La pandemia presentita da un ipocondriaco

Lorenzo Marone, Inventario di un cuore un allarme, Einaudi 2020 (pp. 284, euro 18)

“Penso che condividere le paure possa servire a destabilizzarle”, “fare gruppo aiuta: vedere che c’è un altro che soffre delle tue stesse ansie ti fa stare meglio, c’è poco da fare. (…) Sempre più ricerche dicono che avere buone amicizie alza il livello di Qr, il quoziente di resilienza; biologi, nutrizionisti, psicologi sono d’accordo nel ritenere che l’amicizia sia uno dei principali fattori per combattere virus e germi, incidendo sul funzionamento del sistema immunitario. (…) Cioè, perlomeno si tira avanti, che è una forma di vittoria, giusto?”. Giusto, a patto però che si tenga conto del fatto che queste considerazioni fiduciose risalgono a parecchi mesi prima, cioè sono state scritte a.C. (ante Coronovirus), il quale coronavirus non era dunque contemplato fra i “virus” sopracitati. Non è stata l’esperienza del lockdown a suggerire queste parole, ma quella di un ipocondriaco. Di un ipocondriaco che ha deciso di scrivere senza remore delle proprie angosce perché crede “che la condivisione sia un modo per venirne fuori”. “Parliamone quindi – esorta gli ipocondriaci che non ha dubbi si trovino fra i suoi lettori, dato che “Siamo tutti, chi più chi meno, ipocondriaci, ahimè, bombardati ogni giorno da infauste notizie” –, confidiamoci, raccontiamo, svisceriamo, non abbiamo timore di sembrare deboli”.

Ma la convinzione del messaggio si squaglia appena espressa: “tutto questo può valere per le persone normali, per chi cioè attraversa un momento difficile”. Non è questa la situazione dell’ipocondriaco: “Il periodo difficile per un ipocondriaco è la sua stessa vita, nella quale la paura è una costante”, “una sorta di acufene. Sapete cos’è, vero? Se la riposta fosse negativa, buon per voi, sareste persone normali impegnate a vivere”. Avvertenze come questa chiariscono subito che questo libro non è una “storia lamentosa”, ma neanche un manuale di sopravvivenza, tanto meno di guarigione, per malinconici e ansiosi in apprensione continua per il proprio stato di salute e che della paura della malattia sono arrivati a fare “una ragione di vita”. È bene, anzi, che chi si trova in questa condizione si convinca che non deve “rompere i coglioni di continuo a chi (gli) è accanto”. Se lo fa, del resto, si rende conto, come il protagonista, che né moglie né amici lo prendono più sul serio. Né lo farebbero i lettori, a meno che già le prime pagine garantiscano che se ne parlerà così, un po’ alla Woody Allen per intenderci, non a caso ricorrentemente citato. E allora lo seguiamo sorridendo, il nostro ipocondriaco, nelle sue elucubrazioni amletiche, nei suoi incontri con medici preti psicoterapeuti e santoni, nelle sue relazioni (moglie, figlio, parenti, amici, colleghi) pesantemente condizionate dallo stato d’animo d’un individuo che “ha un terrore fottuto di qualsiasi morbo, ma allo stesso tempo ha una paura fottuta di accorgersene”. Lo seguiamo in un lungo monologo denso di divagazioni scientifico-filosofiche che spesso assumono – anche con risultati apprezzabili – il tono della divulgazione. E così, paura dopo paura, catastrofe incombente dopo catastrofe imminente, ci arriviamo: alla pandemia. Una pandemia solo possibile, per l’autore, che infatti per darne un’idea prende quello che ha a disposizione, la peste del Trecento e quella del Seicento, e la Spagnola – “Mi chiedo spesso cosa avrei fatto se mi fossi trovato a vivere a quei tempi” –, ma sa anche andare al di là, con accenti che suonano, ahimè, vagamente profetici: che cosa succede “quando l’enorme giostra che abbiamo costruito per non pensare al nostro essere mortale viene d’un tratto meno”? “Se si fermasse quest’ultima, resteremmo scoperti, e mi domando chi saremmo davvero, io chi sarei: quello che scappa, quello che attende l’aiuto di un medico vestito da menagramo, colui che si dà alla fede, chi si dispera, o chi infine decide di godersela? Almeno nella fantasia, senza paura di essere smentito, mi piace pensare che farei parte di quelli che si danno all’alcol e al sesso. Non in questo ordine.”

C’è ragione di credere che il nostro sia stato smentito, contrariamente alle sue previsioni. Qualche ipotesi si può forse fare se si tiene presente che, a quanto pare, non solo l’ipocondria, ma anche altre nevrosi, e persino la paranoia nelle sue forme e gradi diversi, conoscano una fase di remissione in epoche di calamità (in parole povere, si allineino al proverbio secondo il quale il mal comune ha fra i suoi effetti collaterali un mezzo gaudio). Quel che sappiamo per certo è comunque che l’autore ha in queste settimane scritto un nuovo racconto destinato a essere diffuso in formato e-book con l’invito a fare una donazione all’ospedale Cotugno di Napoli per l’emergenza Coronavirus. Titolo: La primavera torna sempre.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Oltre l’Alto Adige dei turisti

Lenz Koppelstätter, Omicidio sul ghiacciaio, Corbaccio 2020 (p. 319, euro 16,90)

Portachiavi, calendari, palle di vetro con la neve e la figura di Ötzi, ma anche ombrelli, bastoni da passeggio, flaconi di shampoo, accendini: tutti con l’immagine dell’uomo di Similaun rinvenuto sul confine tra Italia e Austria nel 1991. Mancava solo un giallo a fregiarsi del sicuro appeal della mummia alpina. E ce lo si poteva aspettare, vista la fortuna del filone giallo-montagna (da Faggiani a D’Andrea, da Tuti a Manzini), che prima o poi anche Bolzano e le Alpi Venoste diventassero teatro di un intrigo. A scioglierlo, un commissario locale e a un ispettore immigrato napoletano (anche questa del poliziotto spaesato è ormai una costante).

Senonché a impedire che il racconto scivoli nella scontatezza, ci sono pagine dedicate al contesto da un autore che l’Alto Adige di oggi, da giornalista qual è, lo conosce bene e ci offre quindi motivi di confronto con le immagini che della regione ognuno di noi serba. Ne sa richiamare “la cultura tirolese e il tocco mediterraneo”, fra canederli e pizza; l’internazionalità e insieme un plurilinguismo fatto non solo di tedesco e italiano, ma di dialetti che variano da valle a valle e da paese a paese, ognuno geloso della sua specificità al punto che “un commissario di Bolzano (è) nient’altro che il braccio di Roma”, anche se da sempre residente nella Valle Isarco. Se basta tanto poco a far sentire forestiero il commissario figuriamoci l’ispettore, che non si orienta in un posto dove sembrano “esistere molti più punti cardinali dei quattro che aveva imparato”, per cui “da Bolzano a Merano si va aui (su), nella Val Senales invece eini (dentro) e in Svizzera ummi (di là)”. Ma, quel che più conta, basta cambiare di bar e dall’Alto Adige dei turisti si passa a quello della gente del posto, che esclude diffidente chi viene da fuori.

E Ötzi che cosa c’entra? C’entra eccome: è a lui che conducono gli indizi raccolti sul ghiacciaio dove un uomo è stata assassinato, con una freccia. Come Ötzi appunto. L’arma del delitto risale infatti ad allora, è stata trafugata dal Museo di Bolzano in cui la mummia è conservata, e a questo si aggiunga che la vittima era un misantropo ridottosi vivere più o meno come il progenitore neolitico. Ma, analogie a parte, è un’altra la domanda cui occorre rispondere: Ötzi era solo un cacciatore oppure era un capotribù, o uno sciamano? Un quesito di natura culturale, si direbbe. E invece no: la sua soluzione porterà il commissario Grauner a seguire la traccia giusta.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Collezione di storie

«Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch’essi cambiano, nella luce d’una prospettiva storica mutata) noi siamo certamente cambiati, e l’incontro è un avvenimento del tutto nuovo» assicurava Italo Calvino.
Se poi, nel frattempo, la scrittura è entrata a far parte delle proprie esperienze, rileggere non sarà l’unica via per rivisitare gli scrittori prediletti: anche scrivere sulle loro tracce potrà essere un modo di esprimere quella cura che tutti gli amori di lungo corso richiedono.
Del resto, lo stesso Calvino, non sembra deprecare esperimenti del genere: «Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente. Adesso» scrive nel 1960 «il ciclo è fatto, è chiuso, è lì, per chiunque voglia studiarci sopra o divertircisi; io non c’entro più».
Da I nostri antenati inizia appunto questa rivisitazione di alcune delle opere dello scrittore: riletture che si traducono in racconti o, più propriamente, in “esercizi”, e si propongono non tanto di sviscerare il proprio oggetto e di rinvenirvi aspetti o significati nuovi, quanto di poter rinsaldare, sperimentandola in modo diverso, una vicinanza che si sente viva, una consonanza che torna ancora una volta a vibrare. Esercizi che si risolvono dunque in un confronto con i testi memore degli incontri precedenti e aperto a cogliere messaggi e rimandi inattesi, a percepire risonanze che non si erano prima avvertite, motivi di identificazione con i personaggi che si traducono nel desiderio di ritrovarli quali protagonisti di vicende inedite.
È davvero scomparso, il Barone, il giorno in cui si è lasciato trascinare sul mare dall’ancora della mongolfiera cui si era aggrappato? La coerenza e l’integrità con cui il Cavaliere arginava la propria inesistenza non hanno conosciuto deroghe, non hanno mai ammesso digressioni, se non trasgressioni? E il dottor Trelawney, il prudente artefice del ritorno del Visconte all’interezza, che cosa nasconde nel proprio nome? Soltanto l’implicito omaggio dell’autore all’Isola del tesoro, o un passato inimmaginabile, un’identità segreta?
Da domande simili, che nel loro stesso porsi suggerivano spunti narrativi stimolanti, sono nati un possibile seguito della storia di Cosimo, il racconto di un duello dimenticato di Agilulfo, la contaminazione tra la vicenda di Medardo e quella narrata da Stevenson.
E Marcovaldo: di certo non potrebbe, oggi, non incontrare coloro che abitano la città da stranieri, in una condizione di marginalità che, sia pure in grado e modi diversi, non gli è del tutto estranea. Ma – questa la domanda successiva – le sue stagioni si sono davvero consumate sempre e solamente nell’ambiente urbano, o con la moglie Domitilla ha potuto andare a vivere in luoghi diversi, tali, almeno nelle aspettative, da promettere avventure inaspettate a lui e ai suoi bambini? E a proposito di avventure: tra Gli amori difficili, accanto all’Avventura di un viaggiatore non poteva comparire – quasi a ricalco – quella di uno scrittore, giustificata premessa alla successiva, di un lettore?
Gli “esercizi” qui raccolti si allontanano progressivamente dai testi su cui si sono applicati e prendono a divagare, in compagnia di unQfwfq che non si sa rassegnare alla protervia assurda di un presente che gli appare più remoto delle ere da lui attraversate; di un signor Palomar che nella sua casa di campagna non smette di interrogarsi sulla forma, il numero, la durata che disegnano il mondo; di un sedentario quanto enigmatico Marco Polo.
Queste “riletture” che si configurano come “esercizi” e via via come “divagazioni” non potevano evitare di confrontarsi con il tema, essenziale in Calvino, della relazione fra il vivere e lo scrivere. Presente nel racconto della vicenda di Agilulfo e in quello dell’avventura di uno scrittore, il tema si fa nell’ultimo perno di una narrazione che, prendendo le mosse dal motivo di Collezione di sabbia, si nutre delle suggestioni che ad ogni lettura vengono da Se una notte d’inverno un viaggiatore, e si conclude così nella convinzione che «il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte».

Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dai racconti:

da L’albatro:

“Dovette Cosimo avvertire che le forze che gli avevano permesso d’abbrancare quell’ancora e tenercisi avvinghiato lo stavano abbandonando: le mani stavano perdendo la presa che avevano stretto attorno alla corda, il ferro dell’ancora gli segava la pianta dei piedi, e i muscoli, raggomitolato com’era, si stavano irrigidendo. Il disagio stava mutando in spasmi e fitte, tali da generare in lui una completa indifferenza alla veduta marina che l’avvolgeva.
(…) s’era ritrovato dentro un vapore lattiginoso e umidiccio che gli toglieva la vista del mare come del cielo, ma gli aveva a un tratto permesso di vedere spuntar in quella bambagia ciò che mai si sarebbe aspettato: la cima d’un albero, se pur privo di fronde. Ed era stato allora il suo corpo dolente, non la ragione, a prender la decisione: dall’ancora era balzato a quel pinnacolo spelacchiato, e le sue dita l’avevano pur stretto per qualche istante (…). Un batter di ciglia e mio fratello precipitò: il miracolo che era seguito al balzo sull’ancora non si era ripetuto. Forse anche perché era l’albero di trinchetto quello che si era offerto alla sua presa, un albero privo della coffa che forse avrebbe potuto trattenere il corpo che l’avesse fortunosamente raggiunta.
Ebbi di nuovo l’impressione di esser lì, testimone oculare del nuovo volo, privo di appigli questa volta: Cosimo cadeva, tanto leggero da non scendere a perpendicolo ma lievemente oscillando nel vento, come una foglia d’autunno, o, se si preferisce, dolcemente planando come uno degli uccelli che per una vita gli erano stati compagni e lui, pur a lungo cacciatore, aveva sempre amato, e teneramente invidiato. (…)
Ecco, invece: lo strido d’una rondine gli fa riaprire gli occhi su cui erano di nuovo calate le palpebre. L’uccello sta volando accanto a lui, e lo osserva, curioso, amichevole. Ricambia lo sguardo, Cosimo: contempla l’uccello che gli è compagno nel volo mentre vede attorno a sé un trascorrere rapidissimo di rami e fronde, quali ai suoi occhi appaiono le sartie e le vele della nave. Nelle quali grazie a Dio ebbe a impigliarsi e, strascicando in qualche modo verso il basso senza più distinguer nulla, poté rallentare la sua corsa.
Che si concluse, infine.
Un rumore sordo, come di sacco gettato su di un assito.
E di colpo, il buio.”


da Un duello dimenticato:

“E dunque, ecco che cosa accade: che sia stata la nottata del tutto inusuale, trascorsa a cianciare di usignoli e luna e modi di acconciare capelli e altro ancora che tenesse a freno la bramosia della vedova Priscilla, o sia stato invece il trovarsi lontano dal solito ambiente militaresco cui da anni aveva fatto l’abitudine, sta di fatto che il cavaliere Agilulfo appare immobile dell’immobilità del dormiente al suo scudiero, destatosi al richiamo del primo canto degli uccelli.
L’ha ben avuto sotto gli occhi da tempo il suo signore, Gurdulù, ma il vederlo per la prima volta in quella condizione lo induce a quella sconsiderata totale empatia che lo prende tanto di frequente e si convince perciò d’esser lui stesso il cavaliere che, assopito, abita – ammesso si possa dir così – l’armatura distesa lì accanto.
Certo, non è agevole entrarvi dentro com’è stato calarsi nella marmitta che i cucinieri dell’esercito gli avevano benignamente lasciato raschiare il giorno che s’era creduto d’esser zuppa anche lui. Ma attingendo a una perizia che di sicuro neanche lui sa di dove ha tratto, Gurdulù pian piano fa passare il suo testone attraverso il camaglio e l’elmo piumato, il collo taurino fra barbuta e gorgiera, insinua quindi le corte braccia negli spallacci e le mani tozze nelle manopole, riesce a contenere il tronco tarchiato entro l’usbergo e il pettorale, il ventre rotondo nel panzerone, le gambe storte nelle gambiere, i piedoni nelle scarpe di ferro.
Disposto che ha il suo corpaccione entro il candido involucro, di botto, soddisfatto come non mai, sprofonda nel sonno.
Il sole è ormai alto quando Agilulfo ode un rombante russio. Non è lo stesso che si leva dal campo ogni notte né quello che solitamente esce dalle armature dei paladini accaldati in attesa del passaggio dell’Imperatore. Non proviene da fuori, quella sorta di mugghio marino, ma da dentro la sua propria armatura!
Esterrefatto dell’evento inaudito, quindi disgustato da quel suono animalesco, ma alla fine – non saprebbe dire neanche lui perché – vagamente compiaciuto della novità, avverte un desiderio che non corrisponde a quello consueto di far meglio di tutti il dovere del paladino.
È un desiderio in tutto diverso, ancor più imperioso forse, anche se opaco, non limpido e trasparente come quello che sempre l’ha animato. È il desiderio di tornare al castello di Priscilla che ora lo scuote! Un desiderio che lo inquieta e insieme insinua un refolo di felicità sconosciuta nel suo animo.
Vorrebbe venire a capo di questo scontro di propensioni opposte, che lo agita sino all’ultima piastra dell’armatura e lo atterrisce.
Non sa, l’integerrimo cavaliere, che simili tenzoni occupano di frequente l’animo dei mortali, di continuo – si può dire – presi a cercar la propria interezza in quel contrasto di sentimenti, il più delle volte incomponibile, che li abita. Turbato e irresoluto, Agilulfo si guarda d’intorno cercando invano il suo scudiero.”


da Il cuscus:

“Qualcosa fermava ogni mattina Marcovaldo mentre passava con la sua bicicletta a motore per la strada che attraversa il luogo dove una volta erano le fabbriche. Non c’era prima, questa via intitolata al cavalier Tognini, capitano d’industria fondatore dell’acciaieria chiusa da una quarantina d’anni. Non si vedeva nulla, allora, di quel che c’era oltre i muri che circondavano lo stabilimento. Abbattuti quelli, non restava che una rete a separare il fuori dal dentro, e Marcovaldo si perdeva a guardare la famiglia di gatti che abitava fra le rovine dei capannoni o i merli che avevano fatto il nido fra i rovi, le piante di ailanto tanto alte da sbucare dai lucernari squarciati e il mare delle erbacce che avevano invaso i piazzali e s’arrampicavano sui muri rimasti ancora in piedi: veronica, parietaria… Ma avrebbe voluto passare di là della rete soprattutto per raccogliere le ortiche buone per fare minestre, o le foglioline novelle di dente di leone da mettere nella frittata. Era rimasto incantato, una mattina, alla vista della fioritura di un cappero, arrivato chissà come a mettere radici fra le pietre e i mattoni di un muro esposto a sud, vecchio e in gran parte sfarinato, visitato in extremis da quella piantina giovane e piena di speranze.
La fabbrica dove Marcovaldo faceva le sue otto ore di manovale non qualificato non era tanto distante dalla distesa di ruderi. Attraversandola per tornare a casa, quando faceva il turno di notte ed era ancora buio, gli era capitato più di una volta di intravedere ombre che s’arrampicavano sulla rete e la scavalcavano. Un salto e si perdevano in mezzo a quelle macerie.
Una mattina presto – faceva il primo turno quella settimana – era lì a guardare i papaveri che avevano colorato tutto quel grigiore. Faceva già caldo, era giugno. Credeva di esserselo solo immaginato, ma poi s’era ripetuto: un belato. Poteva mai esserci una pecora là dentro?”.


da Il tempo di Till:

Secondo gli astrofisici la percezione del tempo non è che una sfocatura, un’illusione derivante dal fatto che la nostra costituzione ci rende ignoranti dei dettagli microscopici del mondo, incapaci di percepire il livello al quale il tempo non esiste. Il mondo, insomma, non è come ci appare e, contrariamente a quel che ci sembra, il tempo non ne è una dimensione essenziale.

«Ah be’, se uno si guarda in giro non può che essere d’accordo» dice il vecchio Qfwfq, e racconta.
«Oggi per esempio: ero in stazione. Mi piace andarci delle volte, anche se non aspetto nessuno che arrivi. Ma amo stare a guardare la gente che sta lì a chiacchierare, a mangiare, a leggersi un libro, e poi se ne va senza che il treno che aspettava sia arrivato. O senza salirci anche se è entrato in stazione. O salendo su uno qualsiasi che non si sa perché ha fatto una fermata proprio qui e proprio adesso.
«Al ristorante della stazione ho mangiato un piatto di roast beef: è la cosa migliore che hanno lì, un roast beef come quello non lo trovi in città. Buono quasi come lo faceva la mia povera Y¿þž.
«Ho preso il mio vassoio e la cassiera mi ha puntato la sua lucina nell’occhio destro, a leggermi l’iride: “Grazie signore”. Un attimo e via, rapidissima, e scommetto che quella ragazza alla cassa non ha mai sentito dire che il tempo è denaro. Una frase che neanche capirebbe. Perché insieme al tempo anche il denaro se n’è andato. Non c’è altro modo di pagare ormai.”


da La vite del Canada:

“Il signor Palomar questa mattina è andato sulla collinetta che si alza a poca distanza, di rimpetto alla casa dove da venticinque anni trascorre con la moglie i mesi dell’estate. Ha sentito il desiderio di guardare di là il trionfo della vite del Canada che ricopre la facciata e nasconde le vecchie pietre a vista che conservano alla loro casa un tocco di rusticità (…).
La vite del Canada è al massimo del suo rigoglio, in luglio, e generosamente offre a squadriglie di api ronzanti i suoi fiori che lasciano cadere le antere sul piccolo giardino, in una pioggerella sottile e fitta, inondando il tavolo dove la signora Palomar ama stare a fare i suoi acquerelli, e punzecchiando i due gatti stesi pigramente al sole, continuamente costretti a riscuotersi dal sonno per scrollarsi di dosso quelle moleste gocce vegetali.”


da Cidnea:

“Chi vi giungeva restava per un po’ nel dubbio di esser entrato nella città o di star invece solo avvicinandosi ad essa. Percorreva strade costeggiate da edifici privi di qualunque carattere tra i quali spiccavano templi maestosi nelle dimensioni quanto rozzi e monotoni nelle forme. “Templi”, dico quindi, non in ragione del loro aspetto, ma in considerazione del pellegrinaggio di famiglie intere delle quali – quando vi passai accanto, un sabato dopo il mezzogiorno – li vidi meta.
Si traversavano poi terreni vaghi, nei quali erbe e piante inselvatichite lasciavano intravedere rovine che a tratti rivelavano la loro natura di macerie, atterrate non dal tempo ma dall’uomo, e lacerti di fondamenta che disegnavano labirinti appena affioranti, e scheletri di qualche costruzione non ancora del tutto crollata su se stessa, come nell’ostinazione di dire della vita alacre che lì era un tempo risuonata, ogni giorno, per anni. Per più d’un secolo avresti detto, anzi, osservando il profilo degli edifici che ancora si indovinavano in ciò che, nella parte più a meridione di queste lande abbandonate, ancora ne restava.
Appena oltre, questa desolazione silente lasciava il campo a un via vai assordante che, come un essere selvaggio dotato d’una propria cieca vita, stringeva la parte più interna della città in un doppio anello, là dove in altri abitati avevo visto sorgere la cerchia delle mura. Fattosi un poco più mansueto, quest’essere strepitante e acefalo si insinuava poi per le strade che giungevano a lambire, anche se fortunatamente non a invadere, le piazze nelle quali batteva il cuore di Cidnea.”


da Collezione di storie:

“Non ho mai fatto collezioni. Anche se ero affascinato da quelle che vedevo nelle case dei miei compagni di scuola: collezioni di francobolli il più delle volte, o di monete, ma anche altre, meno scontate. Raccolte inconsuete, fantasiose, a volte. E non mi riferisco certo alle serie di pacchetti di sigarette straniere, o di bottiglie o sottobicchieri di birre di tutto il mondo. (…)
È ad altre collezioni che penso, a quella di un compagno di ginnasio soprattutto, ultimogenito di una famiglia benestante, straniera. (…)

Una collezione di sale. Non ero mai andato al di là della distinzione tra il fine e il grosso, come si leggeva sui due barattoli che stavano accanto ai fornelli nella cucina di casa mia. Mai avrei immaginato che ben altre potessero essere le qualità che distinguevano quello che fino a quel giorno avevo ritenuto un semplice ingrediente e mi appariva ora nella varietà meravigliosa e solenne di un minerale prezioso.
Erano decine i vasi, grandi come quelli che si vedevano in certe vecchie farmacie, ma trasparenti, d’un vetro dai riflessi azzurrognoli o verdastri a seconda di come la luce della finestra li raggiungeva, anche se erano tutti uniformemente allineati su una lunga mensola dello stesso materiale.
Ognuno accompagnato da una targhetta metallica che ne indicava nome e provenienza. Il piano trasparente su cui erano disposti era stato con ogni evidenza fabbricato appositamente. Correva sopra il letto che occupava un angolo della grande camera del mio compagno: una volta coricato, doveva bastargli allungare il braccio per giungere a toccare quei vasi. Lo immaginai risvegliarsi, di notte, angosciato da un sogno che gli avesse ispirato un senso di diffusa scipitezza, di generale insulsaggine, e, preso dal bisogno di rincuorarsi al gusto della varia e rassicurante sapidità che quei vasi preservavano, nella coscienza smorzata del dormiveglia o in quella parallela del sonnambulo umettare la punta dell’indice mentre, appena sollevandosi dal cuscino, con l’altra mano scostava un primo e un secondo tintinnante coperchio per intingere il polpastrello in questo o quel vaso; portare quindi il dito alle labbra e infine silenziosamente tornare a distendersi con una piega soddisfatta della bocca serenamente insaporita, risprofondando in un sonno rinfrancato alla constatazione che il mondo non aveva smarrito il suo gusto cangiante.”


Ordini

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Recensioni

Dal Giornale di Brescia del 4 giugno 2020.
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Da Bresciaoggi del 24 giugno 2020.
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Dal Corriere della Sera Brescia del 29 settembre 2020.
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Commento di Paola Baratto:

Carissimo Italo… anzi, Carlo, ho finito di leggere il tuo bellissimo Collezione di storie. D’una complessità e d’uno spessore che impegnano e intimidiscono. 
Mi spiace non conoscere così bene Calvino da poter comprendere tutti i riferimenti e le citazioni. Ho ripreso in mano i romanzi e, tra l’altro, ho notato che la tua prosa non è dissimile. Li hai smontati, frugati e rimessi insieme secondo disegni e pensieri tuoi, che tuttavia probabilmente erano sottotraccia anche nelle pagine di Calvino. 
Mi fa pensare ad una mole di lavoro che m’impressiona. Magari, al contrario, le avevi così approfonditamente lette e così assorbite che non è stato complicato trasformarle in qualcosa di tuo, che non lo tradisce, anzi…
A parte le osservazioni di Bradamante sull’invisibilità di Agilulfo, che non potevano non toccarmi, mi hanno molto colpito e interessato le riflessioni sul narrare. Sui meccanismi e sui motivi che presiedono alla stesura d’un racconto. E sull’intreccio tra vita e scrittura. Sullo scegliere direzioni così come sul guardare la realtà. 
Mi piace molto quando Biagio dice: “La distanza necessaria non era forse quella che l’altezza degli alberi gli aveva consentito, ma quest’altra, che, ponendolo al livello stesso dei suoi simili, o addirittura al di sotto di quello, il viaggio sulla nave gli imponeva”. 
Un bel quesito, esistenziale oltre che letterario.
Tema che poi riprendi più avanti, quando dici: “Perché senza la giusta distanza non si scrive, e scrivere (…), è del resto il modo migliore per guardar la terra come si stesse sugli alberi. E allora conviene vivere come si scrivesse sempre anche quando non si ha la penna in mano”. 
E ho trovato molto persuasivo un altro passaggio: “Se il mondo scritto può approssimarsi a quello non scritto non è nel tentarne spiegazioni che può riuscirvi, né nel distillarne teorie. Solo nel raccontarne può aspirare a divenirne parte, a farsi carne e sangue, legno e pietra, acqua di mare e pioggia e vento”.
Ecco, quest’ultima considerazione appartiene anche a me, la sento mia. Anche se non avrei saputo dirla così bene e con chiarezza. Come pure l’idea che scrivere sia tirar fuori quel che già c’è, non tanto “inventare”.
Ma, come ti ho spesso detto, io non ho la paziente, lucida attitudine ad indagare i motivi della scrittura. E a trarne qualche teoria, qualche considerazione oggettiva. A volte mi appaiono come una confusa matassa che non ho la capacità di districare.
Ho avuto anche la sensazione che tu ti sia divertito molto. Che abbia quasi… dialogato con Calvino. È anche un’inedita forma di critica letteraria, che entra nel testo e ci gioca, con rispetto, ma infondendogli nuova vita.
Complimenti, il tuo libro merita di essere letto e riletto.


Presentazioni

Pensiero del Presente / 28 maggio 2020. Appunti e letture

▸ dai giorni del coronavirus

Ci sono eventi che d’improvviso aprono un varco nell’opacità del nostro vivere collettivo e nell’ordinarietà delle nostre vite individuali. Così avvenne con la strage in piazza della Loggia e la risposta che la città diede, così è accaduto – su ben altra scala – con la rapida diffusione del virus e l’isolamento con il quale si è cercato di farvi fronte. Vicende radicalmente diverse, ma che fanno comunque riflettere sul bisogno ineludibile di una memoria collettiva sensibile e capace di elaborare gli avvenimenti. Un bisogno che attraversa epoche diverse – gli anni ’70 e quelli che viviamo –, due epoche tra loro lontane, più di quanto inevitabilmente implichino i decenni passati ma, appunto, accomunate – soprattutto agli occhi di chi è testimone dell’una e dell’altra – da una stessa esigenza di memoria.
A vent’anni dalla strage, nel ’94, mi ero provato a ripercorrere l’evoluzione della memoria della strage e delle sue manifestazioni: dal ricordare al commemorare fino al celebrare, in un progressivo processo segnato non tanto dal naturale affievolimento della memoria, quanto dal suo scolorirsi nelle forme della memoria pubblica prima e dalla sua cristallizzazione nei riti celebrativi poi: un processo storico e culturale non inevitabile; una perdita che, contrariamente a quanto negli anni seguenti è avvenuto, sembrava irreversibile. Quanti si sono adoperati per contrastare questo processo, e per garantire la trasmissione di una memoria viva ai giovani che nel ’74 non erano ancora nati, sanno bene il lavoro che è stato, ed è, necessario. Un lavoro che non può conoscere interruzioni e latitanze, che si deve alimentare di una ricerca permanente e tradursi in iniziative di informazione e di sensibilizzazione, innovando sempre formule di comunicazione e modalità di coinvolgimento.

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Si è quel che si è fatto di ciò che la famiglia aveva fatto di noi

Giorgio Fontana, Prima di noi, Sellerio 2020 (pp. 891, euro 22)

La “famiglia singolare” è “la mediazione fra l’universalità e l’individuo”. La famiglia singolare, la mia famiglia, che non si esaurisce nei componenti che tuttora la compongono ma comprende le generazioni che hanno preceduto l’attuale; l’universalità: tutti gli altri che alla mia famiglia non appartengono, la società, ma anche il divenire della società, la sua storia.

Le parole di Sartre, sulle quali il filosofo ha fondato – nelle sue Questioni di metodo – la ricerca confluita nella monumentale opera su Flaubert (L’idiota della famiglia, Il Saggiatore 2019) possono fornire la cornice entro la quale collocare il grande romanzo di Giorgio Fontana. Perché c’è l’Italia del Novecento, e della prima decade  del nuovo millennio, in Prima di noi, ed è sicuramente, questa, una pista di lettura dell’opera, feconda, ma non unica, a meno che la si complichi di quella “mediazione” fra il singolare e l’universale, il particolare e il generale, e allora a trasparire come filo essenziale, che tiene insieme la storia, è il confronto fra le figure che via via prendono la scena e quelle che a lungo vi compaiono e vi conservano comunque un posto anche quando di scena sono uscite.

Continuità sotterranee e rotture eclatanti costellano il divenire della famiglia Sartori, dalla prima guerra mondiale ad oggi, nella forma di somiglianze di carattere, di affinità di comportamento e dì comunanza di aspirazioni, ma anche di drastiche ridefinizioni di questi elementi esposti all’influenza irresistibile dei tempi, all’evoluzione dei costumi, all’irrompere di mentalità nuove.

Torniamo a Sartre: “Il dato che superiamo ad ogni istante, per il semplice fatto di viverlo, non si riduce alle condizioni materiali della nostra esistenza, ma in esso va compresa la nostra stessa infanzia. Questa, che fu insieme un’apprensione oscura della nostra classe, del nostro condizionamento sociale attraverso il gruppo familiare, e un superamento cieco, uno sforzo maldestro per sradicarcene, finisce per iscriversi in noi sotto forma di carattere”. Lo stampo che la famiglia imprime sui diversi personaggi è subito messo in questione dagli stessi: reinterpretato, fatto proprio, o ancora più spesso combattuto nel proprio intimo, giocato anche aggressivamente nelle relazioni familiari, contestato sulla base della propria esperienza pubblica. Maurizio è ormai altro, è fatto di una pasta diversa rispetto al padre, intriso della pazienza cupa dei contadini; i suoi figli sono a loro volta diversi da lui ma anche, si badi, diversi fra loro, perché i singoli processi di individuazione, di distacco dalle figure genitoriali, da quella  paterna in ispecie, divergono: se Gabriele, cattolico, coltiva, e coltiverà per tutta la vita, le proprie aspirazioni letterarie, suo fratello Renzo, comunista, è nella fabbrica e nelle lotte sindacali che cercherà la sua verità, nella propria rabbiosa tenacia rivelando un tratto profondo di continuità con il padre. Così come la madre, nella sua ferma dirittura, nel suo quieto e coraggioso bastare a se stessa, sembra non aver perso radici antiche, che la riporteranno alla campagna che la famiglia aveva lasciato. E questa dialettica fra continuità e discontinuità, somiglianza e differenza rispetto sia a chi li ha preceduti sia ai coetanei, connoterà i figli di Gabriele così come quelli di Renzo, ormai calati nei “tempi miseri” che ai giovani gli ultimi decenni hanno offerto, minando ogni sentimento di appartenenza, non esclusa quella familiare: “Un cognome non vuol dire nulla”, dichiara Dario, “l’ultimo della stirpe, l’ultimo dei Sartori”: “I Sartori non esistono”, giunge a dire. Non è tuttavia su questa constatazione, che sembra voler destituire di senso la lunga storia che abbiamo letto, che il romanzo si chiude, ma sul gesto di Letizia che si reca alla tomba del nonno Maurizio da cui tutto è partito. Maurizio, disertore nella Grande guerra, traditore della fiducia della ragazza che gli aveva creduto e dalla quale solo perché costretto era tornato, eppure a lei legato poi per una vita: Letizia “mise una mano sulla lapide e la sentì calda e ruvida. Una sorta di frenesia la colmò. Ora non c’erano più segreti né condanne, non esisteva ragione di vergognarsi o avere paura. Il cognome su quella pietra era pronto a sbiadire (…). Pietà dunque” per ciascuno dei Sartori, e soprattutto “per un ragazzo e una ragazza che si amano in un bosco, mentre intorno la guerra incendia la terra e loro ancora non sanno che lei verrà abbandonata – e ancora non sanno che lui ritornerà”.
Quel ragazzo e quella ragazza che sono stati i bisnonni dell’autore: “cos’ho voluto raccontare con queste quasi novecento pagine? – si è chiesto Fontana, raccontando il suo libro sul blog Letteratitudine.  Forse innanzitutto un’inquietudine di fondo che anima i Sartori, diciamo una difficoltà radicale di stare al mondo: ognuno reagisce alla diserzione del capostipite inseguendo un sogno preciso che comunque non porta quiete – la rivoluzione, la religione, la poesia, la conoscenza, l’arte… Tutto è un modo per combattere la stortura ricevuta in eredità: ma tutto resterebbe inerte se ad esso non si aggiungesse una forma di pietas, una luce compassionevole, forse persino una preghiera rivolta al passato – alle vite inventate sepolte laggiù, negli abissi del tempo, prima di noi, e che irradiano il loro mistero”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Sulle tracce di Simenon

Jean-Luc Bannalec, Intrigo Bretone. Omicidio a Pont-Aven, Superbeat 2020 (pp. 233, euro 18)

“Spostati, Maigret. È arrivato il commissario Dupin”: esagera la fascetta di cui il libro si fregia, ma un che di Simenon lo ritroviamo in questo romanzo, non fosse che per l’atmosfera tutta francese che lo pervade. Dupin infatti, dalla sua Parigi, ha dovuto spostarsi in Bretagna, a Concarneau e, contro ogni sua previsione, se ne innamora, di un amore che dura anche dopo che ha risolto il caso: l’omicidio di un albergatore novantunenne seguito da quello dell’erede, nella vicina Pont-Aven. Un luogo leggendario, sede della mitica Scuola artistica dominata dalla figura di Gauguin, meta di pittori che cercavano “il primitivo, il semplice, l’incontaminato e lì trovavano il mondo rurale”, la tradizione: “In fin dei conti, la Bretagna – sostengono i suoi quattro milioni di orgogliosi abitanti – apparteneva alla Francia solo dal 1522, ‘da cinquecento ridicoli anni’.”

Paesaggio e contesto culturale sono dunque assicurati ed è su questo sfondo – qualcosa di più di un sfondo, in vero – si muove il nostro commissario, che quell’ambiente assimila, sì, come un Maigret, che arriva a conclusioni decisive presentando un’attenzione ai dettagli che non saprebbe giustificare, e prende nota anche dei “rituali che la gente s’(inventa) per il corso della giornata” essendo che “in nient’altro – ne era convinto – si (rivela) più chiaramente l’essenza di una persona”. Un Maigret tuttavia che pur amando cibo e vini buoni si scorda a volta di mangiare e s’ingozza di caffè, un uomo nervoso, spigoloso e reticente con i suoi sottoposti, che reprime a fatica reazioni o addirittura espressioni offensive come quelle che a Parigi l’avevano messo in cattiva luce presso i superiori. Non è però un ruvido e trasgressivo Rocco Schiavone, tutt’altro: “gli mancavano quegli eccessi che sembravano essere un requisito, o quanto meno una costante, della sua categoria professionale: consumo di alcol o droga, nevrosi o depressione a livelli clinici, qualche eclatante passato criminale, corruzione di alto livello, o un paio di matrimoni drammaticamente falliti. Lui non vantava nulla di tutto ciò”. E con brevi digressioni come questa, l’autore ci dà la misura di quanto sia consapevole che nei polizieschi quel che si cerca, più dell’intreccio, è ormai una figura originale di investigatore. Quante siano le varianti ancora a disposizione è problema degli scrittori che si provano nel genere.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Raccontare storie significa occuparsi del tempo, ed esperire la nostra vita come tempo ha a che vedere…”

“Raccontare storie significa occuparsi del tempo, ed esperire la nostra vita come tempo ha a che vedere col fatto che la nostra vita ha un termine, e che la vita dei nostri amici [e di quelli cui vogliamo bene] ne ha pure uno. L’angoscia di fronte a questo dover finire può naturalmente essere tenuta a bada (…). Ciò che però non scompare è la tristezza per questa finitudine. La tristezza non la si può vincere, può soltanto essere rifiutata o accettata. Il raccontare storie ha a che fare con il fatto di accettarla. La tendenza degli uomini alla tristezza li fa diventare narratori di storie”. (Peter Bichsel)

Il confuso desiderio di non sapere troppo

Fred Vargas, L’umanità in pericolo. Facciamo qualcosa subito, Einaudi 2020 (pp. 216, euro 17)

Se non “prima di cena” – come proponeva Safran Foer (Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda 2019, in queste note all’inizio dello scorso dicembre) – comunque “subito”. Perché, confessa l’autrice, anche se “ho il fondato sospetto che avreste preferito vedermi sfoderare un bel poliziesco di pura evasione (…) adesso no, non posso. Una specie di implacabile necessità mi incalza a scrivere freneticamente questo libro”, riprendendo un testo scritto nel 2008 che nel frattempo non ha smesso di essere letto: addirittura, alla Cop24, la Conferenza sul Clima del 2018. E, “visto come stanno andando le Cop” – vedi il fallimento della Cop25 a Madrid, nello scorso dicembre (e per il futuro, il futuro del dopo Covid c’è da sperare?)  –, conviene rileggerlo anche noi quel testo, purtroppo attualissimo: “Madre Natura, stremata, contaminata, esangue, ci chiude i rubinetti. (…) Il suo ultimatum è chiaro e spietato: Salvatemi, oppure crepate insieme a me”. E così scopriamo che di problemi ambientali Vargas si preoccupa “da quando (aveva) vent’anni”. Lo stesso anno, il 1997, in cui diventa ricercatrice presso il Centro nazionale francese per le ricerche scientifiche, scrive il suo primo polar, come dicono i francesi (polar: policier + noir). E allora perché non scrivere un altro “agile libretto dello stesso genere”? Questo che leggiamo ora, appunto. Non semplicemente la riflessione di una scrittrice – che pure non guasterebbe: si veda Amitav Ghosh (La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza 2017, in queste note il 17 settembre 2017) sul silenzio assordante della letteratura – e neanche “cazzate da militante esaltata”, ma i risultati di una indagine approfondita, condotta essenzialmente su dati e testi scientifici ricavati dal web. Il che non esclude prese di posizione esplicite e inequivocabili: i Soldi e la Crescita sono i due pilastri di un sistema fatto di multinazionali che comandano e politici che obbediscono. E della Gente naturalmente, di noi insomma, “massa anonima” richiesta di comprare e consumare mentre viene tenuta all’oscuro di quel che dovrebbe sapere.  Certo, siamo a conoscenza del fatto che “la Terra sta male”, ma in modo tanto generico e vago da poter continuare a “vivere spensierati”, “come se alla fine tutto potesse sistemarsi”, senza contare il nostro “confuso desiderio di non sapere troppo”. È questo vuoto di sapere – di cui siamo dunque in parte responsabili –, questa sostanziale incoscienza che il libro vuole contrastare. Senza aggirare il senso di impotenza diffuso: “Mi direte: Ma a parte firmare petizioni, non si può fare niente!” Non è così: le azioni possibili, a portata di noi tutti sono l’altro versante del discorso. Ma “per agire dobbiamo sapere”. E allora via con i dati, ma sempre, programmaticamente, “senza abuso di termini tecnici” e con “un lessico colloquiale standard”.

Senonché i dati citati sono davvero una valanga, e non giova che il discorso non conosca pause e gerarchie, capitoli e paragrafi. Aiutano i corsivi che qua e là punteggiano il testo: “Chiedo scusa, sul serio, per questo lungo elenco. Che però ci permette di capire che lo sconvolgimento di tutti i nostri sistemi di produzione è inevitabile già nella prima parte del secolo!” Le soluzioni, dunque, non sembrano – almeno fino a questo punto – di quelle che ciascuno può tentare: è di riassetti e mutamenti tecnologici che si parla, anche se riserve sostanziali sulla “geo-ingegneria” sono ben evidenziate.

Ma ecco un rimedio, parziale certo ma efficace: usare il meno possibile l’auto (e l’aereo), in attesa di veicoli elettrici (ma se per fabbricarli si usa energia prodotta con fonti non rinnovabili il beneficio è relativo, senza contare il problema dello smaltimento del litio delle batterie). E via con informazioni e numeri e controindicazioni: è una scelta di cui l’autrice non sottovaluta i rischi: “Vi annoiate? È normale. (…) Ma non abbandonatemi proprio adesso…”. Gli ammiccamenti al lettore accompagnano la trattazione di ogni nuovo argomento con relative elencazioni (“Senza insistere troppo a lungo, altrimenti questo libro vi cadrà presto di mano…”), così come gli incoraggiamenti: “Aspettate, non lasciatevi abbattere [dai dati sulla deforestazione], noi possiamo fare qualcosa, e lo faremo”. Visto, per esempio, che “l’Europa è la regione del mondo che, con le sue importazioni, genera più deforestazione in altre aree del globo”, dopo l’olio di palma, mettiamo al bando anche la soia, “primo responsabile della nostra forest footprint”, non acquistiamo legnami tropicali o esotici, non usiamo biocarburanti (ricavati da vegetali la cui coltivazione danneggia l’ambiente di altre parti del mondo).

Ma soprattutto – e qui Vargas è d’accordo con Foer – dobbiamo mangiare meno carne, addirittura il 90% in meno, perché l’allevamento e l’agricoltura che lo consente sono “la prima causa di riscaldamento” e di distruzione di risorse, acqua in primo luogo. E dunque basta con la carne: “senza aspettare un’iniziativa delle autorità. E perché? Perché non ci sarà”, e allora non tanto a un libro come questo –ammette l’autrice – ma ai social occorre far ricorso per divulgare la notizia. Non tacendo gli effetti del consumo di carni (rosse soprattutto) sulla salute: “Ci hanno avvertiti, i ministri della Sanità? No, hanno lasciato che ci ingozzassimo di carni e salumi senza fornirci la minima informazione”. E il pesce, “un tempo considerato, con i suoi omega 3, il più sano degli alimenti”? Anche qui, la disinformazione: si acquista pesce senza essere a conoscenza dei metodi devastanti con cui li si pesca e dell’inquinamento da mercurio degli oceani, sicché “tocca ancora a noi arrangiarci, se vogliamo capire”. Né carne né pesce, dunque? Tutti vegetariani? “Sul fronte della frutta e della verdura – e del vino, ammonisce implacabile l’autrice – c’è poco da stare allegri”, visto l’uso dei pesticidi. E allora ecco le liste dei vegetali che conviene mangiare: “vi serviranno a scegliere meglio frutta e verdura”. Ma la via è un’altra: quella di rivolgersi esclusivamente a prodotti bio, di stagione, a chilometro zero, più cari, come si sa, ma “tocca ai governanti pensarci e sovvenzionarli” in modo da calmierarne i costi. Insomma, sul fronte dell’alimentazione, a conti fatti “noi, la Gente, abbiamo in mano una potentissima leva in grado di modificare le pratiche agricole” e “la presa di coscienza”, almeno su alcuni fronti come quello della proliferazione della plastica, “è in corso e azioni per il futuro sono già quasi operative”. La denuncia circostanziata si coniuga dunque a un moderato ottimismo e, fra una lista e l’altra – c’è anche quella degli alimenti di cui fare proprio a meno –, lo scopo del libro si fa sempre più chiaro: non un’informazione persuasiva, ma un vero e proprio vademecum del consumatore responsabile e, soprattutto, aggiornato.

Senonché il discorso torna poi alle questioni a scala planetaria, ma anche qui qualcosa da fare c’è. Si tratta di ricorrere alle energie alternative, alle fonti rinnovabili: l’importante è non opporre al cambiamento drammatico in corso “il diniego, la rimozione, il rifiuto di sapere, il desiderio di ignoranza”; non assecondare la tendenza della “nostra psiche (a) proteggersi dall’angoscia che suscita un futuro tanto minaccioso”; non iscriversi al partito dei “collassologi” – il termine non richiede spiegazioni –  o a quello più estremista dei “survivalisti”, profeti di “un’imminente catastrofe totale” di fronte alla quale non ci sarebbe che “immergersi nella natura” e “sopravvivere senza comfort” (o costruendosi bunker pieni di scorte, se si è ricchi): “progetti semplicemente idioti, e di una crassa ignoranza”. Ma anche degli “speranzisti” conviene diffidare, non essendo altro che parenti stretti dei collassologi (il sistema è prossimo al collasso, però… chissà…). Eppure – ammette l’autrice – degli speranzisti, in fondo, fa parte anche lei. Lei e i giovani, indisponibili ad accettare l’interessato immobilismo dei governanti. Segue elenco finale – l’ultimo di molti – di quel che tocca fare ai governanti e di quello che possiamo invece fare noi, gente comune, a partire dalla scelta di eleggere solo rappresentanti politici che “presentino un autentico programma ecologico”, di votare “per rappresentanti consapevoli, attivi, sinceri”.

Con il che si ha la prova che la conoscenza più dettagliata può accompagnarsi a un candore disarmante.

Forse, quello che ci si può aspettare da un scrittore è altro: che usi gli strumenti di cui dispone – la letteratura – per intaccare la nostra resistenza a credere davvero a quel che sta accadendo, o quantomeno a cessare di comportarci come se non ci credessimo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Disordine e dolore tardivo

▸ dai giorni del coronavirus

Noi diciamo la morte per semplificare, ma ce ne
sono quasi quante le persone.
(Marcel Proust)

La morte è questo: la completa uguaglianza
degli ineguali.
(Vladimir Jankélévitch)

L’importante è che sei qui.
Ogni volta che ha provato a raccontare qualcosa dei giorni passati, Elisa gli ha ripetuto che contava solo questo: era di nuovo a casa. E lui ha lasciato perdere: cosa vuoi stare a raccontare di cose che se uno non le ha viste non riesce neanche a immaginare.
Lo stesso al telefono, con quei due o tre amici avvertiti dalla moglie che stavano per dimetterlo: be’, adesso sei di nuovo nella tua casa, con tua moglie. Non pensarci più, cose passate.
Sei nella tua casa, con tua moglie: come prima, aggiungono. Il resto è andato, perché parlarne?
Già. Perché parlare se nessuno ha voglia di ascoltarlo. E allora non ha più detto niente, sta zitto, li lascia dire. Cosa vuoi: metterti a discutere con uno che ti ha telefonato per felicitarsi che ce l’hai fatta? O anche: hai vinto la battaglia, gli ha detto – passando per la prima volta al tu – il vicino che sta sul loro stesso pianerottolo e che è venuto fuori a salutarlo quando è tornato.
Ma cosa ho fatto, cosa ho vinto? si chiede.

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“La letteratura è una cosa così forte, che non ha bisogno di fare niente…”

“La letteratura è una cosa così forte, che non ha bisogno di fare niente. La letteratura è la mano su questa terra di un Dio che non esiste. Ha un potere imparagonabile. Le cose della vita, le stesse tragedie, sono momentanee. La letteratura non lo è. Il tempo è il peggior nemico delle persone. E l’arma migliore che la gente ha per combattere il tempo, per superarlo, è la letteratura. Di Omero non ti ricordi i politici, i soldati, i combattenti, ma ricordi Omero. Ricordi loro solo perché lui li ha raccontati. Un essere umano creato da Dio può vivere per circa 80 anni. Ma un personaggio creato dalla letteratura vive per sempre. Shakespeare, creato da Dio, non ha vissuto a lungo. Però Amleto creato da Shakespeare vivrà per sempre. Per questa ragione penso che Dio sia geloso degli scrittori”. (Ahmet Altan)

Il coraggio di non dimenticare

Romina Casagrande, I bambini di Svevia, Garzanti 2020 (pp. 400, euro 18,60)

“Migliaia di bambini (quattro mila all’anno nei periodi più duri, ma troppi di contrabbando per sapere con esattezza quanti) dai cinque ai quindici anni, per tre secoli – dal Settecento a metà del Novecento –, hanno attraversato le montagne. Soli, con uno zaino sulle spalle, dall’Italia, dal Ticino, dal Sud dell’Austria, lasciando paesi poverissimi e famiglie che li avevano venduti, per lavorare nelle ricche fattorie dell’Alta Svevia”.

Questo il fatto che la Storia, una Storia poco nota, ci consegna. Come farne un romanzo? Ripercorrendo la Storia in una storia, ovviamente: quella di delineare una vicenda coi suoi tempi e i suoi personaggi sullo sfondo di un’epoca e degli avvenimenti in essa accaduti è la ragion d’essere stessa del romanzo, la sua missione. Coniugare l’universale e il singolare in modo che ne escano reciprocamente illuminati. E dunque, fra quelle migliaia di bambini zumare su Edna e Jacob, delinearne i caratteri, raccontarne la relazione che li terrà in qualche modo uniti anche dopo che un drammatico tentativo di fuga dalla fattoria in cui si erano incontrati li separerà.

Ma c’è di più, in questo romanzo. La narrazione marcia sui due piani del passato e del presente, la cronaca e i flash back si alternano fino alla fine delle sue quasi quattrocento pagine, senonché  questo modo di procedere, di costruire l’intreccio, non deriva semplicemente da un espediente narrativo collaudato: il fatto è che se Edna, ormai vecchia, ripercorre il cammino fatto da bambina per andare a trovare Jacob, una volta che ne ha inaspettatamente rintracciato notizie, è perché “il passato, anche quello più lontano, si può aggiustare purché lo si voglia”, purché si conservi – come Edna – la capacità di credere che “le persone non (scompaiono) mai completamente. A meno che non (sia) tu a volerlo”. E allora si tratta di scegliere, per esempio se accettare le cure affettuose di una vicina e sistemarsi in una casa di riposo o invece eluderle e fuggire, di nuovo, per tornare là dove tutto era cominciato. I due piani temporali su cui corre il racconto si articolano così ulteriormente: mentre quello della vita dei due bambini e dei loro compagni nella fattoria sveva evoca l’atmosfera dei lager che romanzi e film sulla Shoa hanno reso efficacemente, spesso crudamente, il racconto del viaggio di Edna e delle figure con cui viene in contatto si risolve in una successione di episodi e colpi di scena che richiamano la narrativa nord europea, da Paasilinna allo Jonasson del Centenario che saltò dalla finestra e scomparve.  Il destino drammatico dei bambini di Svevia non cessa tuttavia di rappresentare il motore della narrazione, anche quando le avventure della vecchia Edna e del suo inseparabile, e altrettanto attempato, pappagallo Emil catturano l’attenzione del lettore. Un destino che, non si fosse complicato nelle loro vicissitudini presenti, nell’incontro con la generosità svagata di giovani marginali  e nelle riflessioni che ne conseguono, sarebbe rimasto solo un documento del passato, un’ulteriore testimonianza delle innumerevoli ingiustizie della Storia e della violenza cieca degli uomini, senza saper raggiungere la forza di un’evocazione vivida e allo stesso tempo capace di aprirsi – attraverso l’indimenticabile protagonista – al sorriso e alla speranza, con il coraggio che solo “tener fede a ciò che si è” può dare. 

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Pensiero del Presente / Una cronaca che si fa Storia

Dieci buone ragioni per leggere un “minidiario” dai giorni della reclusione

▸ dai giorni del coronavirus

Esco alle otto e mezza di sera, perché non ho voglia di rifare la coda fuori dal supermercato, a un metro da quello prima e da quello dopo, che ci si guarda in tralice di continuo per far mantenere la distanza, con il serpentone che si allunga finché il supermercato non lo vedi nemmeno. Fuori, vuoto.
Ma vuoto vuoto. Che ho un primo attimo in cui dico ah, però, bello, mai visto così e poi mi scopro inquieto, perché le montagne, le vallate, il mare sono belli quando non ci sono le persone, le città no: se sono vuote sono città morte.

Comincia così il “minidiario dei giorni di reclusione”, scritto a partire dal 13 marzo, pochi giorni dopo l’inizio del “lockdown”, ma “scritto un po’ così”:

Sto scrivendo di getto, rileggendo a malapena quanto scrivo (è una delle regole che mi sono dato per questo diario, lo dichiaro fin dal titolo).

Ma scritto da chi? Da Trivigante, stando al nome del sito – trivigante e le cose – che evoca un personaggio dei poemi quattrocenteschi di Pulci, Boiardo e Ariosto.
E perché leggerlo, di questi tempi, intasati di commenti punti di vista critiche eccetera?
Per dieci buone ragioni. Che ti si fanno chiare man mano leggi il già scritto e si confermano poi di giorni in giorno (sperando che Trivigante tenga duro).

1.

Condizioni di vita comuni, o molto simili – anche se la barca un cui ci troviamo non è mai stata la stessa, e tanto meno lo è stata via via che la Fase Uno procedeva fino a sfociare, si fa per dire, nella Due – non hanno sgombrato la scrittura da una sua abituale e radicata postura: molte delle cose che abbiamo letto e leggiamo in questi giorni portano in sé l’ambizione, più o meno dissimulata, di alzarsi una spanna sopra gli altri, di distinguersene. Come se scrivendo, appunto, si potesse guardare quello che sta intorno da una posizione privilegiata, tirandosene fuori nella sostanza. O immaginando di farlo, comunque.

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Pasqua. Duemilaventi

▸ dai giorni del coronavirus

Uno

Gli occhi sono rimasti sbarrati, anche quando il petto ha ripreso – irregolarmente, quasi impercettibilmente – ad alzarsi e abbassarsi. È restato anche il terrore, in questi occhi.
Un terrore da cui non è scomparsa del tutto l’espressione che doveva averlo preceduto: di incredulità – sta succedendo a me? è così che accade, è così che si muore?
Domande che lo sguardo, non la voce, non ha cessato di fare.
Non esce suono dalla bocca aperta quanto può a gridare la sua fame d’aria.
È muto l’urlo che la vita oppone alla morte, fino all’ultimo, quando ha sconfinato ormai nel silenzio definitivo.
Mi guardano senza vedermi, i suoi occhi. Si aggrappano a me, perché le mani non possono smettere di annaspare, come a ghermirla quell’aria che incredibilmente si è fatta più in là, oltre un muro che nessuno vede. Là, dove stanno gli altri, che non sanno di respirare.
Solo un gorgoglio profondo si intende ancora, a tratti. È liquido, non aereo, il fluido che non ha abbandonato i recessi di questi polmoni che non vogliono interrompere il movimento imparato dall’aria nel primo incontro con il mondo di fuori, in un tempo che la memoria non sa.
Un ritmo che il corpo non aveva mai più dimenticato e credeva suo per sempre. E dunque non ha potuto, non può immaginare di restarne privo.
Non sa nulla del cadavere, il corpo.

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Imparare a vivere nel tempo

Mauro Bonazzi, Creature di un sol giorno. I Greci e il mistero dell’esistenza, Einaudi 2020 (pp. 160, euro 12.50)

“Siamo soggetti temporalmente determinati, e dobbiamo imparare a vivere nel tempo”: tutto qui. Proprio tutto. E i Greci ne erano ben consapevoli, anche se sul modo in cui imparare non erano sempre d’accordo. Quanto all’autore, che ci accompagna in un viaggio che va da Omero a Platone, Aristotele ed Epicuro, ci fa fin dall’inizio una raccomandazione precisa: “riconoscersi nella propria incompletezza, senza però arrendersi, continuando piuttosto a farsi domande”. Come i Greci, appunto.

E dunque, prendiamo atto che oltre che mortali siamo “esseri desideranti”, animati dalla mancanza di unità che sentiamo in noi e da cui deriva “un desiderio che non può mai essere soddisfatto”: questa “una delle scoperte più originali e affascinanti di Platone”, di cui Freud è debitore: prima di lui, è stata la Diotima del Simposio a mettere in chiaro che “la forza che (ci) spinge a fare in modo di riprodursi” combatte contro un nemico ben individuato. La morte. E allora, dal momento che “La natura mortale cerca per quanto le è possibile di essere sempre e di essere immortale (così Platone), “produrre un altro individuo simile a sé” è il modo dei viventi – non solo degli uomini, anche degli animali e delle piante – di “partecipare, nella misura del possibile, dell’eterno” (così Aristotele): “individualmente siamo destinati a scomparire, ma possiamo prendere parte alla sopravvivenza della nostra specie, contribuendo alla sua immortalità”.  Ossia: “conserviamo la vita – più o meno, visti i trend demografici attuali… –, ma quanto di noi stessi, di ciò che realmente siamo, dei nostri pensieri, dei nostri desideri e delle nostre azioni, rimane?” Siamo daccapo, senza poi contare che nell’unione sessuale si gioca anche altro che con la vita a poco a che fare, anzi: quel che sotto sotto agisce è “una sorta di nostalgia per la condizione di indeterminatezza primordiale”, per cui, indistintamente, si persegue “una specie di estinzione di sé nell’inorganico”. Anche qui Freud, certo – quello di eros e thanatos –, ma prima di lui i Greci. I filosofi, ma anche i poeti, come Pindaro: “Creature di un solo giorno – eccolo, il titolo –: che cos’è mai qualcuno che è mai nessuno? Sogno di un’ombra è l’uomo”. Il problema è quello, e resta. L’ha detto bene Hannah Arendt: “Questo è l’essere mortale: muoversi in linea retta in un universo dove tutto ciò che si muove segue semmai un moto ciclico”. Non restano che espedienti perciò, come la gloria che gli eroi di Omero non fanno che cercar di assicurarsi, assillati dall’oblio incombente, dalla prospettiva della “caduta nel nulla, nell’insignificanza”. “La conquista della gloria è la prova che non si è passati invano”, che si è stati “unici”.

Questo è Omero, ma dal campo di battaglia si passa poi alla polis, da Achille a Pericle: il riconoscimento cui si punta non è più individuale ma collettivo, perché questo vuole essere per l’appunto la polis, un “individuo collettivo”. Dalla vita eroica alla vita politica, quindi. Ma a ben vedere qualcosa in comune caratterizza i due campi: la forza, l’impulso a dominare, in nome di una legge che “non abbiamo stabilito noi”, avverte uno storico questa volta, Tucidide: “l’abbiamo ricevuta che già c’era e a nostra volta la consegneremo a chi verrà dopo”. “Il nazismo – conclude senza mezzi termini l’autore – è uno sviluppo possibile di un percorso che è iniziato nella Grecia antica”. Una tragedia, in definitiva: l’azione, che sia militare o politica, partita dal desiderio di combattere la morte finisce col produrre morte.  E allora meglio la vita contemplativa, l’unica vita felice, afferma Aristotele, perché l’unica che realizza la nostra “semenza”. E così siamo a Dante, che pure fa finire in un naufragio il desiderio di conoscere del suo Ulisse. Il naufragio cui sono destinati gli uomini se contano solo sulle loro forze intellettuali, se non riconoscono il loro limite (il limite della scienza e delle sue applicazioni, per gli uomini di oggi…).

Si ha l’impressione che dopo tanto arrabattarsi, sia Epicuro a dare la soluzione. Ne sembrava convinta persino un’intelligenza implacabile come quella di Wittgenstein: “La morte non è evento della vita. La morte non si vive. Se, per eternità, s’intende non infinita durata del tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente”. Se siamo i nostri corpi, di cosa ci dobbiamo preoccupare? La loro fine è la fine di tutto. Senonché – ecco il punto – si può non aver paura della morte, ma averne del dover morire, del dover abbandonare tutto quello che siamo stati e siamo, tutte le nostre speranze, i nostri desideri. Desideri immaginari, e proprio per questo inestinguibili, ammonisce Epicuro: desiderare di lasciar traccia di sé avvelena la vita, si tratta di “rifiutare la schiavitù del tempo futuro” e vivere il momento presente, riconoscere – consapevoli che si è nati per caso – il sentimento dell’“esistenza pura”, un’esistenza attenta solo a bisogni reali. Il cui soddisfacimento non aumenta con la durata della vita: per questo si può dire che “il tempo per chi è felice non conta”. Però. Però noi siamo nel tempo e siamo i nostri progetti, non rinuncia a sostenere l’autore. E dunque: non ha senso rifiutare la paura della morte. Perché siamo mortali. È la nostra condizione. Una felicità inevitabilmente venata di malinconia, sembra potersi alla fine ricavare da queste pagine, ed è quello cui realisticamente possiamo aspirare.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Vite disincantate e appassionate

Tracy Chevalier, La ricamatrice di Winchester, Neri Pozza 2020 (pp. 287, euro 18)

“Le ricamatrici di Winchester sono state così gentili da mostrarmi i loro modo di lavorare, spiegandomi i punti che adoperano”, “I campanari della Cattedrale di Winchester mi hanno consentito di assistere alle loro sonate”: potrebbe essere la protagonista a esprimere questi ringraziamenti e invece è l’autrice, nella nota che conclude il romanzo. Per scriverlo, Chevalier ha dovuto impratichirsi in campi a lei prima estranei, gli stessi nei quali si avventura Violet, la protagonista di una storia leggendo la quale si ha spesso l’impressione di aggirarsi nel mondo di Jane Austen. Impressione che la stessa Violet prova, a un certo punto, e che ha comunque presentito fin dal momento in cui, visitando la Cattedrale di Winchester si è imbattuta nella tomba della Austen e non ha potuto non notare che “la nuda lapide sul pavimento non citava neppure la sua attività di scrittrice”. Una comune sorte sembra avvicinare donne tra loro distanti come la grande romanziera e la dattilografa ormai trentottenne, come tale destinata a ingrossare le file delle “donne in eccedenza”, rimaste senza possibilità di accasarsi in un’Inghilterra da poco più di un decennio uscita dalla Grande guerra dalla quale molti uomini – fra cui il fratello e il promesso sposo della protagonista – non hanno fatto ritorno. È tutta qui la storia di Violet: nella sua volontà di lasciare un segno della propria esistenza, una determinazione pacata che non ha nulla di eroico se non nell’accettare la vita toccata in sorte e nel vivere orgogliosamente la propria solitudine. Con consapevolezza e realismo, ma senza ombra di rancore, senza l’impressione di aver subito ingiustamente torti irrimediabili, restando aperti al mondo quindi, e agli altri. Sapendo perciò cogliere un’identica disposizione nel campanaro che coltiva un proposito analogo: imparare a far bene qualche cosa che abbia senso e non soccomba alla futilità dei gesti e alla labilità delle intenzioni. Come Violet nutre “il desiderio di ricamare il meglio possibile, pur sapendo che forse nessuno se ne accorgerà”, così Arthur è appagato dalla coscienza di suonare meglio che può, “anche se pochi sono in grado di distinguere una buona suonata da una mediocre”. Perché se il suono delle campane non dura nel tempo, dura nella memoria.
E così, questi due personaggi, sommessi e per nulla eccezionali, restano nella memoria a lettura finita, emblemi di un saper vivere disincantato ma affatto privo di passione.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.