamo solo la falsificazione”. Parole gravi, non fosse che – come tutte quelle che riempiono le pagine di questo romanzo – sembrano pronunciate per scherzo, per semplice amore del paradosso, appunto. Le parole di un aspirante scrittore che in cerca di un soggetto decide di riscrivere, migliorandolo, il romanzo di uno scrittore riconosciuto, suo vicino di casa, ma intanto, per farsi le ossa, si accontenta di tenere un diario. Il diario di questo suo cammino verso il momento in cui potrà considerarsi un vero scrittore. Anche se “puoi trascorrere anni a considerarti uno scrittore, tanto sicuramente nessuno si prederà il disturbo di venirti a cercare per dirti: ti stai illudendo, non lo sei.” Di qui si avvia la vicenda di questo ex imprenditore che non ci mette molto a rivelare di essere stato in realtà un avvocato, in una spirale di divertita falsificazione che non risparmia dunque neanche la sua identità, e che si dedica alla scrittura sapendo che “scrivere è tentare di sapere cosa scriveremmo nel caso in cui scrivessimo”, ossia che “in letteratura non si comincia perché si ha qualcosa da scrivere e a quel punto si scrive, ma il processo di scrittura propriamente detto è ciò che permette all’autore di scoprire cosa vuole dire.” Si tratta dunque, afferma programmaticamente l’autore, “di lasciarmi condurre alla scoperta del luogo in cui le parole mi vogliono portare.”
Un tracciato però c’è, ben chiaro, perché oltre alla falsificazione un’altra passione anima il protagonista: la ripetizione. È la ripetizione, del resto, a calarci nella vita, a “introdurci” nel tempo. Chi scrive non deve quindi temerla. Lo diceva anche Isak Dinesen. alias Karen Blixen: “La paura di ripetersi può sempre essere contrastata dalla gioia di sapere che si avanza in compagnia delle storie del passato.” Occorre coltivare il “piacere ripetitivo che non pregiudica nuove e inaspettate scoperte da parte di chi crea”, ed ecco allora la citazione, il rimando continuo ad altri autori che non può non richiamare Borges che in queste pagine vive anche grazie al tono di allusivo e a volte indecifrabile humour che le percorre. Fra i racconti scritti alla maniera di altri individuabili autori e che compongono il romanzo che il protagonista ha intenzione di riscrivere, ce n’è uno che dichiaratamente ripete Borges, e usa i suoi ricorrenti “stereotipi drammatici sottilmente parodiati”. Un romanzo sul romanzo, una scrittura che insegue la scrittura ma per sconfinare nella vita, perché ci sono “libri nei quali il lettore legge cosa gli sta capitando nella vita”. L’intreccio tra fatti reali e storie narrate ci accompagna in un gioco vertiginoso e sempre ironico fino alla fine, mettendoci a volte alla prova. Al punto da indurre l’autore stesso ad augurarsi “che il cielo dia pazienza al lettore” e gli permetta di seguire chi scrive fino all’epilogo della sua a lungo meditata sparizione nelle città e nelle oasi magrebine, dietro a una “lenta carovana di storie di voci anonime e di anonimi destini che sembrano confermare l’esistenza di racconti che si introducono nelle nostre vite e proseguono la loro strada confondendosi con esse.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Mori Ōgai, L’intendente Sanshō, Marietti 1820, 2019 (pp. 91, euro 10)
Quanti fratelli e sorelle popolano le fiabe che conosciamo, in qualche modo simili a Zuschiō e Aniu? E non mancano certo in questa storia le funzioni che Vladimir Propp enucleava nella sua Morfologia della fiaba, a partire dall’“allontanamento” che innesca il racconto della vicenda. Non di un racconto fantastico si tratta però in questo caso, ma di una leggenda che un medico militare giapponese vissuto fra Otto e Novecento, cultore della letteratura tedesca, riscrive in un’epoca in cui il suo paese conosceva profondi rivolgimenti politici e culturali, tali da mettere in discussione il passato e la tradizione. Il compito che Mori Ōgai si assegna è allora quello di rivisitare leggende con l’acribia dello storico, non per farne uno studio critico tuttavia, bensì per rendere il suo lavoro “del tutto contemplativo” e ottenere un “effetto di straniamento” – per il quale è stato accostato a Brecht – capace di ridare un senso attuale agli antichi racconti. Lealtà, onesta, sacrificio sono le coordinate di uno stile di vita che l’autore continuava a ritenere in grado di contrastare – come fa notare nella sua introduzione Maria Teresa Orsi – “un’etica sociale troppo rigida e irrispettosa dei diritti individuali”. L’etica con la quale si trovano a doversi misurare i protagonisti, una giovane madre che, con una figlia di quattordici, un figlio di dodici anni e una fedele servitrice, si mette in viaggio alla ricerca del marito, vittima dell’ingiustizia, ed è animata da uno spirito di fiduciosa ragionevolezza che esce confermato dall’incontro con persone semplici quanto giuste e compassionevoli, ma deve fare i conti con la doppiezza, l’arroganza, la violenza di potenti contro i quali, ad assicurare giustizia alla famiglia, interverrà la protezione di una divinità benevola, Jizō – protettrice sia dei bimbi dalla nascita travagliata o addirittura non realizzatasi e anche dei viaggiatori, ma che la nostra sensibilità potrebbe per certi versi accostare alla figura dell’angelo custode – e, infine, varrà il sacrificio della vita cui la figlia – richiamando un’altra figura, quella di Antigone – si sottopone.
Oggetto di reiterate rivisitazioni, la leggenda, proprio nella versione di Ōgai, caratterizzata dall’intento di ribadire l’irrinunciabilità dei diritti umani essenziali, ha conosciuto negli anni Cinquanta anche una trascrizione cinematografica che ha inaugurato in Italia l’interesse per il cinema giapponese.
Ken Mogi, Il piccolo libro dell’ikigai. La via giapponese alla felicità, Einaudi 2018 (pp. 169, euro 15)
La prima pagina elenca i “cinque pilastri dell’ikigai,
la seconda parla di Jirō Ono, “grande maestro” di sushi: uno dei soliti manuali
della felicità, sia pure in salsa giapponese, e che per fare esempi di chi è
riuscito ad applicarne le regole parte da uno chef. Il libro, appena sfogliato,
tornerebbe al suo posto sul bancone della libreria se non venisse alla mente il
Sukegawa delle Ricette della signora Tokue (Einaudi 2018) link al 22 aprile 2018 e la sua saggezza
lieve, ma perentoria, a suo modo: nella letteratura giapponese contemporanea
sono spesso personaggi che svolgono mestieri come quello della cucina a
veicolare significati e valori in cui non c’è traccia di banalità né di
esotismo. Tornando a scorrere le pagine del “piccolo libro” ci si rende conto
che parlando dell’ikigai offre esempi ragionati dello stile di vita giapponese,
e allora il richiamo è al Noteboom di Cerchi
infiniti. Viaggi in Giappone,
Iperborea 2017 link al 2 luglio 2018,
un libro che parlando di Giappone parla di noi.
Bene. Ma cos’è questo “ikigai”? Il “pentalogo” che
apre il libro si scioglie, pagina dopo pagina, in casi ben raccontati,
concreti, capaci di chiarirci che l’ikigai non è altro che la somma dei
“piaceri” e dei “contenuti di senso della vita”: due cose diverse, si potrebbe
obiettare. Ma proprio qui sta il punto:
se si “comincia in piccolo” (la giornata come un nuovo lavoro o una
nuova relazione), se ci si prova a “dimenticarsi di sé” e a vivere in
“armonia”, non solo con gli altri, ma anche con piante, animali, cose, in un
orizzonte di “sostenibilità”, se si impara così a gustare la “gioia delle
piccole cose” stando “nel qui e ora”,
piacere e senso della vita convergono, si lasciano vivere come un’unica
esperienza, il cui sottofondo è, nella sostanza, la capacità di “accettare se
stessi”. Ne viene non solo una “felicità” della quale ci si può render conto
nel momento stesso che la si vive, ma anche una serenità che fa tutt’uno con la
capacità di resistere a disgrazie e ingiustizie subite, di vivere bene anche se
la propria vita non è quella che si sognava, perché non c’è altra vita che
quella che ci si trova a vivere. E allora “prender sul serio i fenomeni
transitori” (come la famosa fioritura dei ciliegi) non è l’espediente di chi
accontentandosi gode, ma un atteggiamento conseguente e lucido che traduce
nella pratica una filosofia.
Condotta individuale e comportamenti collettivi si intrecciano in aspetti molteplici della vita quotidiana in Giappone: la gentilezza di cui parlano i visitatori del paese del Sol levante non è che il portato dell’ikigai.
Si era partiti con uno chef. Si incontrano artigiani,
monaci zen, musicisti, e fin qui tutto bene. Leggere delle virtù sapienziali
dei lottatori di sumo può lasciar perplessi, ma bisogna ammettere che Mogi ci
sa fare, spiega, persuade. Almeno fino a quando arriva a sostenere che l’ikigai
annulla la differenza fra perdenti e vincitori, nel senso che anche chi sta
sotto se la può passare bene, perché “l’ikigai è pane per gli svantaggiati”,
“permea tutti i livelli gerarchici delle strutture competitive e concorrenziali”.
Forse le aiuta anche a perpetuarsi… vien da pensare, tanto più quando si legge
che “si può declinare l’ikigai in modo personale anche in una nazione dove la
libertà è limitata”. Ma non è finita: “ironia della sorte, potremmo trovare il
nostro ikigai anche sganciando la bomba atomica che decreterà la fine del
mondo” (sic). Detto da un giapponese, tra l’altro…: che distanza resta fra l’ikigai
e la pura esecuzione di un ordine da parte del pilota dell’Enola Gay?
Ma qui non possiamo prendercela con Ken Mogi: qui sono
le filosofie dell’atarassia, è il pensiero orientale a mostrare – nonostante
tutte le suggestioni e gli insegnamenti che ne possiamo derivare – a mostrare
il limite drammatico di una ricerca della salvezza che non sa o non vuole fare
i conti con le contraddizioni stridenti e insormontabili del mondo
contemporaneo. Persino a un conoscitore profondo e partecipe come Francois
Jullien è accaduto di doverlo ammettere.
Lisa Luzzi, La polvere che danza in un raggio di luce. Una suggestiva interpretazione del De profundis di Oscar Wilde, Armando Editore 2019 (pp. 160, euro 14)
“La profondità dell’esperienza espressa nel De profundis è stata spesso
sottovalutata dalla critica”, afferma senza mezzi termini l’autrice, per la
quale il ritrovamento di quest’opera, letta al tempo del liceo, ha
rappresentato un’“epifania”, una rivelazione non solo umana e letteraria, ma
filosofica e religiosa.
Scritta nella forma di una lunga lettera al proprio amante, di fatto un intenso monologo con se stesso, durante l’incarcerazione per omosessualità – un reato, in Gran Bretagna, sino a tempi non lontani: si pensi al destino di Alan Turing –, la testimonianza di Wilde ha un valore che va oltre la sua vicenda, risultando emblematica di un dato comune: “Siamo tutti, in fondo, vittime di noi stessi – ci vien fatto notare –, tanto delle nostre debolezze quanto delle nostre apparenti forze, anche se non ce ne avvediamo”. Occorre avere “il cuore di Cristo e la mente di Shakespeare”, lo stesso Wilde afferma, per giungere a riconoscere – e qui è Ellmann, biografo dello scrittore inglese, a parlare – che “noi siamo naturalmente nemici di noi stessi e andiamo in cerca degli eventi che inconsciamente ci si addicono”. Secondo quella coazione a ripetere, verrebbe ad aggiungere, che la psicoanalisi ha interpretato come espressione della pulsione di morte.
Wilde si vergogna, si pente amaramente di “aver usurpato il proprio genio, e infangato il proprio nome, per aver commesso l’errore di assecondare appetiti superficiali e frivoli” – anche se altrove li fa derivare da un “profondo affetto spirituale” al pari di quello provato dai grandi Michelangelo e Shakespeare. Senonché, più che un cedimento, la vicenda ha fatto “emergere l’ombra che abitava nel suo animo che, se da un lato, amava perdersi nella bellezza dall’altra sentiva anche l’urgenza di un traumatico svelamento della concretezza del reale e della verità della materia”. Una tensione drammaticamente opposta a quella della sublimazione e alla tendenziale identificazione fra estetica ed etica; una spinta a portare al livello dell’atto la convergenza avvertita fra bellezza, amore e morte, tratto comune alla vita e alle opere di Wilde, come l’autrice analizza stabilendo paralleli convincenti – con il Ritratto di Dorian Grey, in particolare: una sorta di anticipazione del destino che attendeva lo scrittore.
Non di meno, la sua decisione è ferma, e la
saprà rispettare: “Devo conservare l’Amore nel mio cuore a tutti i costi. Se
vado in prigione senza amore che ne sarà della mia Anima?” E dunque, assicura
l’interlocutore, “Non scrivo questa lettera per far nascere amarezza nel tuo
cuore, ma per eliminarla dal mio”.
“Ho scritto tutto quello che c’era da
scrivere. Ho scritto quando non conoscevo la vita, e ora che ne conosco il
significato non ho più niente da scrivere”, confessa Oscar Wilde pochi mesi
prima della propria morte. Convinto che “lo scopo della vita è lo sviluppo di
noi stessi, la perfetta attuazione della nostra natura”, e quindi, anche, il
dovere di non vergognarsi neppure degli atti che non si vorrebbe aver commesso.
Non citerà più con leggerezza gli aforismi,
sempre sapidi nei loro paradossi quanto calzanti con l’attualità, chi ha letto
questo libro e magari, sulla sua scorta, ha sentito il bisogno di conoscere
anche il De profundis.
“Si vive in una pace meravigliosa senza pubblicare. Mi piace scrivere, è la cosa che amo di più, ma mi piace scrivere per me stesso, per il mio piacere.”
Leonardo, Amore ogni cosa vince. Segreti di vita e bellezza, Interlinea 2019 (pp. 64, euro 10)
Spesso, e con qualche ragione, ci
si guarda dagli anniversari e dalle celebrazioni. Conoscendo per esperienza il
valore del tutto effimero di gran parte di ciò che in queste occasioni si dice
e si pubblica, si preferisce lasciarne decantare quel che non è mera
ripetizione, luogo comune, agiografia.
Il cinquecentenario della morte di Leonardo non fa eccezione, ma è tuttavia possibile distinguere, nel mare di saggi e di romanzi usciti in questi ultimi mesi, alcune pubblicazioni che si sbaglierebbe a trascurare per le loro dimensioni contenute. Di queste, la raccolta di pensieri curata da Gino Ruozzi, massimo studioso italiano della letteratura aforistica, “una letteratura marginale perché poco attraente e ammiccante”, ha avuto occasione di scrivere lo stesso Ruozzi, ma che in realtà “ci invita non al sogno, ma al confronto con noi stessi e la società in cui viviamo”. E a questo confronto, appunto, le pagine di Amore ogni cosa vince invitano chi, come noi, è chiamato a misurarsi con la vecchiaia secondo prospettive diverse dal passato, imposte dall’invecchiamento della popolazione e dalla tendenziale rimozione non solo della fine ma ormai anche dell’inevitabile declino della vita nella sua ultima stagione. Senonché, leggiamo in uno dei primi pensieri che il libro riporta, “A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s’accorgendo quello esser di bastevole transito”. A torto perché, a ben vedere, “molte cose passate di molti anni parranno propinque e vicine al presente”, e quel che conta è allora la qualità di quelle cose, una qualità “che ristori il danno della tua vecchiezza, overo che trastulli la tua vecchiezza”. È insomma il genere di vita che si è fatto a stabilire quello della propria morte: “Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire” e, in conclusione, “La vita bene spesa lunga è”.
Ma anche altri di questi pensieri rimandano all’oggi: il primato della “sperienzia” contro la semplice citazione, la superiorità degli “inventori” rispetto ai “recitatori” possono richiamare la sudditanza e la credulità oggi dilaganti di fronte all’invasività delle informazioni indiscriminate se non false di cui, grazie alla rete ma non solo, siamo vittima (ogni epoca ha quel che si merita: le autorità del passato, un tempo; i makers il più delle volte irrintracciabili di news e fake news, oggi). Così come all’attuale discredito da cui sono investite le competenze e alla disinvolta condotta di non pochi reggitori della cosa pubblica fan pensare le parole che Leonardo dedicava a “quelli che usano la pratica senza scienzia”, “come ’l nocchieri ch’entra in navilio senza timone o bussola”. Pensieri stimolanti, insomma, che aprono – sia pure sul filo della libera associazione – percorsi diversi ma tutti convergenti nel mettere in luce la modernità del pensatore: dalla differenza di grado, più che da una radicale discontinuità e tantomeno da una conclamata superiorità, che intercorre fra uomini e animali (“L’uomo ha grande discorso, del quale la più parte è vano e falso. Li animali l’hanno piccolo, ma è utile e vero”) al riconoscimento, tutt’altro che scontato quando Leonardo scriveva, che “El sole non si move”. Verità scientifiche intuite con certezza, capacità anticipatrice di un pensiero che se da un lato esprime la convinzione che “Nessuna certezza delle scienzie è dove non si po’ applicare una delle scienzie matematiche”, dall’altro sostiene che “Ogni nostra cognizione principia da’ sentimenti”. Per cui lo sguardo indagatore che si rivolge al sole può tingersi di accenti ben diversi non appena si posa sulla luna: “La luna, densa e grave, densa e grave, come sta, la luna?”.
Un libro piccolo da leggere e rileggere, dunque, per
avvicinarsi davvero, al di fuori di ogni logica monumentalizzante, a quest’uomo
che, pienamente immerso nei suoi tempi di guerre e congiure – anche l’Ultima cena di Santa Maria della Grazie,
nota il curatore, mette in scena una congiura, la congiura per eccellenza della
cultura occidentale – si pone “all’inizio della modernità”, maestro di una
pittura sempre innervata dalla conoscenza naturale e dalla riflessione filosofica (il pensiero corre all’animale che
compare in copertina, nella celebre Dama con l’ermellino, quando si legge che “Moderanza raffrena tutti i
vizi: l’ermellino prima vol morire che ’mbrattarsi”).
Avvicinarsi all’uomo, in conclusione, senza per questo disconoscerne la grandezza, e insieme il suo essere “vario e instabile”, come gli rimproverava Vasari. “Una sostanziale incapacità caratteriale a concludere le cose – ammette Ruozzi –, distratto o attratto da troppi interessi contemporaneamente” ha senz’altro connotato Leonardo. Produttore di un’opera ricca di “lacune e frammenti” – quali sono questi stessi pensieri – interpretabili però “come mimetici dell’imperfezione e della fragilità intrinseca della nostra esistenza.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Il massimo che possiamo fare è scrivere – in modo intelligente, creativo, critico, evocativo – di quello che vuol dire vivere in questo mondo in questa epoca.”
Tommy Wieringa, Una moglie giovane e bella, Iperborea 2019 (pp. 117, euro 14)
“Collezionista
di prime volte” nella sua vita sentimentale, il virologo Edward, finché non
incontra Ruth, di parecchi anni più giovane di lui. Al solo vederla prova “una
nuova sensazione: la bruciante nostalgia di qualcuno che ancora non conosceva”.
La sposa, la tradisce con una collega, hanno un bambino, che non smette di
piangere, neanche la notte, e cui la moglie si dedica in modo esclusivo
attribuendo al marito un’indefinita responsabilità: il piccolo, sostiene,
percepisce che lui non lo desiderava. È meglio che non abiti con loro, dunque,
e al virologo non resta che accamparsi, all’insaputa dei colleghi, nel suo
laboratorio, fra le cavie. Senonché, la sensibilità animalista della moglie
l’ha contagiato: “A volte guardava gli animali nelle loro gabbie con gi occhi
di Ruth e vedeva che la prima forma di sofferenza a cui venivano sottoposti era
la noia. Smettevano di prendersi cura di sé (…). Più spesso e a lungo li
guardava, più si affievoliva dentro di lui la negazione della loro sofferenza”,
sulla scorta delle idee non solo della moglie ma anche di Jeremy Bentham,
secondo il quale la domanda da porsi se si vuole tracciare un confine tra
uomini e animali «non è: “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono
soffrire?”».
La
riflessione sul dolore animale si intreccia sempre più strettamente con quella
su di sé: la gallina bianca che trent’anni prima, ancora ragazzino, aveva
salvato dall’allevamento intensivo è forse l’unico essere che ha davvero amato,
o per il quale aveva provato “una sorta di compassione”, mentre col passare
degli anni quella sensibilità è scomparsa e riesce difficile ricordare “com’era… avere un cuore, un cuore
che ti mette in condizione di lasciarti trasportare e sentirti parte della vita
sulla terra…”. Ma il tempo è passato, e ormai “le singole parti della sua biografia
non volevano saperne di amalgamarsi in un insieme, in un’unica vita che
mostrasse significato e coerenza.”
Ecco il punto: Edward è uno di quegli uomini che, superati i quaranta, si rende conto di aver continuato “a salire e scendere la scala della (loro) vita” e faticano a cogliervi qualcosa che possa riconoscere come una biografia: come i depressi (si pensi all’io narrante di Emanuele Trevi, in questi Appunti lo scorso 26 maggio), così anche questi personaggi sembrano aggirarsi con assiduità nei romanzi che l’editoria oggi ci propone. Ne fa parte, per fare un esempio, anche lo psichiatra Kadoke di Terapie alternative per famiglie disperate di Arnon Grunberg (Bompiani 2019), afflitto da una pervasiva “stanchezza di vivere” che “bisogna scavalcare come si scavalcano le pozzanghere”, assorbito da un rapporto con la figura materna dai tratti patologici, eppure privo di passioni al punto che “talvolta va all’opera per vedere e ascoltare emozioni che non gli sono del tutto estranee, ma che non vive più in forma diretta.” Chi sono questi uomini? Hanno forse alle spalle l’esperienza dei giovani di cui spesso si parla: espropriati di futuro, più o meno apparentemente anaffettivi, incapaci di un progetto biografico?
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“A quanto pare sono interessato a come – e perché e quando – un uomo agisce contro quella che ritiene la sua parte migliore, contro il modo in cui gli altri immaginano che lui sia, o preferirebbero che lui fosse.”
Rachel Cusk, Transiti, Einaudi 2019 (pp. 196, euro 17)
Una scrittura, una narrazione all’altezza dell’epoca? Forse in questo modo si potrebbe definire l’obiettivo – e, a seconda dei giudizi, il risultato – del lavoro di Rachel Cusk, che fin dalle prime pagine ci propone giudizi precisi sul nostro tempo, appunto. “Quest’epoca di scienza e incredulità (in cui) abbiamo smarrito il senso del nostro significato”, e la vita scorre per molti “priva di storia”, in una sostanziale solitudine e nella assillante “paura di non essere desiderati”. Al punto che, a chi si aggira nel deserto della depressione, può accadere “di commuoversi fino alle lacrime di fronte alla preoccupazione per la sua salute e il suo benessere espressa dal lessico degli slogan pubblicitari e delle confezioni alimentari”. Ma nulla è più lontano dalle intenzioni dell’autrice del costruire una teoria circa il mondo in cui viviamo: quello che dice lo riporta, non lo presenta mai come l’esito del suo pensiero, ma sempre come il frutto della sua attitudine ad ascoltare gli altri, le persone fra loro diverse che la vita quotidiana le fa incontrare. In ciò proseguendo la strada intrapresa con Resoconto (in questi Appunti lo scorso 9 dicembre), ma dando ancora più spessore a un senso di irrealtà che permea l’esperienza, “come se vivessimo in una vetrina”, dove la vita “è una messa in scena, ma nello stesso tempo è reale”. Una realtà nella quale tuttavia molti degli adulti fra i quali ci muoviamo a mala pena riescono a nascondere la loro natura di bambini mai davvero del tutto cresciuti, e perfino gli studenti di un corso di scrittura creativa danno l’impressione di non “credere a sufficienza nella realtà umana per costruirci sopra delle fantasie”. Né maggiore consistenza paiono avere i matrimoni, che sembrano funzionare “come si dice che funzionino le storie, grazie alla sospensione dell’incredulità” e si reggono secondo uno dei “resoconti” raccolti, “non tanto sulla perfezione, quanto sull’elusione di determinate realtà”, come ad esempio i sentimenti del compagno. Ma non si tratta solo di esperienze coniugali: tutta la vita è dominata da una sorta di rimozione, dalla tendenza a “sottovalutare ciò che ci ha formato di più, e a replicarlo ciecamente”.
E lo scrivere? è forse il segno di un destino diverso, più
consapevole, più responsabile? Pare di no: “Tutti gli scrittori sono in cerca
di attenzione (…) Il fatto è che nessuno – sostiene un collega nel corso di un
incontro pubblico – si è preso cura di noi quando eravamo piccoli e adesso
gliela facciamo pagare. Se uno scrittore nega, per quanto lo riguarda, una componente
di vendetta infantile in ciò che fa, è un bugiardo. Scrivere è solo un modo di
farsi giustizia con le proprie mani”.
Ma lei, l’autrice, in proposito come la pensa? O meglio: come la pensa la protagonista, voce narrante del romanzo (del tutto somigliante all’autrice stessa, si giurerebbe comunque)? Lo dice, con chiarezza: ritiene un bene “il fatto che ogni lettore si avvicina al tuo libro come un estraneo che devi convincere a restare”, persuasa com’è della necessità di un “fondamentale anonimato del lavoro di scrittura”. Ed è un impegno mantenuto, questo: il personaggio di cui meno sappiamo, alla fine, è proprio lei, la narratrice, anche se il suo sguardo è pagina dopo pagina divenuto il nostro. Uno sguardo distaccato abbastanza per riportare con scrupolo le storie udite, ma partecipe in misura tale da permetterle di far di quelle storie l’occasione di riflessioni, di interventi in prima persona sommessi quanto penetranti, che solo il contatto stabilito con l’estraneo del momento pare aver reso possibili.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Le luci della sala si sono spente, e siamo rimasti al buio: lo schermo non si è illuminato. È nero. Il film però è cominciato, senza immagini. Solo un rumore. Il rumore che facevano i treni fino a non molti anni fa. TuTUM-tutum… TuTUM-tutum… TuTUM-tutum… Quando l’immagine appare vediamo un signore, un vecchio, più in là dei settant’anni, che tiene un libro in mano, aperto, ma sta guardando fuori dal finestrino. Il treno non è di quelli di oggi, appunto: ci sono ancora gli scompartimenti. Roba di una quindicina d’anni fa almeno. Davanti al vecchio c’è un bambino. Lui non guarda i tralicci, i capannoni, i campi piatti e deserti che scorrono di fuori. Non distoglie lo sguardo da quello che tiene in mano, ma non ha pagine da girare. Sta giocando. Un videogioco. Guarda fisso e schiaccia, ora sul lato destro ora sul sinistro della scatolina di plastica rossa che tiene fra le mani, emettendo di tanto in tanto, sottovoce, qualcosa di simile agli urli della folla allo stadio quando fanno goal. Gioca e mastica. Ai suoi piedi la carta del chewing gum che ha in bocca. Accanto a lui siede una donna, giovane, sottana corta e stivali, un maglione con dei brillantini che disegnano un fiore sulla lana lilla. Parla al cellulare. Sbocconcella un biscotto, l’ultimo, la scatola che c’è sul sedile, vicino alla borsetta, sembra vuota. L’uomo seduto verso il corridoio invece ascolta, soprattutto. Il cellulare all’orecchio anche lui. Si direbbe addormentato, non fosse per il cenno di assenso che ogni tanto fa, a intervalli regolari, e per i sorsi che ogni tanto dà alla bottiglietta di plastica che tiene fra le gambe. La voce della donna però non si sente. Solo quel TuTUM-tutum… TuTUM-tutum… Forse il regista vuol farci capire che non c’è nient’altro da sentire. E poco da vedere anche, si direbbe: lo schermo è di nuovo buio. Dev’essere uno di quei film in cui tra una scena e l’altra succede così.
“Indubbio è che le storie, molte volte, le si crea anche per riequilibrare, che la stessa invenzione, la più pura, si fa strada per compensare delle mancanze.”
(Lisa Ginzburg)
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