Storie, non numeri

Andri Snær Magnason, Il tempo e l’acqua, Iperborea 2020 (pp. 333, euro 19,50)

Dati, notizie, valutazioni: l’accelerazione del cambiamento climatico è un fatto. Come è un fatto che viviamo come se non ci credessimo. Niente di nuovo, dunque, in questo libro, niente di nuovo rispetto a quello di Franzen segnalato lo scorso mese e agli altri che in quell’occasione si richiamavano? No, Magnason sa innovare la questione: non si tratta solo del fatto che “quando si tratta di qualcosa di infinitamente grande, di sacro e che oltretutto è il fondamento della nostra esistenza, non abbiamo una reazione proporzionata” ed “è come se il cervello non riuscisse a comprenderne le dimensioni”. È che per comprendere davvero certe parole, e farne derivare comportamenti nuovi, occorre molto, molto tempo: nelle prime fasi prima non creano consapevolezza, ma solo un “ronzio che ci inganna”, e che quindi facciamo finta di non sentire.

Ed ecco allora il quesito di fondo, quello che sa porsi all’altezza di una situazione simile: come scrivere della questione? Scriverne ed essere ascoltati? Magnason non fa teorie, ci prova: quando “la portata del discorso è tanto grande da risucchiare ogni significato” e neutralizzare gli argomenti che porto, è venuto il momento di capire che “posso solo girarci intorno, dietro, di fianco, di sotto, spostarmi avanti e indietro nel tempo, andare su personale e insieme essere scientifico, e usare la lingua del mito. Devo scrivere di queste cose senza scriverne, devo retrocedere per avanzare”.

Il libro che segue a questo proposito iniziale è la prova che il metodo funziona: non solo persuade, il discorso di Magnason, ma si fa leggere pagina dopo pagina proprio perché alterna orizzonti diversi: l’informazione lascia il campo alla storia personale, a quella familiare soprattutto, perché sono i ricordi dei vecchi, dei nonni che hanno vissuto cambiamenti epocali prima di quello che stiamo vivendo tutti, forniscono strumenti per renderci conto della velocità e della gravità crescente con cui le conseguenze del riscaldamento globale si manifestano. E alla storia sottentrano da un lato i resoconti di viaggi, ascoltati da altri o di cui l’autore ha esperienza personale, dall’altro i miti, islandesi innanzitutto, che l’autore confronta con quelli orientali scoprendo rispondenze sorprendenti e ricavando così conferma che “siamo tutti collegati, deriviamo tutti da un unico popolo”.

Insieme agli orizzonti del discorso è il linguaggio a cambiare, perché “viviamo in tempi in cui è il denaro a misurare la realtà” e “io e i miei contemporanei – racconta Magnason riferendo di come è uscito dal blocco dello scrittore che l’aveva preso – eravamo irreparabilmente intrappolati nel discorso dominante”, che conosce solo il linguaggio dell’economia, “in cui la cultura è investimento e la natura nient’altro che una risorsa sprecata”. È un salto nel proprio modo di vedere le cose a smuovere la vena creativa dell’autore: la comprensione del fatto che “la gente i numeri non li capisce, ma le storie sì”. E forse gli stessi “scienziati non capiscono che cosa dicono finché non lo capiscono gli altri”.

Il convincimento di Magnason, che “siamo l’ultima generazione che può salvare la Terra dalla distruzione irreversibile”, l’angoscia e insieme la percezione della responsabilità che questa condizione comporta, si trasmettono al lettore: non predica, Magnason, condivide pensieri e sentimenti, non preoccupandosi della linearità del discorso e coltivando l’arte della digressione. Ma come tutti gli scrittori che si misurano con il problema dei problemi, anche lui deve prender posizione: il negazionismo degli americani, quello non dichiarato ma praticato dei cinesi, la doppiezza e l’incoerenza della cultura delle università, la cecità dell’economia, la fallacia della democrazia, il fallimento degli accordi di Parigi, le prove lampanti che la sesta estinzione non è una previsione cupa ma un fenomeno già in atto non possono che indurre al pessimismo. Gandhi stesso, del resto, riconosceva che “la terra può soddisfare i bisogni di tutti, ma non l’avidità di tutti”.

Due conversazioni con il dalai-lama incrinano la pur fondata caduta di ogni speranza. Non perché il saggio tibetano abbia soluzioni, ma perché ha una pazienza e una lungimiranza preziose: “Io dico sempre a tutti così: è mia convinzione che sia impossibile prevedere come sarà il mondo tra mille anni, ma possiamo star certi che il genere umano vivrà su questa Terra almeno per tutto questo secolo, che potrebbe diventare il secolo della pace”. Perché tutto, continuamente, cambia. Anche l’idea che solo la forza, e non il dialogo, possa risolvere i conflitti.

Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della ragione: anche di fronte a problemi inediti come la crisi ambientale la linea resta quella. E tale si conferma in occasione del Covid 19: un’“apocalisse”, ossia una rivelazione, leggiamo nel Post scriptum: gli eventi attuali hanno rivelato “la nostra vulnerabilità”, “la competenza o incompetenza dei governi, le disparità e i privilegi. Ma ci hanno portato anche la “bella notizia” che “gran parte del cambiamento strutturale [necessario per ridurre drasticamente il nostro impatto sul pianeta] può avvenire entro i limiti della nostra tecnologia. E che in questi mesi ci siamo forse resi conto di poter fare a meno delle nostre abitudini peggiori. Per prevenire il disastro climatico non sarebbe necessario assumere comportamenti estremi come è accaduto durante la pandemia. (…) La speranza è che l’apocalisse, lo svelamento di tutto, ci abbia mostrato che cosa ci serve davvero e a che cosa possiamo rinunciare, e con che rapidità possiamo decidere di agire, se prendiamo sul serio i moniti lanciati dalla scienza”.

Una speranza legittima. Ma – occorre dirlo – datata al giugno scorso…

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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