La conversione di un uomo di scienza nell’Islanda disperata di fine ’700

Bergsveinn Birgisson, La fonte della vita, Iperborea 2021 (pp. 317, euro 18)

I luoghi, e le atmosfere, li conosciamo già: si tratta delle lande desolate che ci ha fatta conoscere Jón Kalman Stefànsson nella sua trilogia (ne parliamo qui), di quel “paese inospitale” “agli estremi confini del mondo”, di quella “grande isola solitaria” che è l’Islanda. I tempi in cui si svolge la storia che ci racconta Birgisson sono diversi però: non la fine dell’Ottocento, ma quella del secolo precedente, e la situazione è ancor più disperata. Eruzioni vulcaniche in continuazione che sciolgono nevi e spaccano ghiacciai, vomitando ovunque piogge di cenere che bruciano le piante, uccidono gli animali, affamano gli umani. Già la lettura di Stefànsson aveva evocato il Leopardi del Dialogo della Natura con un Islandese; qui il riferimento è esplicito: “La natura afferma che non le importerebbe di annientare l’intero genere umano, nemmeno se ne accorgerebbe (…). E con ciò pare che si principi a cancellare dai cieli il buon Padre che finora si era interessato ai nostri travagli”. Un’ironia lieve, e amara, percorre la narrazione e non è tanto la Natura il suo bersaglio, ma gli uomini. Uomini che osano infierire su una terra come quella in un periodo come quello: i Danesi. Padroni dell’isola, che dalla Reale camera delle Finanze di Copenhagen, il capo coperto da parrucche incipriate e pieni di pidocchi poggiate sui capelli spalmati di sego, non esitano a immaginare il rimedio finale per quegli accidiosi e superstiziosi islandesi: il trasferimento forzato di quanti fra loro si dimostrino abili al lavoro, idonei a passare dalla fame che soffrono allo sfruttamento della fabbriche che sul continente la rivoluzione industriale sta diffondendo. Corrotti e ipocriti, i politici della capitale si propongono di “salvare” circa ventimila persone, ma prima si premurano di organizzare una spedizione al fine di disporre di un rapporto dettagliato “sulle condizioni di vita delle comunità locali”, corredato di informazioni su quanto di “curioso” o “antico” sia rintracciabile in quella terra di streghe e barbari e di aggiornamenti delle carte geografiche spesso approssimative di cui all’epoca si dispone.

È così che Magnus Árelìus, illuminato uomo di scienza, campione della fede nella razionalità, inizia il suo viaggio, accompagnato da Jón Grìmsson, conoscitore dei luoghi, assistente affidabile nella perlustrazione che rivelerà non solo la presenza di vaiolo e scorbuto fra gli abitanti, e la fame che ha costretto molti di loro a mangiare i loro cavalli prima e le proprie scarpe poi, ma anche il peso di tasse che arrivano ad applicarsi alla proprietà di vacche morte di stenti e pecore costrette in extremis a cibarsi della propria lana. I rapporti che puntualmente Árelìus invia in patria costellano il racconto, che il “narratore” si dice costretto a colmare nelle sue lacune “al solo scopo di evitare che la storia diventi una deformità senza capo né coda”. Del resto, i confini fra verità e fantasia, avverte il disincantato narratore, sono labili e variano da individuo a individuo, sicché “il magister philosophiae Magnus Árelìus era poco incline a prestare attenzione alle storie degli spettri degli annegati”, che sono invece “una realtà nuda e cruda per gli abitanti della zona” i quali, per parte loro, guardano con meravigliata condiscendenza alla convinzione del dotto forestiero che le ossa rivenute su una spiaggia siano appartenute ai gigantes, creature antiche di cui i libri parlano, e non a un semplice piccolo di balena arenatosi e in seguito macellato dagli affamati indigeni. È questo il terreno su cui si giocherà la partita fra l’uomo di scienza e “questo popolo cosiddetto ignorante”. Non un confronto limitato alle conoscenze e alle credenze, tuttavia, ma una sfida cui farà seguito – passando attraverso una relazione d’amore – una sorta di conversione, umana, esistenziale, a una “potente, antica fede nella vita”: “I libri non erano riusciti a farlo diventare un filosofo. Era stata l’esperienza della vita, a lui estranea, della povera gente”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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