Giganti incurabili

Luigi Guarnieri, Forsennatamente. Mr Foscolo, La nave di Teseo 2018 (pp. 205, euro 17)

Gabriele Dadati, L’ultima notte di Canova, Baldini+Castoldi 2018 (pp. 343, euro 18)

Simona Baldelli, L’ultimo spartito di Rossini, Piemme 2018 (pp. 381, euro 18,50)

Che fosse antipatico di suo, pare accertato, e il giudizio era assodato anche prima che Gadda facesse del “vispo Nicoletto” il bersaglio del suo sarcasmo in Il Guerriero, l’Amazzone, lo Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (Adelphi 2015), attribuendo al poeta “una prosopopea insopportabile e una cialtroneria da intrigante mandrillo”.

Non pare discostarsi da questo atteggiamento Luigi Guarnieri, che del trentottenne Niccolò Foscolo, detto Ugo, racconta gli anni dell’esilio a Londra: “attore istrionico e grande oratore”, “incanta e stupisce con la sua forsennata vivacità”; “agghindato alla moda del periodo come un dandy”, “ai ricevimenti e ai balli è un figura che s’impone: circondato dall’aureola della celebrità letteraria, scandaloso come lo saranno solo le rockstar negli anni Settanta del Ventesimo secolo, autore di un patetico romanzo di successo su un amore infelice [Le ultime lettere di Jacopo Ortis], è carismatico nel suo soprabito di panno azzurro coi bottoni dorati, il cappello di pelo di castoro…”.

Ma è, e sempre più si rivelerà, solo apparenza: l’uomo è malandato fisicamente, spendaccione e assediato dai debiti (fino a conoscere la prigione per insolvenza), impacciato dal suo poco e cattivo inglese, e dunque non può stupire che il suo ingegno sia “arrugginito dalle infermità e dai guai”. Nonostante la sua sgradevolezza è comunque per la sua sorte che il grand’uomo sollecita una solidale compassione nel lettore, dunque? No, al contrario: più la storia delle sue disgrazie e dei suoi mali procede, più si ha la sensazione che il racconto sottintenda un implicito ben gli sta. E non attenuano certo il giudizio i frequenti flash back che completano la biografia risalendo agli anni precedenti: Foscolo è da sempre sopra le righe, pieno di se stesso, autore di innumerevoli quanto “esaltate” lettere d’amore, profittatore e ambiguo nei rapporti sentimentali come in quelli con la figlia naturale e con i familiari lontani e sempre vanamente in attesa di un suo aiuto.

Com’è possibile che un uomo simile scriva quelli che Guarnieri stesso definisce “assoluti capolavori”, come Alla sera e A Zacinto? La domanda non si pone, la questione del rapporto fra l’uomo e la sua opera non pare proprio tra quelle che interessino Luigi Guarnieri: quello che si potrebbe ritenere un nodo ineludibile per chi scrive della vita di un artista pare ignorato. La biografia conferma lo stereotipo, e questo pare bastare. All’autore, quantomeno.

Diverso il risultato cui giunge un altro romanzo pure dedicato alla fine di un grande creatore. L’Antonio Canova che emerge dalle pagine di Dadati non è quello che avevamo già in mente. È un uomo che, giunto alle sue ultime ore, risponde al desiderio estremo di evocare il proprio passato e giudicare il proprio operato, senza paura del dolore che gliene verrà. I flash back, qui, sono conseguenza di questa volontà, e dunque risultano narrativamente necessari: ne escono scene vive dell’età napoleonica, personaggi non schiacciati sull’immagine codificata. A cominciare da Napoleone, protagonista della storia – insieme alla sua seconda consorte, Maria Luisa – al pari di Canova. L’uno e l’altro, l’imperatore e l’artista, accomunati dal destino di figli orfani del padre e di uomini che non avranno figli: “alberi senza radici, alberi senza fronde. In questo, dunque, da considerare fratelli”.

Uno sguardo disincantato e risolto sulla vita e sugli uomini attraversa l’intera narrazione, giungendo alla conclusione che “occorre imparare questo: ad aprire le mani, e lasciar andare i propri morti. Non bisogna trattenerli, dopo che hanno smesso di far parte di questo mondo, perché se no si vive in perenne tristezza.”

Romanzi biografici come questo sembrano smentire la convinzione di Borges secondo la quale “che un individuo voglia risvegliare in un altro individuo ricordi che non appartennero che ad un terzo, è un paradosso evidente.” Per cui, “realizzare in tutta tranquillità questo paradosso, (sarebbe) l’innocente volontà di ogni biografia.”

Lo stesso si potrebbe dire di un terzo romanzo nel quale è un musicista a vivere l’ultima stagione della propria vita, Gioacchino Rossini, evocato sulla base di una documentazione rigorosa e felicemente tradotta in racconto, secondo un metodo che l’autrice stessa richiama nella nota finale: “scrivere un romanzo, benché storico, non è solo inanellare aneddoti. Occorre trovare una crepa in cui infilarsi e, pur nel rispetto del personaggio, introdurre la propria voce”. La voce del narratore che cerca di stabilire un nesso credibile fra la vicenda umana e la produzione artistica dell’uomo: detto in altre parole, da dove viene la vocazione a divertire di Rossini, e da dove la sua perenne fragilità, la sua paura di veder crollare da un momento all’altro la sua straordinaria popolarità, le sue cadute frequenti nella depressione, in certi periodi non attenuata neanche dal gusto smodato della tavola? È già alla sua prima esibizione al fianco della mamma, cantante per necessità, che il settenne Gioacchino capisce che il pubblico vuole vedere gente allegra sul palcoscenico: lui “li avrebbe accontentati. Mai avrebbero saputo della carestia in casa, la tristezza della tavola vuota, del padre in galera e le mani della madre bucate dall’ago. (…) Avrebbe sorriso, sempre. A costo di fare la scimmia ammaestrata”. Ma lui è ben altro. Il Mozart e il Beethoven che escono dai quadri appesi alle pareti della sua camera di malato terminale dialogano con Rossini, il musicista che richiesto di dire chi fosse il più grande musicista di tutti i tempi rispose senza esitare: Beethoven, e alla sorpresa di chi gli aveva posto la domanda, al corrente come tutti della sua predilezione per Mozart aveva risposto, serafico: Mozart non è un musicista, Mozart è la musica.

Una parentesi fra tutte le altre relazioni

Franco La Cecla, Essere amici, Einaudi 2019 (pp. 124, euro 12)

Che cos’è l’amicizia, innanzitutto: la sua indefinibilità, la sua “inafferrabilità” e insieme gli aspetti che possiamo ricavare dall’esperienza che ne facciamo percorrono le pagine del libro. Sin dall’inizio: “un’attrazione, un legame più o meno forte, che è come una parentesi fra tutte le altre relazioni formali o formalizzate, la famiglia, il mondo del lavoro, il mondo della politica. È un fuori salutare, un potersi chiamare fuori ogni tanto, una valvola di sfogo dagli impegni, un appoggio non richiesto ma possibile (…) apparentemente un fatto “meno importante” (e qui sta la poca perspicacia delle nostre società), un fenomeno a margine delle cose che contano. In realtà dietro a questa svalutazione, che è l’opposto di quanto il mondo antico sapeva, c’è una strategia interessante”, implicita, inconsapevole ma decisiva: “resistere alla famelica intrusività della società contemporanea.” La colonizzazione degli spazi informali che pratica ad esempio Facebook: il desiderio di amicizia non è l’amicizia, lo diceva già Aristotele e quella che ci offre il social è una “solitudine affollata”, frutto di “puro latrocinio”. Facebook “ci espropria del lavoro vitale che è quello di intrattenere rapporti, la costruzione quotidiana della nostra società intima e allargata.” Il che risulta tanto più grave se consideriamo che l’amicizia è “il campo costituente” delle moderne democrazie, “proprio perché precede ed è la condizione sine qua non del legame libero tra i cittadini”. Libero, come l’amicizia appunto, che non è tale se non è revocabile, in ogni momento, per le più diverse ragioni. Non garanzia ma reciprocità: le due caratteristiche essenziali di un legame, soprattutto nelle società occidentali di oggi, più forte della parentela spesso: “La relazione tra amici è più intima di quella che c’è tra fratelli”, secondo un detto cinese: “perciò gli amici si chiamano tra loro fratelli e i più intimi tra i fratelli sono amici.”

Osservazioni calzanti, che fanno riflettere, ma anche racconto di un sentimento che le parole fanno fatica a circoscrivere. E allora occorrono le metafore: “L’amicizia è l’esperienza di uno stare al balcone del presente non sapendo, mentre la si vive, che quello è il presente. C’è in essa una costituzione del tempo come riflesso nel presente di un tempo comune”, “un ambito dentro il quale il mondo può essere commentato”, magari cazzeggiando, ricorrendo a “quel parlare che è un gioco in sé”, il segno di una complicità, l’esito felice di una scommessa “rispetto all’idea che in fin dei conti siamo soli al mondo”, la conferma della possibilità di una relazione capace persino di travalicare la morte: “Cosa importa che Čechov sia morto? Per l’effetto che egli ha su di me conta molto poco. E questo vale per l’amicizia in generale. Essa non viene cancellata dalla scomparsa dell’amico o dell’amica, ma rimane fluttuante come garanzia di un mondo condiviso.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il proustismo che abita in noi

Carlo Carabba, Come un giovane uomo, Marsilio 2018 (pp. 174, euro 17)

Sono tanti i romanzi che in esergo richiamano la Recherche, pochi quelli che ne ricreano con esiti il più delle volte suggestivi la relazione con il presente e il passato, e addirittura il periodare denso di similitudini: “Nel corso degli anni, ormai cresciuto, avrei tentato più volte, passeggiando o correndo, di risalire a quel tempo smarrito, sperando che il contratto con lo stesso suolo che avevo visto coperto di bianco – come nelle fiabe la ripetizione di un gesto familiare rivela alla principessa smemorata che è tornata a compierlo le sue nobili origini e che non è quella che sta vivendo l’esistenza a cui è destinata – sapesse ritrovare la vibrazione originaria che aveva prodotto l’eco di ricordi che da tanti anni risuonava nella mia mente, restituendomi il centro perduto della reminiscenza e dell’oblio di cui ignoravo tanto e da cui tanto di quello che ero e sono dipende: la mia infanzia”.

Ma non sono solo incisi come questo a restituire un’atmosfera proustiana: è lo sguardo che l’autore-protagonista rivolge al mondo a far procedere la narrazione sui piani paralleli di ciò che avviene e di quello che via via chi scrive ha provato, pensato, immaginato.

La relazione con il tempo, e dunque con la morte, attraversa il racconto: non una riproposizione – che sarebbe necessariamente velleitaria – di Proust, ma l’evocazione sommessa, e sorvegliata, del proustismo che abita ciascuno di noi.

Un gioco vertiginoso sulla scrittura, e la vita

Enrique Vila-Matas, Un problema per Mac, Feltrinelli 2008 (pp. 282, euro 19)

Un paradosso, a detta dello stesso Vila-Matas: un esordiente – anche se attempato imprenditore immobiliare fallito – che si propone di scrivere un romanzo postumo. Ma non solo: postumo e incompiuto. Non interrotto – dalla morte, come sarebbe giustificato pensare –, incompiuto, che è cosa diversa. Un libro che nasce all’insegna della falsificazione dunque, come del resto tutta la letteratura: “un modo di trasformare l’impossibilità di accedere a qualcosa di perduto in una possibilità o, quantomeno, di ricostruirlo, pur sapendo che non c’è più e che a nostra disposizione abbiamo solo la falsificazione”. Parole gravi, non fosse che – come tutte quelle che riempiono le pagine di questo romanzo – sembrano pronunciate per scherzo, per semplice amore del paradosso, appunto. Le parole di un aspirante scrittore che in cerca di un soggetto decide di riscrivere, migliorandolo, il romanzo di uno scrittore riconosciuto, suo vicino di casa, ma intanto, per farsi le ossa, si accontenta di tenere un diario. Il diario di questo suo cammino verso il momento in cui potrà considerarsi un vero scrittore. Anche se “puoi trascorrere anni a considerarti uno scrittore, tanto sicuramente nessuno si prederà il disturbo di venirti a cercare per dirti: ti stai illudendo, non lo sei.” Di qui si avvia la vicenda di questo ex imprenditore che non ci mette molto a rivelare di essere stato in realtà un avvocato, in una spirale di divertita falsificazione che non risparmia dunque neanche la sua identità, e che si dedica alla scrittura sapendo che “scrivere è tentare di sapere cosa scriveremmo nel caso in cui scrivessimo”, ossia che “in letteratura non si comincia perché si ha qualcosa da scrivere e a quel punto si scrive, ma il processo di scrittura propriamente detto è ciò che permette all’autore di scoprire cosa vuole dire.” Si tratta dunque, afferma programmaticamente l’autore, “di lasciarmi condurre alla scoperta del luogo in cui le parole mi vogliono portare.”

Un tracciato però c’è, ben chiaro, perché oltre alla falsificazione un’altra passione anima il protagonista: la ripetizione. È la ripetizione, del resto, a calarci nella vita, a “introdurci” nel tempo. Chi scrive non deve quindi temerla. Lo diceva anche Isak Dinesen. alias Karen Blixen: “La paura di ripetersi può sempre essere contrastata dalla gioia di sapere che si avanza in compagnia delle storie del passato.” Occorre coltivare il “piacere ripetitivo che non pregiudica nuove e inaspettate scoperte da parte di chi crea”, ed ecco allora la citazione, il rimando continuo ad altri autori che non può non richiamare Borges che in queste pagine vive anche grazie al tono di allusivo e a volte indecifrabile humour che le percorre. Fra i racconti scritti alla maniera di altri individuabili autori e che compongono il romanzo che il protagonista ha intenzione di riscrivere, ce n’è uno che dichiaratamente ripete Borges, e usa i suoi ricorrenti “stereotipi drammatici sottilmente parodiati”. Un romanzo sul romanzo, una scrittura che insegue la scrittura ma per sconfinare nella vita, perché ci sono “libri nei quali il lettore legge cosa gli sta capitando nella vita”. L’intreccio tra fatti reali e storie narrate ci accompagna in un gioco vertiginoso e sempre ironico fino alla fine, mettendoci a volte alla prova. Al punto da indurre l’autore stesso ad augurarsi “che il cielo dia pazienza al lettore” e gli permetta di seguire chi scrive fino all’epilogo della sua a lungo meditata sparizione nelle città e nelle oasi magrebine, dietro a una “lenta carovana di storie di voci anonime e di anonimi destini che sembrano confermare l’esistenza di racconti che si introducono nelle nostre vite e proseguono la loro strada confondendosi con esse.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una storia drammatica e sommessa

Mori Ōgai, L’intendente Sanshō, Marietti 1820, 2019 (pp. 91, euro 10)

Quanti fratelli e sorelle popolano le fiabe che conosciamo, in qualche modo simili a Zuschiō e Aniu?  E non mancano certo in questa storia le funzioni che Vladimir Propp enucleava nella sua Morfologia della fiaba, a partire dall’“allontanamento” che innesca il racconto della vicenda.  Non di un racconto fantastico si tratta però in questo caso, ma di una leggenda che un medico militare giapponese vissuto fra Otto e Novecento, cultore della letteratura tedesca, riscrive in un’epoca in cui il suo paese conosceva profondi rivolgimenti politici e culturali, tali da mettere in discussione il passato e la tradizione. Il compito che Mori Ōgai si assegna è allora quello di rivisitare leggende con l’acribia dello storico, non per farne uno studio critico tuttavia, bensì per rendere il suo lavoro “del tutto contemplativo” e ottenere un “effetto di straniamento” – per il quale è stato accostato a Brecht – capace di ridare un senso attuale agli antichi racconti. Lealtà, onesta, sacrificio sono le coordinate di uno stile di vita che l’autore continuava a ritenere in grado di contrastare – come fa notare nella sua introduzione Maria Teresa Orsi – “un’etica sociale troppo rigida e irrispettosa dei diritti individuali”. L’etica con la quale si trovano a doversi misurare i protagonisti,  una giovane madre che, con una figlia di quattordici, un figlio di dodici anni e una fedele servitrice, si mette in viaggio alla ricerca del marito, vittima dell’ingiustizia, ed è animata da uno spirito di fiduciosa ragionevolezza che esce confermato dall’incontro con persone semplici quanto giuste e compassionevoli, ma deve fare i conti con la doppiezza, l’arroganza, la violenza di potenti contro i quali, ad assicurare giustizia alla famiglia, interverrà la protezione di una divinità benevola, Jizō – protettrice sia dei bimbi dalla nascita travagliata o addirittura non realizzatasi e anche dei viaggiatori, ma che la nostra sensibilità potrebbe per certi versi accostare alla figura dell’angelo custode – e, infine, varrà il sacrificio della vita cui la figlia – richiamando un’altra figura, quella di Antigone – si sottopone.

Oggetto di reiterate rivisitazioni, la leggenda, proprio nella versione di Ōgai, caratterizzata dall’intento di ribadire l’irrinunciabilità dei diritti umani essenziali, ha conosciuto negli anni Cinquanta anche una trascrizione cinematografica che ha inaugurato in Italia l’interesse per il cinema giapponese.

Gioie (e ombre) dell’ikigai

Ken Mogi, Il piccolo libro dell’ikigai. La via giapponese alla felicità, Einaudi 2018 (pp. 169, euro 15)

La prima pagina elenca i “cinque pilastri dell’ikigai, la seconda parla di Jirō Ono, “grande maestro” di sushi: uno dei soliti manuali della felicità, sia pure in salsa giapponese, e che per fare esempi di chi è riuscito ad applicarne le regole parte da uno chef. Il libro, appena sfogliato, tornerebbe al suo posto sul bancone della libreria se non venisse alla mente il Sukegawa delle Ricette della signora Tokue (Einaudi 2018) link al  22 aprile 2018 e la sua saggezza lieve, ma perentoria, a suo modo: nella letteratura giapponese contemporanea sono spesso personaggi che svolgono mestieri come quello della cucina a veicolare significati e valori in cui non c’è traccia di banalità né di esotismo. Tornando a scorrere le pagine del “piccolo libro” ci si rende conto che parlando dell’ikigai offre esempi ragionati dello stile di vita giapponese, e allora il richiamo è al Noteboom di Cerchi infiniti. Viaggi in Giappone, Iperborea 2017 link al 2 luglio 2018, un libro che parlando di Giappone parla di noi.

Bene. Ma cos’è questo “ikigai”? Il “pentalogo” che apre il libro si scioglie, pagina dopo pagina, in casi ben raccontati, concreti, capaci di chiarirci che l’ikigai non è altro che la somma dei “piaceri” e dei “contenuti di senso della vita”: due cose diverse, si potrebbe obiettare. Ma proprio qui sta il punto:  se si “comincia in piccolo” (la giornata come un nuovo lavoro o una nuova relazione), se ci si prova a “dimenticarsi di sé” e a vivere in “armonia”, non solo con gli altri, ma anche con piante, animali, cose, in un orizzonte di “sostenibilità”, se si impara così a gustare la “gioia delle piccole cose”  stando “nel qui e ora”, piacere e senso della vita convergono, si lasciano vivere come un’unica esperienza, il cui sottofondo è, nella sostanza, la capacità di “accettare se stessi”. Ne viene non solo una “felicità” della quale ci si può render conto nel momento stesso che la si vive, ma anche una serenità che fa tutt’uno con la capacità di resistere a disgrazie e ingiustizie subite, di vivere bene anche se la propria vita non è quella che si sognava, perché non c’è altra vita che quella che ci si trova a vivere. E allora “prender sul serio i fenomeni transitori” (come la famosa fioritura dei ciliegi) non è l’espediente di chi accontentandosi gode, ma un atteggiamento conseguente e lucido che traduce nella pratica una filosofia.

Condotta individuale e comportamenti collettivi si intrecciano in aspetti molteplici della vita quotidiana in Giappone: la gentilezza di cui parlano i visitatori del paese del Sol levante non è che il portato dell’ikigai.

Si era partiti con uno chef. Si incontrano artigiani, monaci zen, musicisti, e fin qui tutto bene. Leggere delle virtù sapienziali dei lottatori di sumo può lasciar perplessi, ma bisogna ammettere che Mogi ci sa fare, spiega, persuade. Almeno fino a quando arriva a sostenere che l’ikigai annulla la differenza fra perdenti e vincitori, nel senso che anche chi sta sotto se la può passare bene, perché “l’ikigai è pane per gli svantaggiati”, “permea tutti i livelli gerarchici delle strutture competitive e concorrenziali”. Forse le aiuta anche a perpetuarsi… vien da pensare, tanto più quando si legge che “si può declinare l’ikigai in modo personale anche in una nazione dove la libertà è limitata”. Ma non è finita: “ironia della sorte, potremmo trovare il nostro ikigai anche sganciando la bomba atomica che decreterà la fine del mondo” (sic). Detto da un giapponese, tra l’altro…: che distanza resta fra l’ikigai e la pura esecuzione di un ordine da parte del pilota dell’Enola Gay?

Ma qui non possiamo prendercela con Ken Mogi: qui sono le filosofie dell’atarassia, è il pensiero orientale a mostrare – nonostante tutte le suggestioni e gli insegnamenti che ne possiamo derivare – a mostrare il limite drammatico di una ricerca della salvezza che non sa o non vuole fare i conti con le contraddizioni stridenti e insormontabili del mondo contemporaneo. Persino a un conoscitore profondo e partecipe come Francois Jullien è accaduto di doverlo ammettere.

Siamo tutti, in fondo, vittime di noi stessi

Lisa Luzzi, La polvere che danza in un raggio di luce. Una suggestiva interpretazione del De profundis di Oscar Wilde, Armando Editore 2019 (pp. 160, euro 14)

“La profondità dell’esperienza espressa nel De profundis è stata spesso sottovalutata dalla critica”, afferma senza mezzi termini l’autrice, per la quale il ritrovamento di quest’opera, letta al tempo del liceo, ha rappresentato un’“epifania”, una rivelazione non solo umana e letteraria, ma filosofica e religiosa.

Scritta nella forma di una lunga lettera al proprio amante, di fatto un intenso monologo con se stesso, durante l’incarcerazione per omosessualità – un reato, in Gran Bretagna, sino a tempi non lontani: si pensi al destino di Alan Turing –, la testimonianza di Wilde ha un valore che va oltre la sua vicenda, risultando emblematica di un dato comune: “Siamo tutti, in fondo, vittime di noi stessi – ci vien fatto notare –, tanto delle nostre debolezze quanto delle nostre apparenti forze, anche se non ce ne avvediamo”. Occorre avere “il cuore di Cristo e la mente di Shakespeare”, lo stesso Wilde afferma, per giungere a riconoscere – e qui è Ellmann, biografo dello scrittore inglese, a parlare – che “noi siamo naturalmente nemici di noi stessi e andiamo in cerca degli eventi che inconsciamente ci si addicono”. Secondo quella coazione a ripetere, verrebbe ad aggiungere, che la psicoanalisi ha interpretato come espressione della pulsione di morte.

Wilde si vergogna, si pente amaramente di “aver usurpato il proprio genio, e infangato il proprio nome, per aver commesso l’errore di assecondare appetiti superficiali e frivoli” – anche se altrove li fa derivare da un “profondo affetto spirituale” al pari di quello provato dai grandi Michelangelo e Shakespeare. Senonché, più che un cedimento, la vicenda ha fatto “emergere l’ombra che abitava nel suo animo che, se da un lato, amava perdersi nella bellezza dall’altra sentiva anche l’urgenza di un traumatico svelamento della concretezza del reale e della verità della materia”. Una tensione drammaticamente opposta a quella della sublimazione e alla tendenziale identificazione fra estetica ed etica; una spinta a portare al livello dell’atto la convergenza avvertita fra bellezza, amore e morte, tratto comune alla vita e alle opere di Wilde, come l’autrice analizza stabilendo paralleli convincenti – con il Ritratto di Dorian Grey, in particolare: una sorta di anticipazione del destino che attendeva lo scrittore.

Non di meno, la sua decisione è ferma, e la saprà rispettare: “Devo conservare l’Amore nel mio cuore a tutti i costi. Se vado in prigione senza amore che ne sarà della mia Anima?” E dunque, assicura l’interlocutore, “Non scrivo questa lettera per far nascere amarezza nel tuo cuore, ma per eliminarla dal mio”.

“Ho scritto tutto quello che c’era da scrivere. Ho scritto quando non conoscevo la vita, e ora che ne conosco il significato non ho più niente da scrivere”, confessa Oscar Wilde pochi mesi prima della propria morte. Convinto che “lo scopo della vita è lo sviluppo di noi stessi, la perfetta attuazione della nostra natura”, e quindi, anche, il dovere di non vergognarsi neppure degli atti che non si vorrebbe aver commesso.

Non citerà più con leggerezza gli aforismi, sempre sapidi nei loro paradossi quanto calzanti con l’attualità, chi ha letto questo libro e magari, sulla sua scorta, ha sentito il bisogno di conoscere anche il De profundis.

In un piccolo libro, la grandezza di Leonardo

Leonardo, Amore ogni cosa vince. Segreti di vita e bellezza, Interlinea 2019 (pp. 64, euro 10)

Spesso, e con qualche ragione, ci si guarda dagli anniversari e dalle celebrazioni. Conoscendo per esperienza il valore del tutto effimero di gran parte di ciò che in queste occasioni si dice e si pubblica, si preferisce lasciarne decantare quel che non è mera ripetizione, luogo comune, agiografia.

Il cinquecentenario della morte di Leonardo non fa eccezione, ma è tuttavia possibile distinguere, nel mare di saggi e di romanzi usciti in questi ultimi mesi, alcune pubblicazioni che si sbaglierebbe a trascurare per le loro dimensioni contenute. Di queste, la raccolta di pensieri curata da Gino Ruozzi, massimo studioso italiano della letteratura aforistica, “una letteratura marginale perché poco attraente e ammiccante”, ha avuto occasione di scrivere lo stesso Ruozzi, ma che in realtà “ci invita non al sogno, ma al confronto con noi stessi e la società in cui viviamo”. E a questo confronto, appunto, le pagine di Amore ogni cosa vince invitano chi, come noi, è chiamato a misurarsi con la vecchiaia secondo prospettive diverse dal passato, imposte dall’invecchiamento della popolazione e dalla tendenziale rimozione non solo della fine ma ormai anche dell’inevitabile declino della vita nella sua ultima stagione. Senonché, leggiamo in uno dei primi pensieri che il libro riporta, “A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s’accorgendo quello esser di bastevole transito”. A torto perché, a ben vedere, “molte cose passate di molti anni parranno propinque e vicine al presente”, e quel che conta è allora la qualità di quelle cose, una qualità “che ristori il danno della tua vecchiezza, overo che trastulli la tua vecchiezza”. È insomma il genere di vita che si è fatto a stabilire quello della propria morte: “Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire” e, in conclusione, “La vita bene spesa lunga è”.

Ma anche altri di questi pensieri rimandano all’oggi: il primato della “sperienzia” contro la semplice citazione, la superiorità degli “inventori” rispetto ai “recitatori” possono richiamare la sudditanza e la credulità oggi dilaganti di fronte all’invasività delle informazioni indiscriminate se non false di cui, grazie alla rete ma non solo, siamo vittima (ogni epoca ha quel che si merita: le autorità del passato, un tempo; i makers il più delle volte irrintracciabili di news e fake news, oggi). Così come all’attuale discredito da cui sono investite le competenze e alla disinvolta condotta di non pochi reggitori della cosa pubblica fan pensare le parole che Leonardo dedicava a “quelli che usano la pratica senza scienzia”, “come ’l nocchieri ch’entra in navilio senza timone o bussola”. Pensieri stimolanti, insomma, che aprono – sia pure sul filo della libera associazione –  percorsi diversi ma tutti convergenti nel mettere in luce la modernità del pensatore: dalla differenza di grado, più che da una radicale discontinuità e tantomeno da una conclamata superiorità, che intercorre fra uomini e animali (“L’uomo ha grande discorso, del quale la più parte è vano e falso. Li animali l’hanno piccolo, ma è utile e vero”) al riconoscimento, tutt’altro che scontato quando Leonardo scriveva, che “El sole non si move”. Verità scientifiche intuite con certezza, capacità anticipatrice di un pensiero che se da un lato esprime la convinzione che “Nessuna certezza delle scienzie è dove non si po’ applicare una delle scienzie matematiche”, dall’altro sostiene che “Ogni nostra cognizione principia da’ sentimenti”. Per cui lo sguardo indagatore che si rivolge al sole può tingersi di accenti ben diversi non appena si posa sulla luna: “La luna, densa e grave, densa e grave, come sta, la luna?”.

Un libro piccolo da leggere e rileggere, dunque, per avvicinarsi davvero, al di fuori di ogni logica monumentalizzante, a quest’uomo che, pienamente immerso nei suoi tempi di guerre e congiure – anche l’Ultima cena di Santa Maria della Grazie, nota il curatore, mette in scena una congiura, la congiura per eccellenza della cultura occidentale – si pone “all’inizio della modernità”, maestro di una pittura sempre innervata dalla conoscenza naturale e dalla riflessione  filosofica (il pensiero corre all’animale che compare in copertina, nella celebre Dama con l’ermellino, quando si legge che “Moderanza raffrena tutti i vizi: l’ermellino prima vol morire che ’mbrattarsi”).

Avvicinarsi all’uomo, in conclusione, senza per questo disconoscerne la grandezza, e insieme il suo essere “vario e instabile”, come gli rimproverava Vasari. “Una sostanziale incapacità caratteriale a concludere le cose – ammette Ruozzi –, distratto o attratto da troppi interessi contemporaneamente” ha senz’altro connotato Leonardo. Produttore di un’opera ricca di “lacune e frammenti” – quali sono questi stessi pensieri – interpretabili però “come mimetici dell’imperfezione e della fragilità intrinseca della nostra esistenza.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Passioni spente, biografie a pezzi

Tommy Wieringa, Una moglie giovane e bella, Iperborea 2019 (pp. 117, euro 14)

“Collezionista di prime volte” nella sua vita sentimentale, il virologo Edward, finché non incontra Ruth, di parecchi anni più giovane di lui. Al solo vederla prova “una nuova sensazione: la bruciante nostalgia di qualcuno che ancora non conosceva”. La sposa, la tradisce con una collega, hanno un bambino, che non smette di piangere, neanche la notte, e cui la moglie si dedica in modo esclusivo attribuendo al marito un’indefinita responsabilità: il piccolo, sostiene, percepisce che lui non lo desiderava. È meglio che non abiti con loro, dunque, e al virologo non resta che accamparsi, all’insaputa dei colleghi, nel suo laboratorio, fra le cavie. Senonché, la sensibilità animalista della moglie l’ha contagiato: “A volte guardava gli animali nelle loro gabbie con gi occhi di Ruth e vedeva che la prima forma di sofferenza a cui venivano sottoposti era la noia. Smettevano di prendersi cura di sé (…). Più spesso e a lungo li guardava, più si affievoliva dentro di lui la negazione della loro sofferenza”, sulla scorta delle idee non solo della moglie ma anche di Jeremy Bentham, secondo il quale la domanda da porsi se si vuole tracciare un confine tra uomini e animali «non è: “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”».

La riflessione sul dolore animale si intreccia sempre più strettamente con quella su di sé: la gallina bianca che trent’anni prima, ancora ragazzino, aveva salvato dall’allevamento intensivo è forse l’unico essere che ha davvero amato, o per il quale aveva provato “una sorta di compassione”, mentre col passare degli anni quella sensibilità è scomparsa e riesce difficile  ricordare “com’era… avere un cuore, un cuore che ti mette in condizione di lasciarti trasportare e sentirti parte della vita sulla terra…”. Ma il tempo è passato, e ormai “le singole parti della sua biografia non volevano saperne di amalgamarsi in un insieme, in un’unica vita che mostrasse significato e coerenza.”

Ecco il punto: Edward è uno di quegli uomini che, superati i quaranta, si rende conto di aver continuato “a salire e scendere la scala della (loro) vita” e faticano a cogliervi qualcosa che possa riconoscere come una biografia: come i depressi (si pensi all’io narrante di Emanuele Trevi, in questi Appunti lo scorso 26 maggio), così anche questi personaggi sembrano aggirarsi con assiduità nei romanzi che l’editoria oggi ci propone. Ne fa parte, per fare un esempio, anche lo psichiatra Kadoke di Terapie alternative per famiglie disperate di Arnon Grunberg (Bompiani 2019), afflitto da una pervasiva “stanchezza di vivere” che “bisogna scavalcare come si scavalcano le pozzanghere”, assorbito da un rapporto con la figura materna dai tratti patologici, eppure privo di passioni al punto che “talvolta va all’opera per vedere e ascoltare emozioni che non gli sono del tutto estranee, ma che non vive più in forma diretta.” Chi sono questi uomini? Hanno forse alle spalle l’esperienza dei giovani di cui spesso si parla: espropriati di futuro, più o meno apparentemente anaffettivi, incapaci di un progetto biografico?

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Ascoltare gli altri per vivere il nostro tempo

Rachel Cusk, Transiti, Einaudi 2019 (pp. 196, euro 17)

Una scrittura, una narrazione all’altezza dell’epoca? Forse in questo modo si potrebbe definire l’obiettivo – e, a seconda dei giudizi, il risultato – del lavoro di Rachel Cusk, che fin dalle prime pagine ci propone giudizi precisi sul nostro tempo, appunto. “Quest’epoca di scienza e incredulità (in cui) abbiamo smarrito il senso del nostro significato”, e la vita scorre per molti “priva di storia”, in una sostanziale solitudine e nella assillante “paura di non essere desiderati”. Al punto che, a chi si aggira nel deserto della depressione, può accadere “di commuoversi fino alle lacrime di fronte alla preoccupazione per la sua salute e il suo benessere espressa dal lessico degli slogan pubblicitari e delle confezioni alimentari”. Ma nulla è più lontano dalle intenzioni dell’autrice del costruire una teoria circa il mondo in cui viviamo: quello che dice lo riporta, non lo presenta mai come l’esito del suo pensiero, ma sempre come il frutto della sua attitudine ad ascoltare gli altri, le persone fra loro diverse che la vita quotidiana le fa incontrare. In ciò proseguendo la strada intrapresa con Resoconto (in questi Appunti lo scorso 9 dicembre), ma dando ancora più spessore a un senso di irrealtà che permea l’esperienza, “come se vivessimo in una vetrina”, dove la vita “è una messa in scena, ma nello stesso tempo è reale”. Una realtà nella quale tuttavia molti degli adulti fra i quali ci muoviamo a mala pena riescono a nascondere la loro natura di bambini mai davvero del tutto cresciuti, e perfino gli studenti di un corso di scrittura creativa danno l’impressione di non “credere a sufficienza nella realtà umana per costruirci sopra delle fantasie”. Né maggiore consistenza paiono avere i matrimoni, che sembrano funzionare “come si dice che funzionino le storie, grazie alla sospensione dell’incredulità” e si reggono secondo uno dei “resoconti” raccolti, “non tanto sulla perfezione, quanto sull’elusione di determinate realtà”, come ad esempio i sentimenti del compagno. Ma non si tratta solo di esperienze coniugali: tutta la vita è dominata da una sorta di rimozione, dalla tendenza a “sottovalutare ciò che ci ha formato di più, e a replicarlo ciecamente”.

E lo scrivere? è forse il segno di un destino diverso, più consapevole, più responsabile? Pare di no: “Tutti gli scrittori sono in cerca di attenzione (…) Il fatto è che nessuno – sostiene un collega nel corso di un incontro pubblico – si è preso cura di noi quando eravamo piccoli e adesso gliela facciamo pagare. Se uno scrittore nega, per quanto lo riguarda, una componente di vendetta infantile in ciò che fa, è un bugiardo. Scrivere è solo un modo di farsi giustizia con le proprie mani”.

Ma lei, l’autrice, in proposito come la pensa? O meglio: come la pensa la protagonista, voce narrante del romanzo (del tutto somigliante all’autrice stessa, si giurerebbe comunque)? Lo dice, con chiarezza: ritiene un bene “il fatto che ogni lettore si avvicina al tuo libro come un estraneo che devi convincere a restare”, persuasa com’è della necessità di un “fondamentale anonimato del lavoro di scrittura”. Ed è un impegno mantenuto, questo: il personaggio di cui meno sappiamo, alla fine, è proprio lei, la narratrice, anche se il suo sguardo è pagina dopo pagina divenuto il nostro. Uno sguardo distaccato abbastanza per riportare con scrupolo le storie udite, ma partecipe in misura tale da permetterle di far di quelle storie l’occasione di riflessioni, di interventi in prima persona sommessi quanto penetranti, che solo il contatto stabilito con l’estraneo del momento pare aver reso possibili.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un giallo a passo d’uomo

Louise Penny, Case di vetro. Le indagini del commissario Armand Gamache, Einaudi 2019 (pp. 552, euro 15)

Dopo cinquanta pagine non è ancora successo niente: si può reagire così alla lettura del primo dei romanzi dedicati dall’autrice canadese al commissario Gamache. Il primo pubblicato in Italia di ben quattordici. Sì, la lentezza: è come guardare un film in bianco e nero di qualche decennio fa, uno di quei romanzi che si permettono di lasciare che i personaggi si costruiscano per minime pennellate successive. Così avviene per il protagonista, e proprio il processo che a poco a poco ci rende familiare questo personaggio è al centro della narrazione. Armand Gamache “credeva fermamente alla legge, aveva lavorato tutta la vita a servizio della giustizia, ma l’unica a cui sentiva di rendere conto era la propria coscienza.” E la storia si può leggere, infatti, anche come l’assommarsi delle circostanze che portano questo integerrimo poliziotto a far sua senza esitazioni o mezze misure la massima di Gandhi – secondo la quale “Esiste un tribunale più alto di quello degli uomini, ed è quello della coscienza. Il primo tra tutti i tribunali” – e a metterla in pratica correndo sul limite di quella che potrebbe apparire assenza di scrupoli. Quella stessa che qualcuno imputò a Churchill quando lasciò che i nazisti bombardassero Coventry per impedire che potessero rendersi conto che loro, gli inglesi, avevano decifrato il loro codice segreto: non opporsi alla morte di centinaia di persone per scongiurare quella di un numero molto maggiore di innocenti. Lasciare che un carico ingente di droga passi il confine fra il Canada e gli Stati Uniti pur avendone avuto notizia non è diverso: servirà al commissario a decapitare i due potenti cartelli, americano e canadese, dei trafficanti di morte.

Senonché, questo è solo un ramo della vicenda, l’altro si svolge in un tranquillo, minuscolo villaggio fuori da Montreal, lo stesso i cui abitanti – non numerosi, cui si aggiungono qualche turista e anche  Gamache e la sua famiglia – sono sconvolti dalla comparsa di una figura misteriosa, addobbata come la Morte nell’iconografia tradizionale: un cobrador, un misterioso personaggio la cui presenza, muta e di per sé innocua, suscita in ciascuno dei residenti il rimorso per un atto che avrebbe potuto evitare e invece ha compiuto, o si è colpevolmente astenuto dal fare. Tutti colpevoli, ma qualcuno – uno in particolare – più degli altri.

Il rapporto fra la ricerca dell’identità del personaggio mascherato e, poi, di quella che viene ritenuta dal paese come la sua vittima, da un lato, e dall’altro la lenta, paziente lotta ai padroni del mercato della droga, resta in sospeso per gran parte delle oltre cinquecento pagine del romanzo, persino agli occhi di personaggi decisivi come la giudice che, a fatti avvenuti, sta conducendo un processo nel quale, inspiegabilmente, il procuratore e il commissario chiamato a testimoniare, contrariamente a quanto sarebbe naturale, sembrano schierati su fronti opposti. L’andirivieni fra la cronaca del processo e quanto avviene al villaggio è frutto di una tecnica narrativa consumata, che permette di tener ferma l’attenzione del lettore, oltre che su quanto avviene, sui risvolti inaspettati del carattere di Gamache, uomo ironico, gentile, disincantato, ma al tempo stesso determinato, capace della pazienza lungimirante di uno stratega come dell’intervento tempestivo e se necessario violento del soldato: lo si scoprirà verso la fine, quando l’autrice dimostrerà di saper accelerare il ritmo narrativo fino alla tensione di un film d’azione. A colori.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un libro serio che si legge sorridendo

Michele Serra, Le cose che bruciano, Feltrinelli 2019 (pp. 174, euro 15)

Politico del “fronte progressista”, non sa accettare che non sia accolta la sua proposta di legge – avanzata in tempi non sospetti, e dal fronte progressista, appunto – per la “reintroduzione dell’uniforme obbligatoria” nelle scuole (una proposta volta a “rimediare a quella forma subdola di banalità che è l’anticonformismo”, l’ossessione di distinguersi cercando, velleitariamente, di vestirsi in modo diverso dagli altri). E dunque se ne va. Se ne va proprio, in montagna, a fare (anzi, a imparare a fare) il contadino, sicuro della sua scelta ma non della propria condizione: “fuggiasco vittorioso” o “dimissionario soccombente”? Di certo, convinto da tempo che “La politica è commovente, e commovente è chi fa politica”. Perché la politica, oggi, oltre che disarmante è disarmata: “con le sue presuntuose divinazioni sul destino degli uomini” si è ridotta ad essere una “branca della metafisica”, superata dai fatti, affogata nelle mene di potere, svuotata di senso da notiziari che sgranano il loro “rosario quotidiano di catastrofi” dicendo del disordine del mondo e nel contempo riordinandolo “nella struttura a rullo delle news”.

E intanto, “abbiamo troppe cose tutti quanti”, ne riempiamo le nostre case, ne accumuliamo continuamente e in aggiunta ne ereditiamo: “siamo cresciuti in una religione antropomorfa, che crede nella resurrezione della carne e colleziona reliquie con entusiasmo feticista. Le penne sono dita, le scarpe piedi, i cappelli scalpi, gli occhiali lo sguardo che hanno contenuto”. E si tratta invece solo di “scorie delle vite altrui che rimiriamo impotenti (…). Il passato che ci imprigiona è solo in piccola misura il nostro. Si tratta del passato degli altri che si traveste, pur di sopravvivere, da nostra memoria.” Una memoria che coincide con un “micidiale ricatto”: “quello che, per onorare il passato, ostruisce il presente.” E allora, ecco l’idea che fin dal titolo si annuncia: “Libertà è un rogo ben congegnato”. Bruciare, disfarsi di vecchi mobili e soprammobili, di carte e soprattutto di fotografie di famiglia, “volti di morti e di vivi che l’eternità irrisoria dello scatto fa sembrare comunque morti anche quando siano sopravvissuti”.

Trovata la soluzione, dunque, perché l’abbandono della città non si tiri dietro zavorre ingombranti? No, purtroppo: come il viaggiatore socratico che, per quanto si allontani, porta sempre con sé le proprie ossessioni, così il nostro ex politico non può fingere di non aver reciso legami che lo gravano: “Mi rendo conto, con un certo fastidio  – deve ammettere –, che rischio di sentirmi legato a quel vecchio strumento di misura – l’opinione pubblica – che qui a Roccapane [il paese dove si è ritirato] vale quanto un peto di capra, ma giù nel mondo, dove tutti vivono addosso a tutti, ci rende oppressi.” Tanto più in questi ultimi anni, perché è “Incalcolabile quanto sia ingigantita, la sensazione di essere osservati, da quando hanno inventato la rete, la ragnatela a forma di mondo dove siamo impigliati a miliardi”.

Un libro serio che si legge sorridendo: potenza della scrittura di Serra, e del suo sguardo disincantato a ancora divertito sul mondo. E sul tempo, nonostante si sia costretti a constatare che “il passaggio del tempo non è uno spettacolo del quale si può essere semplici spettatori”, perché “Tornare indietro è impossibile, recriminare inutile. Bisogna inchinarsi al tempo che passa. Passiamo insieme a lui, e prima ce ne facciamo una ragione, meno doloroso sarà quando qualcun, tra una manciata d’anni, brucerà con pieno diritto le nostre vecchio cose.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il mondo di oggi, dalla propria finestra

Halldóra Thoroddsen, Doppio vetro, Iperborea 2019 (pp. 128, euro 15)

Il lavoro “è regredito all’automazione e ormai si occupa esclusivamente della propria crescita esponenziale”, “Il mercato divora con una forza finora sconosciuta, è diventato un predatore globale e nessuno riesce a contenerlo. Non è solo l’ambiente a soffrirne, siamo tutti a rischio di estinzione. Noi e tutto ciò che abbiamo di più bello, l’immaginazione e la solidarietà”: chi è l’autore di diagnosi critiche tanto radicali?

Non un sociologo o un filosofo. È una donna di settantotto anni, che da tempo vive ritirata nella sua casa, osserva il mondo ma, “In fondo è una donna da soglia di casa”. Alla quale comunque “importa di come va il mondo” e che “ha a cuore che i giovani se la cavino e possano godersela un po’”. Perché il mondo non è dei vecchi come lei, è delle “nuove generazioni”, che della “saggezza stantia di una vecchia come lei non sanno che farsene”. È così: “ogni generazione si rintana nel proprio settore, infanzia e vecchiaia sono destinate all’isolamento. Urliamo nella nostra caverna e sentiamo solo la nostra eco”.

Cionondimeno, questa donna “Non vuole morire proprio adesso che sono in corso tanti cambiamenti. Vuole poter continuare a seguirne gli sviluppi. (…) Invece di scuotere la testa come una garbata vecchietta e lasciare che al futuro ci pensino gli altri, è avida di capire.”

Di capire, ma anche di sentire, di provare sentimenti. E qui la storia richiama l’Haruf di Le nostre anime di notte*, perché il tema è quello dell’amore fra vecchi, come quello che sboccia fra la protagonista e un vicino settantacinquenne. Titubante lei, all’inizio (“non può certo esporsi a una pena d’amore alla sua età”), ma poi poco a poco persuasa – da una voce interiore – che “i desideri non si avverano in un animo pavido”: “Gli telefona e gli dice sì”. Una storia intensa, felice, la loro, proprio perché calibrata sulla loro età (“non fingono di essere diversi da quello che sono, di serbare ancora il vigore di un tempo”) e forte di una precisa consapevolezza, riassumibile nel fatto che “L’amore tra persone anziane non è un amore coniugale sano, che ambisce a riempire la terra”.

Una storia intensa, dunque, ma breve: lui muore prima che sia stato loro assegnato l’appartamento in una residenza per anziani dove volevano vivere, insieme. E lei? Dopo il dolore della perdita, “La sofferenza non la travolge più a ondate. Ormai la conosce, ci si è abituata. Ora riesce a osservarla dall’esterno, a salutarla con un cenno del capo. Certo che soffriamo, dal momento che ci troviamo in questa tragedia greca sappiamo che la fine è inevitabile.”

E allora non resta che prenderne atto, aderendo alla propria condizione, tornando ad osservarli, gli altri: “Là fuori tutti stanno cambiando il mondo. Lei resta in disparte, seduta alla finestra”. Il che non significa affatto chiudersi in se stessa, prova ne sia che quando i cittadini islandesi protestano contro il governo nel periodo della crisi economica che non ha risparmiato l’Islanda, anche lei va in piazza con mestolo e tegame a manifestare sonoramente il proprio disappunto, partecipe al punto da chiedersi se “finalmente sia diventata parte della collettività, anche se per un brevissimo momento”. Per poi tornare tuttavia dietro la sua finestra, dietro il doppio vetro da cui guarda il bambino che gioca con la sabbia, e sentire che la sua esperienza “non le arriva più di riverbero”, ma che “lei è l’esperienza”; sentire che “Si fonde con il mondo che sta fuori”, e dunque “È compiuta”.

Scrivere di vecchiaia in un Occidente sempre più vecchio testimonia dell’apertura del romanzo agli avvenimenti davvero epocali che viviamo, ma Thoroddsen fa di più. Ci racconta di un cammino umano compiuto senza infingimenti, e senza indulgenze né accanimenti verso di sé, fino alla fine.

* K. Haruf, Le nostre anime di notte, NNE 2017, in questi Appunti di lettura il 19 marzo dello stesso anno

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una versione narrativa di noi stessi

Emanuele Trevi, Sogni e favole. Un apprendistato, Ponte alle Grazie 2018 (pp. 224, euro 16)

Il senso della caducità della perdita, innanzitutto: “Quando consideriamo il passato, l’estinzione di tante cose che ci apparivano ovvie e addirittura necessarie al nostro stesso esistere non stupisce affatto. Perché le vediamo fragili…”. Ma non solo le cose. Anche “il tempo degli artisti” ancora verificabile sul finire del Novecento, quando “erano esseri umani investiti di una vocazione”, o lo stile di vita, la dimensione dell’esistenza, che “godeva di larghi margini di lentezza” perché “era fondamentalmente sconnessa – ossia: disconnessa –, in una maniera che per chi ha oggi venti o trent’anni è difficilissima da immaginare. (…) Era normalissimo assentarsi, non dare notizie di sé per giorni o per settimane. E dunque, com’è logico supporre, le persone si pensavano con maggiore intensità…”. Un vissuto diverso del tempo, nella sostanza, che in certi luoghi, come il “cineclub” frequentato a diciott’anni conservava una “qualità speciale”.

È proprio così, o dipende dalla postura psicologica? L’autore non ha problemi, in ogni caso, ad ammetterlo (e siamo così a un secondo tema decisivo): “sono sempre stato una persona poco vitale, diciamo pure depressa”. Tema non casualmente ricorrente, la depressione, nella  letteratura recente, ma in Trevi non appare questione con cui fare i conti, da risolvere, in qualche modo – come ad esempio ne L’uomo che trema di Andrea Pomella, in questi Appunti lo scorso 18 novembre –, bensì un tratto distintivo del carattere, di un modo di stare al mondo che consegue alla netta percezione che “non facciamo che trapassare”, “possiamo illuderci di essere qui per qualcos’altro (…) ma di fatto non c’è un singolo secondo in cui non trapassiamo” e “l’esistenza, dal punto di vista individuale, non possiede nessun valore – conta solo la specie”, anche se ci abita la “certezza illusoria di essere destinatari di un messaggio”: “possedere un destino è la suprema finzione”. Per tutti, anche per chi crede di trovare nello scrivere una ragione per attribuirsi una personalità irripetibile: “la condizione dell’«autore» può rivelarsi un ostacolo, un ulteriore gabbia”, e uno stato di connivenza, forse, con il “gioco” imperante di “tener buona la gente a colpi di consenso narrativo e identificazione emotiva”. Lo sapeva già Metastasio, del resto, che pure ne faceva oggetto di un sonetto grazioso, quanto sia assurdo, per lo scrittore, commuoversi di fronte ai sogni e alle favole che inventa. Assurdo ma necessario, perché “solo nel riparo delle nostre finzioni l’esistenza è tollerabile se non sempre felice e “costruire una versione narrativa di noi stessi” è l’unico modo di preservarci “dalla follia e dalla disperazione sempre in agguato”: “il vero fondo è quando non ti racconti più nulla in cui puoi credere, quando per qualche motivo finisce il carburante, la possibilità di collocarti in una storia anche minima, anche misera, e di collocare a sua volta quella storia nel mondo che altrimenti ti apparirà per quello che è…”.

Eppure. Eppure ci sono autori incontrare i quali apre spiragli nella “cortina di buone maniere in cui consiste la vita sociale”. Si può trattare di un fotografo ritrattista come Arturo Patten, di una poetessa disperata come Amelia Rosselli, o di un letterato originale quanto spigoloso come Cesare Garboli. La capacità di guardare del primo, di vedere oltre la maschera che “l’alveare sociale” ci ha assegnato e alla quale abbiamo finito per credere; la “sovrabbondanza di destino” che gravava sulla seconda; la lucidità – rispecchiata nel logorarsi delle cose, nella “senescente dignità” che si coglieva nella sua casa – con cui il terzo sapeva individuare “l’oggetto della scrittura, inseguito durante i giorni passati a raccogliere, selezionare, interpretare tracce”, ossia “la vita, e il suo segreto di Pulcinella”, “l’assoluta mancanza di significato”, “l’illusorietà di ogni singola esistenza trascorsa in questo mondo.” E con questo il cerchio sembra chiudersi: la ricerca, sulla scorta dei maestri incontrati, ha se mai reso ancor più chiara la consapevolezza che “tutti noi, vivendo tra gli altri, desiderandoli e temendoli, sviluppando infinite forme di aggressività e dipendenza, orgoglio e sottomissione, finiamo per smarrire, in maniera più o meno grave, la strada della somiglianza a noi stessi. Come cani che a forza di fiutare tracce non sono più in grado di tornare a casa.”

Perché non si esce prostrati dalla lettura di un testo che non lascia margine alla speranza, se non a quella ravvisabile nel fatto che “noi sopravviviamo” non nelle “cose che abbiamo portato a termine”, ma “in tutto quello che non siamo riusciti a fare, nel tempo che non ci è bastato, nei rimpianti, nelle imprese interrotte”?

Perché non è un lamento, né una deprecazione, quello che l’autore ci consegna. La sua non è la voce di un uomo disperato, ma di chi s’è a lungo sforzato di vedere un senso nel non senso, ossia di smetterla di cercare un senso. Di qui uno sguardo inesorabile, e tragico, certo, ma limpido, pacato: un po’ come quello di Annie Ernaux, di cui non a caso Trevi cita un incipit indimenticabile, l’incipt de Gli anni: “Tutte le immagini scompariranno”.

Anche quello, di Ernaux, un romanzo sui generis, per certi aspetti avvicinabile a questo, che pure porta in copertina la dicitura “Romanzo” ma si potrebbe, come qualcuno ha fatto, definire saggio autobiografico. Non certo un saggio concluso, necessariamente riferendo – come non è possibile fare altrimenti parlando della vita – di “un apprendistato”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La nostalgia, un sentimento necessario

Antonio Prete (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento (Nuova edizione ampliata), Cortina 2018 (pp. 203, euro 14)

Eugenio Borgna, La nostalgia ferita, Einaudi 2018 (pp. 114, euro12)

Tra gli scritti sul concetto di nostalgia raccolti dal curatore già nella prima edizione di questo libro, nel 2004, continua a meritare di essere (ri)letto soprattutto quello di Jean Starobinski, inequivocabile nel mettere in luce come il termine abbia “assunto poco a poco una connotazione spregiativa”, passando “a designare il vano rimpianto di un mondo sociale o di un tipo di vita ormai svanito, di cui è inutile deplorare la scomparsa”.

Sarebbe un rapporto di sinonimia quello che corre fra la nostalgia e il rimpianto, dunque? Nient’affatto, spiega Borgna: “nel rimpianto ci si sente dolorosamente colpevoli e responsabili delle cose perdute, e non ci sono mai le increspature talora elegiache della nostalgia che ci fa guardare alle esperienze del passato come a esperienze che continuano a vivere nel cuore e nella memoria, e che rimarginano le ferite del presente, aiutandoci a resistere all’assenza di persone e di luoghi che abbiamo amato.”

Ma prima di meritare questi distinguo essenziali, il concetto di nostalgia ha accumulato una lunga storia, a partire dall’invenzione del suo nome, fatto di ritorno e di dolore. Prete ci accompagna nel cammino che dal neologismo coniato da Johannes Hofer nel 1668 per designare quella che si considerava una malattia, anche mortale, ha portato ad acquisizioni successive che ne hanno fatto un sentimento: un percorso inverso, sotto certi aspetti a quello della melanconia, passata da presenza naturale e inevitabile nella vita degli uomini ad un’affezione senz’altro da curare, la depressione, non a caso contemplata nel DSM (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali).

Sono molti i nomi che segnano l’evoluzione del concetto di nostalgia. Uno per tutti, Kant, secondo il quale “il nostalgico desidera ritrovare non tanto lo spettacolo del luogo natio quanto le sensazioni della sua infanzia”. Un desiderio impossibile da realizzare, se non si vogliano considerare i doni miracolosi della memoria involontaria di Proust: per i più, un ritorno che non si può non desiderare ma è destinato a restare un desiderio. E più del filosofo è allora il poeta a soccorrerci: in Caproni, ad esempio, “il ritorno accade, ma accade senza che ci sia stata partenza”, la sensazione è quella “del perduto senza poter nominare la cosa perduta”; la nostalgia, “una nostalgia senza nostos”.

E insieme a Caproni, nel nuovo denso capitolo che Prete ha aggiunto nella nuova edizione, troviamo il “disio” di Dante, la “ricordanza” di Leopardi, la melanconica critica del moderno di Baudelaire, le diverse declinazioni di una sostanziale ridefinizione del rapporto fra passato e presente – attraverso la lingua poetica, appunto – oltre che dello stesso Caproni, di Ungaretti, Montale, Luzi. Perché “la poesia ha contribuito – in una misura decisiva – a trasformare la nostalgia da malattia a sentimento”.

Un sentimento per nulla regressivo. È lo psichiatra ad assicurarcelo, sulla base della propria esperienza così come della sua vasta e appassionata frequentazione letteraria: “non c’è solo la nostalgia che fa male, la nostalgia che si fa talora malattia, ma c’è (anche) la nostalgia che sollecita a vivere, e fa nascere in noi un passato che sarebbe altrimenti perduto per sempre.” Nella sua prosa ricca di immagini e straboccante di aggettivi che richiamano la complessità e l’ineffabilità dello spazio interiore, la nostalgia viene indagata “nelle sue dimensioni arcane e segrete, umbratili e luminose, fragili e strazianti” per giungere alla constatazione conclusiva: “Così noi viviamo, e ogni volta diamo l’addio a qualcosa di noi che la nostalgia misteriosamente ci consente di ritrovare”.

Un tema da non smettere di sondare, due libri (oltre quelli cui sia Prete che Borgna rimandano) da leggere e rileggere. Tanto più in tempi di rotture col passato spavaldamente invocate e palingenesi disinvoltamente annunciate.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Te non ti puoi ricordare

Paolo Teobaldi, Arenaria, edizioni e/o 2019 (pp. 160, euro 16)

“Te non ti puoi ricordare, non eri ancora nata”, “e poi vai a sapere che lingua, quali lingue, quante lingue parlerai…”: è un lungo racconto alla nipotina questo libro, un racconto fatto di divagazioni (di cui l’autore rivendica la legittimità “Melville, in Billy Budd, dice che le divagazioni in un racconto sono un po’ come dei peccati: ma, come quelli, altrettanto gustosi”); un racconto del, sul Tempo, letto nei cambiamenti, e nelle perdite. In quelle subite dalla lingua in primo luogo: è anche un grande repertorio di parole andate, questo libro. Di parole della parlata locale, lì nel Pesarese come dovunque: fuori dalla città non si trovavano solo campi o incolti, ma anche “gerbidi, cannicce, rimorte, orti, pozzi, guazzi, mazzacavalli a stufo”, così come giù sulla spiaggia, “sotto l’acqua di questa nostra bassura adriatica”, “nuotavano zanchette, raschia terra, aguglie, raguselli, branchetti di papalina e di baldigare”. Non viene neanche alla mente di cercare il significato preciso di ciascuno di questo termini: non è discorso quello che producono, ma musica, che resta nelle orecchie terminata la lettura, quando si guarda quella bambina che pedala vicino al vecchio in bicicletta, tabarro sciarpa e cappello, e una fisionomia che inevitabilmente richiama quella del nostro Franco Piavoli, un volto che ben si accorda con queste pagine. Dense non di rimpianto e recriminazione, ma se mai del rilievo puntuale, e sornione, di perdite non necessarie, che proprio non viene in mente di chiamare Progresso. Ma del resto, niente rimane identico a se stesso, né le cose né gli uomini. Neanche l’arenaria che forma l’altura che digrada verso il mare alle Rive del San Bartolo e che una volta non si lasciava “lambire e sgrottare” dalle onde come avviene oggi: “dove oggi vedi il mare lì c’era tutta terra, ma terra buona, ampi coltivati, filoni di grano, vigne maritate coi mori (…) una terra benedetta che una volta, favoleggiava mio padre (…) era propriamente, né più né meno, il Paradiso terrestre, quello della Genesi, dove Adamo ed Eva, tenendosi per mano, tra le ginestre in fiore, ciascuno col rispettivo umanissimo ballonzolio.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La lezione della misura

Gianrico Carofiglio, La versione di Fenoglio, Einaudi 2019 (pp. 170, euro 16,50)

“Il fatto è che quando discutiamo con qualcuno, se l’argomento ci sembra importante e se i toni si accendono, vorremmo sempre stravincere. Vorremmo inchiodare l’altro, vorremmo che riconoscesse che noi abbiamo ragione e lui, o lei torto. (…) è una pura questione di ego. Mentre l’ego dovrebbe essere escluso dall’orizzonte di qualunque transazione con gli altri, di qualsiasi tipo, sia professionale sia personale”. Sono constatazioni, frutto di quell’esperienza vera che è riflessione mai conclusa sulle esperienze vissute, quelle del maresciallo Pietro Fenoglio, non insegnamenti. Ormai alla vigilia della pensione, è con un giovane casualmente incontrato nella palestra in cui entrambi fanno esercizi di riabilitazione (per conseguenze dovute ai raggiunti limiti di età uno, per quelle di un incidente l’altro), che il vecchio carabiniere si intrattiene: la vita sembra colorarsi di maggiore significato se, sia pure indistintamente, si individua un erede cui trasmetterne episodi e situazioni che non si sono lasciati dimenticare. Non necessariamente il proprio figlio – come in Alle tre del mattino -, ma un giovane comunque. In ogni caso, un interlocutore del quale prendersi cura, una cura che è socraticamente incoraggiamento all’altro perché prenda cura di se stesso. E difatti il ventenne Giulio prenderà via via coscienza della propria confusione esistenziale, della pigrizia con cui si rapporta a un possibile progetto biografico. Perché sono solo apparentemente regole dell’investigazione quelle che gli illustra il maresciallo – detective della stessa pasta di Maigret, per intendersi (”Bisogna sapersi adattare all’interlocutore per riuscire a convincerlo. In qualsiasi campo credo, ma di sicuro nelle indagini. E un’altra cosa importante è offrire, o prospettare, una via d’uscita dignitosa, non umiliante.”) In realtà, ben si adatta alla vita in generale la fiducia in una ragione che non è mai soltanto esercizio di razionalità, ma sempre virtù della ragionevolezza, senso della misura, consapevolezza dei limiti propri e altrui, disincantato ed empatico sguardo sui propri simili: “tutti in qualche modo mentono. Mentono agli altri e mentono a sé stessi. Mentono sulle loro azioni e mentono sui veri motivi di quelle azioni”, e “le testimonianze vanno trattate con cautela perché sono tutte, almeno in parte, false testimonianze; anche se il soggetto è sincero, in buona fede.” Perché “la nostra percezione è come uno specchio deformante”.

Insieme a considerazioni del genere, a intervallare gli “arancini” (direbbe Camilleri) di Fenoglio, che sempre parte da sintetici racconti delle proprie indagini, sono anche riferimenti letterari, che risaltano spesso per la loro attualità – “Dumas diceva: preferisco i mascalzoni agli imbecilli, perché a volte si concedono una pausa”. Il maresciallo è infatti un uomo contraddistinto da un interesse di lunga data per la letteratura: “Non si può scrivere senza aver letto molto. Non ricordo chi ha detto che ogni vero scrittore è seduto su una catasta di libri altrui. Diciamo che la lettura è un presupposto necessario, anche se non sufficiente, per scrivere qualsiasi cosa.” Ma, del resto, il mestiere dello scrittore e quello dell’investigatore non sono poi così lontani: “Credo che la chiave sia: porsi domande su quello che si sta guardando e, più in generale, su quello che si sta percependo. Solo così smetti di dare le cose per scontate e cominci a vedere davvero ciò che ti circonda. Immagino sia una qualità richiesta anche a un bravo scrittore: registrare cose che hanno visto tutti e mostrarle come se fosse la prima volta, come se prima non le avesse mai notate nessuno.” Il che non è affatto facile, assicura lo stesso Carofiglio in una recente intervista (“Tuttolibri” del 2 marzo) richiamando una testimonianza autorevole: “«Scrittore è colui al quale scrivere riesce più difficile che a qualunque altra persona» ha detto Thomas Mann.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un trascinante caos narrativo

Manuel Vilas, In tutto c’è stata bellezza, Guanda 2018 (pp. 409, euro 19)

Perché si racconta dei propri genitori? ci si chiedeva dopo aver letto Tra loro, di Richard Ford (in questi Appunti il 30 luglio 2017). Per capire chi erano, dice Ford: “io cerco di affrontare la loro diversità ed essi mi eludono, come fanno tutti i genitori”. Perché i genitori  creano per noi “una sorta di ‘separatezza congiunta’ e un utile mistero”.  Perché, sostiene Vilas, “Tutto scompare tranne quel mistero, che è il mistero della volontà di essere, della volontà che ci sia un altro diverso da me; su quel mistero si basano la paternità e la maternità”. Parole simili, ma per Ford i genitori sono quello che loro hanno fatto, le loro scelte, la loro vita; per Vilas sono la ragione nascosta del proprio fare, o non fare, e continuano a segnare la trama della propria vita: “Tutto quanto successe a mio padre si ripercuote sulla mia vita con una precisione millimetrica. Stiamo vivendo la stessa vita in contesti diversi, però è la stessa vita.” “Il suo ‘cosa parto a fare?’ – era commesso viaggiatore, il padre – arriva a me in un ‘cosa scrivo a fare?’”. Ma non meno tenace è l’identificazione con la madre: “Tutto il mio passato sprofondò quando mia madre fece la stessa cosa di mio padre: morire. (…) Ciò che mi univa a mia madre era e continua a essere un mistero che forse riuscirò a decifrare un secondo prima della mia morte. (…) Chiamo madre il mistero generale della vita.”

E’ attraverso la lente fornita dal legame insuperabile con i genitori che si articola un’autobiografia discontinua, ricorsiva, fitta di cortocircuiti verbali che mimano il percorso solo apparentemente casuale delle associazioni libere (“Quando il cadavere di mio padre è bruciato, si è fuso il dente d’oro? (…) Si è tenuto il dente d’oro il medico legale che ha fatto l’autopsia a mio padre togliendogli il pacemaker? Ha fatto un pacchetto, dente d’oro e pacemaker? L’oro e il cuore? Mio padre ha avuto un cuore d’oro.”). “Mia madre era una narratrice caotica – ammette del resto l’autore. Anch’io lo sono. Da mia madre ho ereditato il caos narrativo”.

Studente, poi insegnante, l’alcolismo poi superato, il matrimonio, il divorzio, due figli che si rivelano ben presto due sconosciuti: finisce solo, il protagonista, e scrive, di sé, di loro, consapevole che “Il passato di qualunque uomo o donna di più di cinquant’anni si trasforma in un enigma. È impossibile risolverlo. Non resta che innamorarsi dell’enigma”. L’enigma di una famiglia che non si può annoverare fra quelle felici: “Eravamo una famiglia catastrofica, e allo stesso tempo avevamo la nostra originalità”, sintetizza l’autore, e sembra confermare l’aforisma di Tolstoj. Se il padre, uomo dinamico e volitivo per altro, era soggetto a ricorrenti “crolli della volontà”, la madre è stata “una donna-dramma”, i cui mali “erano enumerativi. Enumerava dolori, alcuni di un’originalità immensa.” Afflitta da ipocondria e malinconia, come chiunque del resto quando ha oltrepassato la metà della vita e “dedica il proprio tempo a favoleggiare sul tipo di malattia che lo strapperà al mondo. Simula e ordisce storie sulla propria morte che vanno dal cancro all’infarto, dalla morte improvvisa all’anzianità interminabile.”

La morte, la caducità, la “vanità” di tutto e tutti (anche delle idee e della politica, nella Spagna postfranchista) è l’altro filo conduttore (l’altra faccia?) del legame inestinguibile con chi ci ha messo al mondo, e giunge puntuale a svuotare di senso il presente: “Un giorno o l’altro ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo” e per constatare “l’inutilità di tutte le conversazioni umane che sono state e che saranno”, leggiamo già nella prima pagina. La “transitorietà di tutto” è uno “scandalo” insopportabile, ed è un “transito scriteriato” quello che va dal movimento vitale al rigor mortis”.

Eppure, in questo fiume che non risparmia nulla e nessuno, in cui “Le cose non resistono come facevano anticamente, quando un frigorifero e un televisore duravano trent’anni”, e “la gente non seppellisce elettrodomestici vecchi” anche se c’è chi “ha passato più tempo accanto a un televisore o a un frigorifero che accanto a un essere umano”, ebbene: anche in questo fiume rapinoso c’è stata bellezza. “In tutto c’è stata bellezza”: che cosa nasconde quest’affermazione ricorrente, inattesa, intempestiva? Lo sforzo di abbandonare un punto di vista centrato su se stessi? di venire a patti con il senso tragico del passato e della morte? di accettare la vita, sia pure paradossalmente? Lo farebbe pensare quella che si può considerare una conclusione, anche se precede di parecchie pagine la fine del romanzo. Un romanzo che sa conservare fino all’ultimo la sua carica di ironia sofferta: “Può darsi che alla fine un uomo si innamori della propria vita. È questo che mi sta succedendo. (…) quello che non potevo immaginare è questa riconciliazione con me stesso. (…) Può darsi che alla fine a essere sconfitta sia la solitudine. E può darsi che alla fine tu scopra che l’unico essere umano che non è un’assoluta rottura di palle sei tu.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una storia bizzarra che dà speranza

Abraham B. Yehoshua, Il tunnel, Einaudi 2018 (pp. 340, euro 20)

Quel che resta, dopo la lettura dell’ultimo romanzo di Yehoshua, è l’autoironia benevola del protagonista, e insieme il senso profondo, la pratica sperimentata dell’amore che da decenni lo lega alla moglie. Due facce della stessa medaglia, due coordinate senza le quali Zvi Luria, ingegnere in pensione, non potrebbe affrontare con realismo e serenità l’avanzare di un’incipiente atrofia cerebrale e la conseguente perdita di memoria, dei nomi innanzitutto. Eppure, proprio questi sintomi, riconosciuti senza mezzi termini come spie di una irrecuperabile “demenza”, sono lo stimolo a reagire: tornare a collaborare, sia pure a titolo gratuito, a progetti stradali come ha fatto tutta la vita può rappresentare la terapia occupazionale migliore. E’ la moglie a suggerirgliela, e a darle possibilità concreta un giovane ingegnere che è andato a occupare quello che era stato il suo ufficio nell’ente pubblico “Percorsi di Israele”, un nome che evoca l’altro filone che attraversa questa come tutte le storie di Yehoshua: la sorte del conflitto fra palestinesi e israeliani, qui attraversato tuttavia da sotterranee correnti di solidarietà fra le due parti che ispirano idee come quella di non spianare la collina che ostacolerebbe la costruzione di una nuova strada militare, ma di attraversarla con un tunnel in grado di consentire la conservazione delle rovine archeologiche che coronano l’altura offrendo rifugio a un nucleo familiare di clandestini arabi. La scrittura piana di Yehoshua sembra echeggiare “lo spirito positivo di calma professionale” che ha sempre connotato l’impegno di Luria e continua a guidare il lavoro di pediatra svolto dalla moglie. L’uno e l’altra personaggi emblematici di un superiore spirito di civiltà non intaccato dalla guerra e capace di indicare una via in un paese dilaniato dalla violenza eppure così piccolo che neanche un demente smemorato potrebbe perdercisi. Un paese in cui del resto tutti sono un po’ “confusi”, ma nel quale sarebbe bello tornare a pensare – come facevano da giovani il protagonista e il suo amico Ben Gurion, il fondatore di Israele – che i contadini arabi e i beduini non fossero altro che “discendenti di ebrei che non se n’erano mai andati da qui, anche se, col tempo, erano stati costretti a convertirsi a un’altra religione”. Una “storia bizzarra”, certo, ma di quelle che “almeno danno speranza”. Proprio come il progetto del tunnel, altrettanto bizzarro, e costoso per di più, e proprio per questo realizzabile – nonostante la prevedibile opposizione dei burocrati del ministero della Difesa – solo in forza di una “demenza creativa” come quella di un “ingegnere senescente”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un mutare di sentimenti, silenzioso, decisivo

Anne Cathrine Bomann, L’ora di Agathe, Iperborea 2019 (pp. 156, euro 15)

Un pacato, sommesso Ebenezer Scrooge nei panni di un vecchio psicanalista. Non siamo alla vigilia di Natale ma una data importante è ormai vicina: sei mesi, e sarà la pensione. Fa il conto alla rovescia delle ore di colloquio che deve fare: il suo lavoro gli si è rivelato sempre più come una “farsa”, noia e fastidio accompagnano le sedute, e l’età si fa sentire: “invecchiare – pensavo, sentendomi invadere dall’amarezza – significa soprattutto veder crescere la differenza tra il proprio io e il proprio corpo, finché un giorno si diventa completamente estranei a se stessi.”

Ma qualcosa accade: la sua fedele segretaria, contravvenendo agli ordini del professionista che assiste da anni, accetta una nuova paziente, anche se è chiaro che la cura richiederà più tempo di quello che resta prima della pensione. Si tratta di una signora, di Agathe appunto, con ricoveri psichiatrici alle spalle, difficilmente classificabile secondo le categorie della malattia mentale. Sennonché, l’inquietudine di Agathe non appare allo psicanalista estranea quanto le sofferenze degli altri pazienti, forse perché lui stesso sente ormai incrinata la sicurezza nella quale ha rinchiuso la propria vita: “Mi resi conto di aver coltivato per tutto quel tempo l’idea che la vita vera, la ricompensa di tutte le fatiche, sarebbe arrivata il giorno in cui fossi andato in pensione. Ma ora, guardando al futuro, non riuscivo proprio a immaginare che la vita contenesse ancora qualcosa di cui rallegrarmi. Non erano l’angoscia e la desolazione le uniche certezze?” Non arretra di fronte a questa rivelazione, il dottore, costretto ad un’ammissione che non avrebbe mai sospettato di poter fare: “Sono esattamente come loro, pensai, mentre uscivo per andare incontro al primo paziente.”

Sia pure in un modo diverso dal personaggio di Dickens, anche lui è stato un avaro, che ha scambiato la freddezza per professionalità, che non ha mai amato nessuno, come confessa al marito moribondo della sua segretaria. Si ritroverà così a piangere al funerale, a confezionare – la prima volta in vita sua – una torta per il vicino con cui fino allora non aveva scambiato che un saluto sbrigativo, e soprattutto a cedere all’attrazione che sente per Agathe: l’invito di lei ad entrare insieme in un caffè chiude il racconto di una vicenda che nessun avvenimento di rilievo ha segnato, se non – come in molti romanzi giapponesi – un mutare di sentimenti, silenzioso, decisivo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La Resistenza dalla storia alla letteratura

Angelo Bendotti, Nel segno di Fenoglio. Lo straordinario e il vero, Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea-Associazione editoriale Il filo di Arianna 2919

La distanza fra storici e narratori della Resistenza – portatori i primi di uno sguardo dall’alto, privo di complicazioni emotive, e i secondi attenti invece a restituire il vissuto di una lotta condotta giorno per giorno – aveva trovato un correttivo a inizio anni Novanta nell’opera di Claudio Pavone. Una guerra civile, in cui lo storico attingeva a testimonianze capaci di render conto della concreta esperienza di quei giorni. Ora, questo libro sembra “annunciare una terza fase nei rapporti fra storici e narratori”: questo il parere autorevole di Gabriele Pedullà, scrittore e critico letterario secondo il quale “Bendotti compie il percorso di Pavone nella direzione opposta: dalla storia alla letteratura”.

A motivare un simile percorso è la convinzione che la letteratura non sia “accessoria”, non si riduca a “un divertissement a fianco della ricerca storica, e che quindi “per studiare la storia della lotta partigiana bisogna innanzitutto partire dai grandi scrittori”: quanto rileva nella sua introduzione Elisabetta Ruffini, attuale direttrice dell’Istituto bergamasco, è subito confermato dall’autore stesso, che nella sua nota d’apertura esprime la sua “gratitudine nei confronti di Beppe Fenoglio (…) perché mai nessuno ha scritto meglio di Resistenza”. Sicché i suoi romanzi possono essere assunti come “una guida dentro la ricerca storica”, nella “consapevolezza che la storia è anche racconto della storia”. E sono appunto racconti quelli che si leggono nei dodici capitoli che si dispongono attorno ai due centrali, in cui si raccolgono le riflessioni di carattere più teorico sul rapporto fra storia e letteratura. Dodici capitoli che – mettendo in risalto momenti e situazioni, ruoli e figure – propongono altrettanti temi, “spesso scomodi e/o poco sviluppati”, che sono le “storie” raccolte dall’autore a mettere in luce: “storie che potrebbero ridare un significato alla parola antifascismo”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora