Migrante donna

Marco Balzano, Quando tornerò, Einaudi 2021 (pp. 202, euro 18,50)

Il titolo sembra richiamare quello del romanzo precedente, Resto qui*, ma non è così. La vicenda è tutt’altra, ma l’andare e lo stare, il partire e il rimanere tornano a proporsi come alternativa che genera e sta al centro della narrazione. Là si trattava della divisione degli abitanti del Sud Tirolo sotto il fascismo fra “optanti” e “restanti”, fra chi si sentiva di accettare di trasferirsi in Germania con la speranza di farsi una nuova vita e chi invece decideva di restare perché il posto in cui era nato aveva un significato imperdibile, perché – nel caso del protagonista – le strade e le montagne gli appartenevano come lui apparteneva ad esse.

Ma anche in Il figlio del figlio, di due anni prima, il perno della narrazione era un viaggio, il viaggio di ritorno al paese del sud di un emigrato, con il figlio e il nipote.

In Quando tornerò l’allontanamento è quello di una donna rumena che lascia marito e due figli per venire in Italia, a Milano, a fare la badante, unico mezzo per racimolare i soldi necessari alla famiglia, della quale il coniuge, beone e inaffidabile come tanti maschi di quelle parti – stando al racconto che probabilmente molti di noi hanno ascoltato da badanti e colf slave – non si sa occupare.

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Lo stile dell’unicità

Emanuele Trevi, Due vite, Neri Pozza 2021 (pp. 125, euro 15)

Basta un paio di pagine, e ti senti a casa. La casa in cui ti è sembrato di abitare leggendo il libro precedente di Trevi, Sogni e favole*. Lo stesso tono di resoconto pacato, capace di farti sentire in ogni momento che quel che è capitato a lui non ha nulla di eccezionale: potrebbe capitare anche a te che stai leggendo. L’eccezionalità è se mai dalla parte delle persone che lui ha incontrato e di cui tiene a parlare, a raccontare. Ma si capisce alla svelta che non di eccezionalità si tratta, ma di unicità, e per dirne occorre allora adottare uno “stile” appropriato. “Più ti avvicini a un individuo – infatti –, più assomiglia a un quadro impressionista, o a un muro scorticato dal tempo e dalle intemperie: diventa insomma un coagulo di macchie insensate, di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quello stesso individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri. L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità”. Quello stile che permette di fissare in poche righe il carattere saliente di una persona. Come l’amico Rocco, seguito sin dall’infanzia da “questo compagno segreto, da quest’ombra vanificatrice, da questa orrenda e inutile succhiasangue che è l’infelicità”, mentre “Nel fondo dell’anima di Pia, anche nei momenti più difficili e disperati, resisteva sempre una vocazione inestirpabile ad accudire, proteggere – esseri umani, animali, vegetali”.

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“Quello che scrivo appartiene in tutto e per tutto all’ordine di ciò che ho vissuto: nulla è deciso in anticipo…”

“Quello che scrivo appartiene in tutto e per tutto all’ordine di ciò che ho vissuto: nulla è deciso in anticipo, il libro viene costruendosi secondo la memoria. Non è un concetto che si sviluppa: per la precisione, l’oggetto è costantemente in fuga. (…) La letteratura è l’esatto contrario di una disciplina. È un dare forma al desiderio”. (Annie Ernaux)

Ereditare la colpa

Emmanuel Carrère, La settimana bianca, Adelphi 2021 (pp. 139, euro 12)

Si è abituati a considerare il romanzo di formazione come la storia di un, magari travagliato, cammino verso la consapevolezza e l’appaesamento nel mondo in cui si vivrà il resto della vita. Come se gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza non fossero invece, per molti, quelli nei quali si delinea e poi si cristallizza la nevrosi, se non di peggio, che segnerà l’esistenza a venire.

È il caso di Nicolas, bambino di nove anni, che nel corso della settimana bianca cui a malincuore partecipa vive l’esperienza che lo condannerà a una vita nella quale “non ci sarebbe stato perdono”. E non perché si sia reso responsabile di un’azione riprovevole: la colpa non necessariamente è conseguenza di una propria mancanza. Spesso la si eredita, a dispetto della convinzione che le colpe dei padri non ricadono sui figli.

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“Fino ai primi anni del millennio nuovo ho ricevuto e scritto corrispondenze consegnate dal postino…”

“Fino ai primi anni del millennio nuovo ho ricevuto e scritto corrispondenze consegnate dal postino. Le comunicazioni oggi tra innamorati vanno più svelte e certo non rimpiango il tempo dei sentimenti affidati al servizio postale. Resto affezionato alla scrittura a mano per le storie, che non hanno premura di consegna e vengono da così lontano da aver preso l’adagio del fruscio della mano sopra il foglio”. (Erri De Luca)

L’infanzia che è in noi

Massimo Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio, Einaudi 2021 (pp. 250, euro 20)

L’infanzia non è una stagione della vita come le altre. È il passato che non passa e ci segue tutta la vita chiedendoci di essere continuamente rielaborata. È la condizione iniziale di passività che tutti viviamo, non c’è esistenza che sia priva o si sia potuta disfare della propria infanzia; è il tempo nel quale gli altri – l’Altro, non solo i familiari, ma il linguaggio e le circostanze sociali, economiche, culturali che chi nasce si trova bell’e fatti – imprimono in noi tracce indelebili. Ma non immodificabili. Qui sta il punto. Non siamo semplicemente il risultato di quel che gli altri hanno fatto di noi, ma ciò che abbiamo fatto, e non cessiamo mai di fare, di quello che gli altri avevano fatto di noi: in polemica con il determinismo e il potere inscalfibile del passato che Sartre rimprovera a Freud, la costituzione (ossia quel che gli altri han fatto di noi) diviene poi il terreno di una personalizzazione che fa di ognuno di noi l’essere unico e irripetibile che siamo.

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Le case e le cose

Andrea Bajani, Il libro delle case, Feltrinelli 2021 (pp. 251, euro 17)

Non è il primo a raccontare di sé attraverso le case abitate, o comunque vissute. Viene in mente, per esempio, il Rigoni Stern delle Mie quattro case, da quella degli antenati, non abitata da lui, alla casa natale, a quella progettata durante la prigionia e poi, infine, realizzata al ritorno.

Anche qui troviamo case reali e altre solo immaginate. Sono tutte queste case a reggere la trama. “Questo romanzo – ha chiarito lo stesso Bajani in un’intervista recente* – si può facilmente riassumere nella frase la storia di un uomo raccontata attraverso le case in cui ha vissuto, a cui si potrebbero aggiungere dettagli come la storia di un matrimonio, il ritratto di una famiglia esperta in autodistruzione o i segni lasciati nell’immaginario dalle morti di Pasolini e Moro”. E si potrebbero aggiungere le case del tutto metaforiche come quella dei “ricordi fuoriusciti” o l’altra, “degli appunti”: la memoria fatta anche di oblio, effettivo o apparente, la prima; il taccuino dello scrittore, la seconda.

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“La letteratura (…) ti permette di conferire un senso anche agli errori biografici…”

“La letteratura (…) ti permette di conferire un senso anche agli errori biografici, perché li ricicla in propellente per la tua narrazione. Allora anche le tue nefandezze, le tue vigliaccherie passate hanno la chance di venire redente. È il falò delle tue compromissioni. La catarsi. La rinascita. La salvezza”. (Vladimiro Bottone)

L’arroganza di raccontare

Raymond Federman, A tutti gli interessati, Einaudi 2021 (pp. 151, euro 18)

“L’arroganza di raccontare”: fra i vari titoli che l’autore non esita a confessare di aver pensato per questo suo racconto c’è anche questo. Perché la storia di Sarah, bambina che una retata nazista separa dai suoi e sopravvive grazie alla compassione di una prostituta che la nasconde, e di suo cugino, che si salva solo perché si rinchiude in uno sgabuzzino mentre la sua famiglia viene portata via, non è “una storia particolarmente originale. Molti ragazzi e ragazze vennero abbandonati per le strade o nascosti negli sgabuzzini durante la guerra, e molta gente caritatevole, prostitute o suore, si curarono di quei bambini e li trassero in salvo, per cui alla fine tutto risulta banale”. E allora, perché scriverla, ma soprattutto perché leggerla una storia del genere? che cosa la distingue nel mare di racconti e romanzi sulla deportazione? se pure si rivolge a qualcuno, chi sono i destinatari? Se lo domanda l’autore stesso, che con l’ironica disinvoltura che attraversa tutta la narrazione non sa trovare altra risposta che “dire semplicemente che è indirizzata, indecisa e informe com’è, A tutti gli interessati”.

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Malattia dell’oblio, malattia della speranza

Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi 2021 (pp. 122, euro 13)

Ogni epoca ha i suoi maestri di pensiero o, se preferiamo, i suoi intellettuali di riferimento: da tempo è tramontata quella che li aveva individuati negli storici ed è sorta quest’altra, in cui la parola spetta agli economisti (o a una loro sottospecie, i banchieri*). I quali alla storia sembrano allergici, convinti che il nostro sia “un Paese troppo rivolto al passato”. Ha buon gioco l’autore a rilevare, in tempi come quelli che viviamo, di quanto sia vero il contrario: “Se lo fosse stata – rivolta al passato – (l’Italia) avrebbe mantenuto e rafforzato le difese che secolo dopo secolo erano state erette contro la minaccia delle epidemie”. Non si tratta solo di aver dimenticato – si fa per dire – il ruolo di quella che abbiamo imparato a definire “medicina territoriale”. La perdita di memoria è andata più in là, giungendo a oscurare la consapevolezza che “Epidemie e pandemie sono il sordo rumore di fondo che accompagna l’evoluzione storica della specie, ne azzera le conquiste, la richiama alla sua condizione di precarietà e di dipendenza dalla natura”.

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Un’apocalisse taciuta

Peter Terrin, Il guardiano, Iperborea 2021 (pp. 269, euro 17)

Dopo qualche pagina ti aspetti il colpo di scena, ma non arriva. I due guardiani relegati nei garage seminterrati del palazzo hanno un bell’aspettare l’attacco di possibili intrusi, ma quelli non arrivano. L’editore stesso suggerisce analogie con i tartari di Buzzati e il Godot di Beckett, ma qui ad occupare lo spazio narrativo, insieme all’attesa, è il senso soffocante, claustrofobico in cui si muovono Harry e Michel. Il primo, veterano di questo lavoro assurdo, e per questo, oltre che per la sua cifra caratteriale, figura dominante; il secondo, arrivato dopo, eterno apprendista, sottomesso – in ogni senso – all’altro.  Entrambi funzionari di basso livello dell’“Organizzazione”, l’“azienda”, misteriosa, imperscrutabile, che garantisce la sicurezza ai residenti attraverso una rete di guardiani nella quale si distinguono gerarchie di merito: non per nulla Harry, e quindi l’obbediente Michel, aspirano alla promozione che potrebbe farne membri dell’ “élite” dei guardiani scelti, non obbligati ad abitare in un autorimessa senza luce, a cibarsi di alimenti da carcerati, a mancare dei comfort più elementari ma delegati alla sorveglianza di lussuose e ariose ville. Non costretti quindi, come loro due, a vivere praticamente senza poter avere rapporti con l’esterno. Dove qualcosa è accaduto. Qualcosa di tremendo, di totale.  È un mondo postapocalittico quello in cui si trova l’edificio che i nostri sorvegliano e che fa venire in mente, cogliendo qua e là cenni al suo assetto, a certi condomini della più recente generazione, condomini-fortezza, immersi nel contesto urbano e pure da esso separati, chiusi da cancelli che si presentano come lastre corazzate, invisibili a chi passa per strada, esclusivi al punto da non lasciar immaginare chi possa abitarci.

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La nostalgia come attività creatrice

Vito Teti, Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, Marietti 1820, 2020 (pp. 296, euro 20)

Un tema che non cessa di sollecitare ridefinizioni, quello della nostalgia. Ne è testimone la ricchezza di contributi che in proposito si susseguono, come quelli di Antonio Prete* e di Eugenio Borgna**, citati fra molti altri nel libro di Vito Teti. Sono diversi i punti di contatto fra queste ricerche – dalla ricostruzione del cammino che ha portato a vedere nella nostalgia, inversamente a quanto occorso alla depressione, non più una malattia ma un sentimento, alla constatazione che di un sentimento necessario, e non regressivo, si tratta –, ma quella che Teti ci propone si distingue per diversi aspetti. La sua ampiezza, certamente, che non sta solo nella varietà dei punti di vista richiamati ma anche in un incontro – praticato, non semplicemente auspicato – fra lo sguardo dell’antropologo con quello dello storico, storico della società ma anche della letteratura (come dimostrano i riferimenti puntuali ad Alvaro, Pasolini, Roth, Kundera…). Ma tutto questo non basterebbe ancora a spiegare la capacità di coinvolgere il lettore che caratterizza questo libro, una capacità che credo si inscriva entro due coordinate rinvenibili nel testo: da un lato, il taglio autobiografico che ricorrentemente vi affiora; dall’altro, l’efficacia con cui via via chi legge è indotto a prendere consapevolezza che la nostalgia, al di là delle sue personali esperienze, lo riguarda in quanto “sentimento del presente” – come recita il sottotitolo.

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“Le idee del romanziere non stanno nelle opinioni espresse dai suoi personaggi…”

“Le idee del romanziere non stanno nelle opinioni espresse dai suoi personaggi, o nelle loro introspezioni, ma nella situazione che ha inventato per loro, nella giustapposizione dei diversi personaggi (…). È nella loro densità, nella loro consistenza, nella loro esistenza vissuta, resa tangibile in tutti i diversi particolari, che le sue idee vengono metabolizzate. (…) le idee del romanzo si incarnano nel focus morale del romanzo. Lo strumento con cui il romanziere pensa è la scrupolosità del proprio stile”. (Philip Roth)

La passione del passato, la gioia di raccontare

Alessandro Barbero, Gli occhi di Venezia, Mondadori 2020 (pp. 432, euro 12,50)

La “passione del passato” cui dobbiamo sia saggi di storia che romanzi storici è al servizio, nei migliori di questi ultimi, della riflessione sul presente e su sé stessi. Un esempio (eccellente) per tutti: Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, la quale, non a caso, negli appunti redatti in contemporanea alla stesura del romanzo affermava che “Ai tempi nostri il romanzo storico, o quello che per comodità si vuol chiamare così, non può essere che immerso in un tempo ritrovato: la presa di possesso d’un mondo interiore”. Non sono tuttavia da sottovalutare quegli altri romanzi storici, che, senz’altro con minori pretese, convogliano la narrazione di vicende trascorse semplicemente nella gioia di raccontare e proprio nella trasmissione al lettore di questo piacere   aprono le porte di quel che è per sempre andato. Un esempio di questo genere – richiamato in queste note il 7 ottobre 2018 – è Magellano di Gianluca Barbera (Castelvecchi 2018), in cui prevale, si diceva, il “piacere del racconto puro”, la “narratività” che era “caratteristica del romanzo storico classico”. Lo stesso si può dire del romanzo di un altro autore (dal nome per puro caso assonante con quello citato): Alessandro Barbero, storico di professione, figura divenuta negli ultimi anni popolare per la verve divulgativa dimostrata in documentari televisivi e libri ponderosi (come l’ultimo, Dante, Laterza 2020). Storico proclive alla narrazione, dunque, anche nell’esercizio delle sue funzioni, ha voluto già anni fa mettere le sue conoscenze alla prova del romanzo storico. Risale al 2011 infatti la prima edizione degli Occhi di Venezia, recentemente riproposto negli Oscar Mondadori.

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