Il quieto disincanto di una vita vissuta

Teresa Cremisi, La Triomphante, Adelphi 2016, pp. 186, euro 16

“I genitori la definiscono una che sa cavarsela da sola”: tale è da adolescente e tale resterà per il resto dei suoi giorni. È la vita di una donna che segue il proprio demone come solo certe donne – se ne hanno la possibilità – sanno fare, quella raccontata in questo romanzo autobiografico.

La vocazione all’indipendenza e il desiderio di occuparsi solo di ciò che interessa sono già evidenti nella bambina che si appassiona di navi e battaglie navali e dell’Iliade legge e rilegge il secondo capitolo, quello in cui si passano in rassegna navi, appunto, e condottieri (altra precoce passione della protagonista, che dal culto di Napoleone passerà a quello di Lawrence d’Arabia). Le navi che predilige sono quelle dell’epoca gloriosa dei velieri, come La Triomphante del titolo, una corvetta ottocentesca della quale – ormai giunta all’ultima stagione della vita dopo un’esistenza segnata da una brillante carriera nel mondo dell’editoria – acquisterà da un piccolo antiquario alcuni disegni, opera d’un artista dimenticato.
Quali sono state le condizioni che hanno favorito una vita che si può dire riuscita? Dei genitori dolci e incoraggianti, certamente: l’estrosità artistica e la spensieratezza della madre così come la delicatezza rispettosa del padre accompagnano l’infanzia e l’adolescenza di Teresa, ma altrettanto deteminante è una formazione che travalica ogni confine culturale e linguistico. Nata ad Alessandria d’Egitto, scrive in francese e in arabo ma parla anche in italiano, inglese e greco. Fin dalle prime pagine viene da pensare al Canetti della Lingua salvata, che difatti compare, ad un certo punto. Consigliata da un amico, lo leggerà con entusiasmo, confrontando alla sua la propria esperienza: “tutte quelle lingue nella sua infanzia (ancora peggio di me), per poi arrivare alla scelta esclusiva di una sola fra queste, la più ostica e l’ultima in ordine di acquisizione”. Scelta che anche la protagonista compie, privilegiando tuttavia non il tedesco ma il francese: la Francia è, fra i diversi paesi in cui ha vissuto, quello in cui si è sentita a casa. Anche se, per imperscrutabili quanto banali motivi burocratici, si vedrà respingere la domanda di cittadinanza.

Oltre che la famiglia e l’incontro con Giacomo, il pittore col quale si sposa – senza per altro che questo implichi una convivenza continuativa – sono alcuni libri a guidare la protagonista “nei momenti in cui la vita premeva sull’acceleratore e imboccava una svolta”: “a volte mi è addirittura sembrato di sentire voci amiche levarsi dalle pagine di Stendhal, Conrad o Proust, e ho fatto le mie scelte tenendo conto di quello che mi dicevano. A loro devo molto, mi hanno aiutato a decidere, spesso a partire”. “La cultura letteraria non c’entra (…). Non è un sapere trasmissibile. È altro: un legame quasi familiare.”
Una pagina dopo l’altra, questo libro trasmette il quieto disincanto dell’autrice. “Non ho deciso di scrivere per dar sfogo alla nostalgia”, avvertiva all’inizio, e la conclusione è coerente: “ho vissuto come meglio ho potuto; non mi sono limitata a sopravvivere: ho avuto fortuna”, “ho sempre saputo che niente di ciò che facevo era destinato a restare”.
Giacomo vive a Milano; lei, per sei mesi l’anno, ad Atrani, accanto ad Amalfi. I giorni si succedono uguali, sereni: “resto seduta ad aspettare il sonno. Respiro, non leggo, guardo, guardo. Neppure una virgola della Storia sarà stata scritta da me; la mia vita non avrà cambiato né aggiunto niente al destino del mondo. Le tracce che ho lasciato sono irrisorie. (…) Ma questo mondo l’ho guardato molto.”
“Mezzanotte e mezza. Com’è passata l’ora. / Mezzanotte e mezza. Come sono passati gli anni”: sono di Costantinos Kavafis, il poeta di Alessandria d’Egitto, le parole che chiudono il racconto.

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