La pazienza di vivere. Storia di Andro

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Andrea Spada (Andro), di Schilpario in Val di Scalve, racconta una storia della montagna, una storia di boschi, carbonaie e miniere. E insieme la storia di un amore coniugale e poi di una vecchiaia che, segnata dalla perdita, impone la necessità di un bilancio esistenziale e offre riflessioni che vanno oltre la vicenda personale.
Dopo un’infanzia di fame, conosce la miniera, a dodici anni; è poi carbonaio e boscaiolo con la passione del bosco e in seguito di nuovo minatore, con la passione della miniera; infine operaio e capocantiere. Le risorse cui Andro ha fatto appello in tutta la sua vita non sono mai venute meno: la passione,  per il lavoro imparato da altri che lo facevano prima di te ma che poi sei tu a poter decidere come fare, e la pazienza: “staremo a vedere”, è l’intercalare che cadenza il racconto di Andro.
La passione appartiene certamente a un’altra vita, ormai passata: “quel che è perso è perso”. Ma la pazienza no: è ancora la pazienza a guidare il cammino dell’ottantaquattrenne Andro. La pazienza di vivere.

I brani  che seguono sono tratti  dal resoconto delle mie conversazioni con Andro, e dai suoi diari.

Sì, certo: nei boschi ci vado ancora, delle volte… Ma a fare cosa?
Andro, boscaiolo e carbonaio prima che minatore, lascia cadere questa frase nel salutarci. Gli avevo chiesto come passava la giornata, adesso che era solo.
Le sue parole mi restano in mente: non è solo pena per una solitudine che sembra sconfinare nel disorientamento. In quell’immagine di lui che non trova più – nei boschi che ci sono intorno al paese, appena fuori dalla sua porta – quello che lo chiamava prima, quando a casa c’era Francesca, sento il nocciolo di una storia. La storia di un uomo che poteva aver pensato che le fatiche e i dolori appartenevano a epoche precedenti della sua esistenza, che erano finiti, e che invece si ritrova, a quasi ottant’anni, a dover ricominciare. A fare i conti con la vita. Con il suo tempo, i suoi giorni.
Quasi ottant’anni: non lo si può credere vedendolo, ascoltandolo parlare, rispondendo alle sue domande. Perché Andro ti chiede, si ricorda di cose che gli hai detto l’ultima volta che l’hai incontrato, magari un anno prima. E ascolta. Ascolta volentieri: cerca in quel che dici cose che sa anche lui, che ha sperimentato o in qualche modo lo riguardano, e con i suoi cenni di assenso, con i suoi laconici ma convinti certo, certo, ti invoglia a dirgli altro di te. E ad ascoltarlo a tua volta, poi. A guardarlo mentre racconta, sommesso, lento, e sottolinea i passaggi più significativi con un’espressione come di sorpresa, e un brillio degli occhi.
Quasi ottant’anni non li dimostra proprio l’uomo che mi aspetta lì sul ponte in mezzo al paese. Anche altre volte che sono venuto a Schilpario, e l’ho avvertito dell’ora in cui sarei arrivato, l’ho trovato lì a guardare il fiume, sempre rivolto verso valle.
Andro è uno di quelli che l’acqua la guarda andarsene.

L’ho saputo dopo che era morta, nel gennaio del 2007.
(…)
È stato la prima volta che l’ho rivisto che mi ha detto quella cosa: che nei boschi ci andava, ma non sapeva più a far cosa. Ma solo in seguito ho capito che una storia così io la conoscevo già, anche se il protagonista era più giovane, si chiamava Guglielmo, ma anche lui faceva il boscaiolo, e anche se non era carbonaio sapeva come funzionava un puiàt, perché ne vedeva spesso, fumanti, sulle stesse montagne dove lui e i suoi compagni stavano a fare il taglio del bosco. Non tanto lontano da dove altri lavoravano in miniera.
L’avevo letto molti anni prima il libro di Carlo Cassola, e mi era rimasto in mente quel che ci avevo trovato: che la malinconia, quella profonda, quella che ti fa sentire diverso dagli altri, e che ti fa credere che la vita è quella lì – non quella di prima, quando stavi bene – non è il privilegio, o il vizio, di chi non lavora con le mani.
È passato quasi un paio d’anni, e un giorno Andro, mentre mangiavamo polenta col salmì di capriolo, l’ultimo capriolo ucciso da lui – “basta con la caccia, ormai sono troppo vecchio” – mi ha spiegato come stava, cosa gli era successo: “la salute va meglio, e appetito ce l’ho, eccome, anche se dopo che mi hanno messo i baipàs e tutto il resto che ho passato dicono che dovrei mangiare il pesce. Pesce, pesce: sì va be’, una trota di qui magari, ogni tanto, ma a me piace il formaggio, e la pastasciutta. Però non è mica lì la faccenda. Non è la salute. È che adesso se non la apro io la porta la mattina, e la chiudo la sera, non la apre né chiude nessuno. Questo è il fatto. Me l’avevan detto che era brutto, ma non credevo che fosse così”.
Ho la casa fuori del paese, racconta al Guglielmo del Taglio del bosco un vecchio carbonaio, anche lui vedovo da poco: e, se un giorno mi prende male, nessuno se ne accorgerà (…). E poi sono pieno di dolori, e non ho chi mi faccia il massaggio (…). Non c’è nessuno che mi aspetta (…). Questa è tutta la differenza fra la mia vita di prima e quella di ora.
Anche nella vita di Andro si sono creati un prima e un dopo, e lui vive nel dopo. Un dopo che l’ha a lungo confinato in uno stato nel quale giorni e stagioni sembravano scorrere uguali, con una lentezza che sembrava abolire il tempo. Un vuoto che non è però rimasto immobile e identico a se stesso. Qualcosa è andato cambiando anche in quel periodo. La voglia di vivere non si è estinta.

“Sì. Qualcosa mi era già capitato di scrivere, la prima volta che mi hanno ricoverato. Poteva essere nel ’70, lavoravo ancora: ero capocava a Zogno. Avevo avuto uno scompenso cardiaco. Mi hanno ricoverato a Seriate. Ho scritto quello che si faceva nella giornata, per 10 o 15 giorni. Chissà dove sono andate a finire quelle cose lì…
Dopo, quando sono uscito dall’ospedale basta. Non ho più scritto. Cioè, solo robe di lavoro: essendo capocava dovevo scrivere delle relazioni. Non scrivevo tanto bene comunque scrivevo.
Poi sono andato in pensione e non ho più scritto, fin dopo la morte di mia moglie e tutte quelle malattie chemi sono capitate: mi sembrava di sollevarmi un po’ dal dolore se scrivevo. Non so perché. Magari piangevo anche intanto che scrivevo, ma mi faceva bene. Non le ha lette mai nessuno queste cose”.
Si tratta di un diario, che segue giorno per giorno gli stati d’animo ancor prima che gli avvenimenti. Anche questi annotati nel dettaglio, ma sempre in riferimento stretto con l’effetto che essi hanno sulla malinconia che rende le giornate uguali fra loro, immerse come sono in un tempo che sembra bloccato.
È la cronaca di una sofferenza che per mesi riempie la vita, raccontata da chi la sta vivendo.
Tentarne una sintesi significherebbe ridurla al profilo scarno e insapore di una vicenda in sé non rara né tantomeno eccezionale, rendere neutri i tratti che ne fanno invece una storia. Un nuovo capitolo della storia di Andro.Il più recente, per molti versi non concluso. Conviene allora seguirne l’andamento affidandosi alle parole di Andro stesso, al suo racconto. Monotono, non di rado ripetitivo, proprio perché fedele allo stallo doloroso nel quale la vita sembra essersi incagliata.
Anche nella scrittura si avverte infatti la perdita di naturalità con la quale ordinariamente si vive la successione dei momenti. Non si susseguono, qui: si giustappongono. Come cose.
C’è un solo tempo di vita: un presente indistinguibile da un passato che non passa.
Alcune delle situazioni di cui Andro riferisce, anche le espressioni che usa, mi richiamano alla mente cose lette in libri che riferiscono di esperienze nelle quali non si è cercato di spiegare il dolore, la depressione, con il definirne caratteri ed eziologia, ma ci si è posti il compito di comprenderli, mettendosi dalla parte di chi soffre. In queste pagine non si trovano però soltanto squarci di descrizione del proprio stato d’animo simili a quelli che a volte i testi dei colloqui clinici riportano. È un racconto conseguente, stringente anche se sommesso, quello che giorno per giorno Andro scrive, tristemente meravigliato di quello che gli accade di vivere. Mai risentito. Allarmato spesso, mai sdegnato per quel che gli tocca.
Andro scrive, senza darsi pensiero delle ragioni e degli scopi per cui lo fa, motivato solo dal sollievo che la scrittura gli dà, a partire dal febbraio del 2008, quando tutto è già avvenuto.

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Dal Corriere della Sera-Brescia del 9 gennaio 2014.
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