Favola nera dal vero

Claudio Morandini, Neve, cane, piede, Exòrma 2015, pp. 144, euro 13

La montagna, il bosco, la neve: Rigoni Stern, pensi all’inizio. Ma vai avanti, e il vecchio ti richiama un Rosso Malpelo sopravvissuto alle fatiche, e perché non un’altra figura di Verga, il Mazzarò della Roba? Ma neanche qui puoi dire di averlo capito, Adelmo Farandola.

Perché è vero che è tutto concentrato su di sé e sulle sue cose, ma i soldi che aveva se li è dimenticati in banca e non sa neanche più di averli, e quei pochi che tiene nella sua baracca sperduta sono solo il mezzo che gli permette di far provviste le rare volte che scende fino al paese. Per poi scordarsi, quando è alla bottega, di che cosa ci fosse andato a fare. Ma anche l’eco di un altro vecchio smemorato isolato fra le montagne, il signor Geiser dell’Uomo nell’Olocene di Frisch, si spegne presto: Adelmo non possiede alcun immaginario enciclopedico cui aggrapparsi per non perdere la memoria.
Però c’è il cane, un randagio che gli si è affezionato, e gli parla, dando voce a quel che di umano è rimasto in lui, soprattutto quando dalla valanga spunta un piede. Un piede umano. E qui il racconto si tinge di giallo: di chi è quel piede? Per un po’ crediamo di aver capito dove vuol andare a parare questo racconto. E invece no. Non è neanche un giallo alpino, questo racconto (ce ne sono: pur di scriverne, i giallisti sono arrivati anche in alta quota, vedi Faggiani e il suo forestale detective).
Tra i tanti echi di cui risuona e le molte tracce che semina e subito si perdono, Neve, cane, piede, alla fine si rivela una “storia vera”, a suo modo. Ce lo spiega l’autore, nella “Storia di una storia” con la quale in conclusione si è sentito in dovere di illuminare il lettore. E, si direbbe, giustificare anche di fronte a se stesso il fatto di aver immaginato questa favola pacata e feroce.

Spaesamento

Marco Revelli, Non ti riconosco più. Viaggio eretico nell’Italia che cambia, Einaudi maggio 2016, pp. 254, euro 20

“Prati incolti, trincee scavate come per una guerra abbandonata o forse solo sospesa”: “un deserto dei tartari nel bel mezzo del Nord intasati e asfissiato dal traffico”. E’ la BreBeMi: passa anche da noi il “viaggio eretico” di Revelli.

Le auto che riesce a contare fra Brescia e la Milano dell’Expo, sono settantasei, e “nei bar di Rudiano o Travagliato proliferano le leggende parametropolitane più fantasiose, dell’industrialotto che prima di cena celebra il rito della corsa in Ferrari sulla pista libera come fosse a Monza”. Ma la grande opera che l’Expo sembrava esigere è solo una delle occasioni per fare tappa lungo un itinerario che da Torino (“città promessa, città perduta”) arriva là, a Lampedusa, “il luogo geometrico in cui s’incontrano e si scontrano l’immensa ondata della speranza che si fa illusione e la dura risacca dell’avarizia che vira in ferocia”. Più che mai in questo libro la scrittura del politologo, dello storico, si fa letteraria: perché il suo proprio sentire è il documento più significativo che porta, la sensazione che prova di fronte alle cose che vede. Quella che cerca è la possibilità di esprimere in prima persona – «in soggettiva», per così dire – la dimensione della trasformazione che il nostro Paese ha subito in questo passaggio di secolo. O, più banalmente, un motivo (una misura?) del senso di straniamento. E, se possibile, un’uscita di sicurezza…”.
Quello che accade leggendo il bilancio di questo viaggio è un’impressione inquietante di condivisione di quel che prova l’autore: “la sgradevole sensazione che si appiccica addosso quando ci si trova a misurare l’irriconoscibilità dell’immediata prossimità. E di se stessi.” E non occorre un viaggio, del resto: si “Devo ammetterlo. Ho cominciato a perdermi nella mia città. O meglio, a non ritrovarmi.”
Eppure… Eppure, “non esco prostrato dal mio «non riconoscere» (…) Vedo piuttosto nell’irriconoscibilità del nostro presente l’occasione di una «sorta di smascheramento»”. Perché c’è verità nelle “travi rugginose, nelle finestre spente dei capannoni dismessi, nell’erba incolta dei vuoti industriali”.
E’ forse per questo che non finiscono di chiamarci, di chiederci di averli a cuore, di partire da loro per immaginare il futuro di una città nella quale tornare a riconoscerci?

Marco Revelli spiega perché voterà “no” al referendum sulla riforma costituzionale Boschi, Alba (CN, Italia), sala riunioni dell’hotel Savona

Un maestro senza terra

Britta Böhler, La decisione, Guanda, maggio 2016, pp. 208, euro 15

Tra il venerdì e la domenica mattina, dal 31 gennaio al 2 febbraio del 1936. Ci vogliono tre giorni, a Thomas Mann, per prendere la decisione, o meglio: per decidere di non far marcia indietro rispetto alla decisione presa quando ha portato alla redazione del maggiore giornale di Zurigo la lettera che segnerà per lui la rottura definitiva, irreversibile con la Germania ormai precipitata nel baratro nazista.

L’ha portata ma ha poi chiesto che si attendesse a pubblicarla. Ci deve pensare.
È al sicuro, ma in esilio, nella città svizzera: in Germania non tornerà mai più. Sta scrivendo la terza parte di Giuseppe e i suoi fratelli: anche Giuseppe è un reietto, “costretto a trovare una nuova casa in un paese straniero”. Ma per Mann non si tratta solo di spaesamento: per lui la rottura con il proprio paese rischia di tradursi nell’impossibilità di continuare a scrivere. Un bivio drammatico per chi è sempre stato convinto che tra la vita e la scrittura si debba scegliere e su questa convinzione ha fondato il suo lavoro quotidiano (avendo sperimentato come “si riesca a capire qualcosa di sé solo quando si scrive. I periodi in mezzo – tra un libro e l’altro – sono terribili”).
Viene da qui la tentazione di ritirare la lettera. Non semplice prudenza, ma ritorno di un pensiero radicato nel profondo: “uno scrittore deve creare, non agire”. La politica non fa per lui. Ma è anche vero che “chi non si oppone è complice”, glielo ricorda la figlia Erika, e del resto lui è diverso da Hesse, cittadino svizzero da anni, senza nostalgie per la patria. Ma lui no: lui è uno “scrittore tedesco”. Se non scrive per la Germania, se non scrive per quelli da cui soprattutto si aspetta il riconoscimento che motiva la sua scrittura, perché scrivere? “Che cosa gliene importa, di avere lettori in America e in Cecoslovacchia, in Spagna e in Giappone, se i suoi libri non possono più essere pubblicati in Germania?”.
Tra un the e una passeggiata con il cane Toby, un sigaro e una parola affettuosa della moglie Katja (quando potremo leggere i Diari di Mann in traduzione italiana?), lo scrittore comprende finalmente qual è la sua vera posizione. La Germania di cui è fatto, della quale non può fare a meno, non “è più lì dove il paese si trova geograficamente”: “dove sono io, lì è la Germania”.
Non resta che telefonare al giornale: la lettera sarà pubblicata. Non è una decisione imposta, e neanche autoimposta: è stata faticosamente guadagnata, costruita, passando attraverso riflessioni e bilanci che sono andati oltre le circostanze, non aggirando quesiti che stanno alla radice della scrittura: perché, e per chi, lavora uno scrittore? può scrivere senza un mandato sociale? può continuare a farlo senza che gliene venga un riconoscimento?

Inevitabile cercare risposte a domande simili, quanto impossibile trovarne. La soluzione, se mai, sembra star nell’ammettere un’oscillazione, un’ambivalenza insita nella figura sociale dello scrittore, nella pratica stessa del suo lavoro: “Omaggi e lauree ad honorem in fondo se li era guadagnati, ed era contento quando gli venivano tributati”, “sì, quel genere di cose lo rendeva felice, anche se spesso avrebbe preferito condurre una vita in silenzio e solitudine. Ah, nel mio petto – lo deve riconoscere– convivono due anime.” Eppure la sua scelta non può essere quella di Hesse, quella di “essere al tempo stesso dentro e fuori”: i tempi non lo rendono possibile. Ma lo scrivere sì, lo esige: senza la giusta distanza, non si scrive, o non si scrive niente di buono. E la distanza fra la Germania perduta nei meandri della follia nazista e quella che la “nobiltà dello spirito” può preservare si rivela alla fine in grado di rappresentare questa distanza essenziale. La scrittura è ancora possibile. Anzi: è necessaria.

Pic nic in terrazza

Sergio Claudio Perroni, Il principio della carezza, La nave di Teseo, maggio 2016, pp. 104, euro 15

Lei è una scrittrice, e quindi scrive, nella sua stanza. Ma non vive, o non vive davvero. O così il disincanto le fa sentire.
Lui è un pulitore di vetri, quelli delle finestre dei palazzi. E’ pieno di curiosità, di allegria, e quindi vive. Ma non scrive. Pulisce i vetri.

Lei dentro, al sicuro.
Lui fuori, sul piccolo ponteggio mobile che sale e scende lungo la facciata.
Roba da Hopper. Invece no.
Perché lei potrebbe vivere, lo scopre parlando con lui: da dentro a fuori. Scopre di non essere insensibile agli occhi di lui che la guardano, ai complimenti che rivolge a quello che lei scrive (lo stava leggendo ad alta voce, lei, ma lui, con quel mestiere, ha imparato a leggere le labbra e ha ascoltato anche se la finestra era chiusa).
E lui potrebbe scrivere, lo scopre parlando con lei: di pensieri e cose da dire ne ha, tante da tenerle testa in dialoghi arguti, leggeri, scoppiettanti.
Come in un film francese.
Lei non è più una ragazza, né una signora in vena di giovanilismo.
Lui non è un don Giovanni, né un artigiano che va per le case ad approfittatore di signore tristi.
Parlano e bevono insieme il caffè, mangiano biscotti.
Lei lo invita ad entrare, anche, e lui accetta. Ma non accade nulla.
Accadrà in un luogo neutrale: non la casa di lei. Né il trabiccolo sempre in bilico di lui.
Sarà un pic nic sulla terrazza del palazzo l’occasione. L’occasione di “un bacio che è come il prolungarsi di un respiro”. Fine.
Come in un film francese.

L’altra figlia di Annie Ernaux

Annie Ernaux, L’altra figlia, L’orma editore, 2016, pp. 88, euro 8,50

Chi segue questa autrice non troverà nulla di propriamente inedito in questo libro solo ora tradotto, ma non fosse che per questa pagina

“Racconta che oltre a me hanno avuto un’altra figlia e che è morta di difterite a sei anni”: “mio marito è diventato matto” quando ha trovato la figlioletta morta tornando dal lavoro.
Lo racconta a una vicina, la madre, e lei, bambina di dieci anni, è lì accanto: sente e finge di non sentire, anche quando la madre si riferisce a lei (“lei non sa niente, non abbiamo voluto rattristarla”), e conclude: “era più buona di quella lì.”
Questo il fatto: “quella lì, sono io”, ed è quella lì adesso, Annie, a raccontare: “non rimprovero loro niente. I genitori di un figlio morto non sanno ciò che il loro dolore fa a quello vivo”.
Un fatto che ha segnato la vita della scrittrice, non esclusa la sua vocazione letteraria, apprendiamo. Ma pu sempre un fatto privato, un pezzo di storia della sua famiglia, anche se la morte di una bambina non doveva certo essere un evento eccezionale quando il vaccino antidifterico non era ancora pratica diffusa. Sennonché il fatto non sta in quella morte, ma nel modo in cui se ne ha avuto notizia, e qui ritroviamo l’arte di Annie Ernaux di dare consistenza a ciò che è accaduto, a ricordi, a immagini del passato, facendone occasione per ricostruire un contesto sociale, una memoria collettiva, una mentalità diffusa; per continuare nell’opera di scrivere quell’ “autobiografia impersonale” di cui abbiamo letto nel suo Gli anni (del 2008, e dunque precedente questo racconto, scritto in forma di lettera alla sorellina mai conosciuta, uscito nel 2011).

Da: Annie Ernaux, L’altra figlia

“(… ) a fissarsi nella mia memoria è quel racconto che non avrei dovuto sentire, non destinato a me, indirizzato a quella giovane donna elegante che probabilmente lo ascoltava subendo il fascino delle disgrazie che si teme possano accadere a se stessi. (…) Il racconto che proferisce la verità e mi esclude.
A ripensarci, com’è possibile che, pur consapevole della mia presenza al punto da indicarmi, si sia lasciata andare a parlare di te? La spiegazione psicanalitica – grazie a uno stratagemma dell’inconscio mia madre avrebbe trovato il modo di rivelarmi il segreto della sua esistenza, e dunque sarei stata proprio io l’autentica destinataria del racconto – è, come al solito, allettante. E ignora la storia delle mentalità. Negli anni Cinquanta gli adulti consideravano noi, i bambini, come creature dalle orecchie trascurabili, davanti alle quali si poteva dire di tutto senza conseguenze a eccezione di ciò che riguardava il sesso, a cui si poteva soltanto alludere. E poi c’è un’altra cosa, della quale sono certa perché ho ascoltato spesso, in seguito, racconti luttuosi confidati da donna a donna, in treno, dal parrucchiere o in cucina davanti a una tazza di caffè, come memento mori in cui si sfoga tutto il dolore condividendolo nei dettagli, descrivendo con precisione le circostanze: una volta iniziato a parlare di te non poteva più fermarsi, non poteva non andare fino in fondo. Narrando della tua scomparsa a quella giovane madre, che l’ascoltava per la prima volta, trovava il conforto di una forma di resurrezione.”

Scrivere come Cornia

Ugo Cornia, Buchi, Feltrinelli, pp 96, euro 10

tutto finisce e non finisce mai di finire, ma sarà finito un giorno o non finirà mai
Le frasi spesso non hanno bisogno della maiuscola per cominciare, perché quella prima, anche se sembrava, non era finita, e infatti non c’era il punto, alla fine, e dunque non era una fine: ti viene da scrivere come Cornia se leggi Cornia. Se segui il suo discorso da un libro all’altro, perché anche i suoi libri non finiscono davvero. Si interrompono. E riprendono con la stessa voce: ti sembra che non si possa scrivere diversamente, che scrivere come hai scritto finora, scrivere come ti hanno insegnato – maestri, professori, e anche gli autori che hai letto, quelli che daresti non so cosa per scrivere come loro – ti sembra che scrivere come finora hai fatto o hai cercato di fare sia una finta, un rinunciare a dire la verità, un non tenerci davvero a stare attaccato all’essenziale che hai da dire, e che hai da dire perché così stanno le cose: in un universale e continuo smantellamento di tutte le cose.
Che poi, a ben vedere, le cose restano, sono loro che restano, che durano di più di noi. E così della vita restano le macerie: qualche mobile, qualche quadro, carte varie, e lastre. Lastre fatte non si ricorda quando ma che non butti via, che restano nei cassetti. Lastre di tuo padre, di tua madre, tue: un album di famiglia. Cose ma anche frasi, frasi fatte: non si è mai finito, o: sembra ieri o anche: che malinconia. Frasi come fili di una ragnatela micidiale a cui non si sfugge: un giorno anche la tua bocca sparerà un che non si è mai finito.
Cose, parole, che sono i documenti di un passato che non passa. E come potrebbe, visto che non sai capacitarti che la morte sia dentro la vita, ne sia parte: perché sempre, come sentimento personale, hai sentito la morte come cosa esterna che non ci centra niente con la vita, e non sei del resto meno incredulo se pensi alla nascita, alla tua nascita: c’è una cosa che fino a prima che nascessi tu non c’era, e invece dopo poco che sei nato c’è stata, quindi questa cosa per te sembrerà necessaria e normale, per sempre.
Più che sgomento, o rabbia, è incredulità quella che Cornia prova di fronte al succedersi degli eventi, al passare del tempo. Incredulità ma non negazione: resta un buco al posto di chi non c’è più, un grande buco, in un posto che prima non c’era. E dentro il buco cosa c’è? Niente. Niente di niente, perché la natura dei buchi è proprio di essere senza niente dentro. Intorno al buco c’era stato tutto quello che c’era prima, E invece dentro il buco non c’è niente.
No. Non è solo incredulità: è dolore. È il dolore. E forse l’unico modo per dirlo, oggi, è scrivere così.
Come Cornia.

Estreme conseguenze

Bruno Arpaia, Qualcosa, là fuori, Guanda 2016, pp 220, euro 16

Non è un day after, non è un terribile inatteso domani: è un oggi portato alle estreme conseguenze. Estreme ma prevedibili fin d’ora. Le conseguenze del cambiamento climatico si sono abbattute su un mondo che non le ignorava ma non le ha volute evitare.

Un mondo in cui tutti sono profughi: non solo i disperati che in proporzioni inedite abbandonano i paesi del Sud del mondo, ma anche i fortunati che ne abitavano quella porzione che chiamiamo Occidente e sono ora costretti anche loro a rischi e fatiche mortali nel tentativo di raggiungere i paesi più settentrionali dove esiste ancora l’acqua. E tutto ciò avviene nel magma di una irreversibile crisi di civiltà, anche questa annunciatasi da tempo, anche questa non contrastata davvero dai detentori della cultura: “sapevano di essere antiquati, di coltivare in estinzione, di amare cose che la gente ormai ignorava o disprezzava: il mondo intorno a loro andava da tutt’altra parte. Si riunivano, ne discutevano, organizzavano presentazioni di libri o conferenze, ma in fondo erano consapevoli che la loro era una battaglia persa.”
Non un’ennesima distopia proiettata in un futuro terrificante, questo romanzo, ma il tentativo di incrinare, oggi, lo stato di negazione nel quale viviamo: quel sapere e nel contempo non sapere, quel sapere che non si traduce in un fare. Spesso neanche in un dire, per il timore di apparire catastrofisti, di restare esclusi dalla corrente di una religione del progresso che senza porsi domande sui fini ciecamente domina il nostro tempo.

La scrittura è figlia del cammino

A piedi, di Paolo Rumiz. Feltrinelli 2012 (collana Feltrinelli Kids), pp. 128, € 12,00

Del rapporto stretto fra il passo (quello che si fa camminando) e il racconto non si stanca di parlare Rumiz … L’autore è ospite della libreria lunedì 16 maggio alle ore 17.30

Flaubert era dell’idea che non si può scrivere se non seduti. Nietzsche non la pensava così, convinto com’era che solo i pensieri nati camminando hanno valore. Ma anche quelli che si scrivono, soprattutto quelli, aggiungerebbe Paolo Rumiz. E forse ha ragione: quando si apre un libro per farsi un’idea non tanto di quel che dice ma di come lo dice se ne legge un passo, appunto, e del rapporto stretto fra il passo (quello che si fa camminando) e il racconto non si stanca di parlare Rumiz: Una storia raccontata in bicicletta è diversa da quella del viaggio a piedi. La prima è un mordi e fuggi mentre il viaggio a piedi è più introspettivo e complesso, tanto che si può sostenere che non esiste viaggio senza scrittura. L’andatura diventerà scrittura. La scrittura è figlia del cammino. Anche i pensieri, anche i ricordi nascono dal ritmo regolare dell’andare.
Anche l’ultimo dei viaggi che ci racconta in estate, sulla Repubblica, Rumiz l’ha fatto a piedi, da Roma a Brindisi lungo l’Appia perduta, ma la sua filosofia del camminare, del camminare scrivendo, ha voluto sintetizzarla in un piccolo libro: A piedi, il racconto della passeggiata di una settimana, da Trieste a Promontore (Premantura in croato), la punta estrema dell’Istria. Il libro è stato inserito nella collana per ragazzi (della Feltrinelli) ma è stato l’occasione per scrivere cose che mi sarebbe piaciuto da tempo dire anche agli adulti, assicura l’autore.

Lo sguardo antropologico di Ugo Fabietti sul Medio Oriente

Ugo Fabietti, Medio Oriente. Uno sguardo antropologico, Raffaello Cortina editore, 2016, pp.300, euro 24

L’autore è fra i relatori del secondo incontro del ciclo “Islam. Il bisogno di capire”, venerdì 13 maggio alle ore 18 in libreria

Antropologico: non storico, geopolitico o politologico, filosofico o teologico. Uno sguardo capace di fare argine all'”ondata ideologica spesso odiosa e ignorante” che ha occupato il campo mediatico occidentale dopo l’11 settembre. Uno sguardo capace di contrastare la semplificazione bugiarda dello “scontro di civiltà”, frutto avvelenato delle teorie dei politologi americani la cui fortuna si è alimentata della resistenza diffusa a “comprendere la diversità nei suoi propri termini” applicando invece “in maniera spontanea e ingenua le nostre categorie alla comprensione della differenza”. Uno sguardo capace di spostarsi dalle personalità e dagli eventi politici e dalla dichiarazioni ideologiche per occuparsi di culture (al plurale) che abitano il Medio Oriente, un’area che va dal Marocco al Pakistan, caratterizzata da “tratti culturali riconducibili allo stesso sistema di significati” anche se attraversata da differenze profonde.
E culture, per l’antropologo, non sono quelle alte, dei pensatori e degli scrittori: sono quelle di tutti, che si manifestano nell’immaginario, nella vita quotidiana, nelle strategie di vita individuali. Culture prese tra spinte verso la laicità e il fondamentalismo religioso, la fame di democrazia e la gerarchia dei rapporti d’autorità, la tradizione e la modernità: proprio per questo dilaniate da contraddizioni capaci di generare “una conflittualità da esportazione”.

La femmina nuda di Elena Stancanelli

Questa non è una recensione, né una breve scheda (se ne trovano di ottime nella rete…). Si può invece consigliare un libro non fosse che per una due pagine? Intendendo naturalmente che il resto non è affatto da buttar via, anzi: La femmina nuda di Elena Stancanelli – pubblicato dall’appena varata Nave di Teseo che con questo primo titolo si avventura su mari tempestosi sfidando la superconcentrazione editoriale – è tutto da leggere. Ma appunto, di questo nuovo romanzo candidato allo Strega, della sua protagonista dolorante/delirante dopo l’abbandono, tanto da toccare il fondo diventando una stalker, si può con profitto leggere altrove. Il fatto è che nel libro c’è dell’altro, come nelle due paginette che seguono, e di cui ci spiace Stancanelli non abbia disseminato con più generosità il suo racconto, regalandoci piccoli saggi sulla nostra contemporanea cultura (?) materiale.

Da: Elena Stancanelli, La femmina nuda (La nave di Teseo 2016, pp. 156, euro 17)

Ho iniziato a comprare soltanto cracker e succhi di frutta. (…) è sorprendente quanto siano cambiati da quando noi eravamo bambine. Anche i cracker sono migliorati: adesso sono più buoni, saporiti, e grazie a qualche miracoloso nuovo ingrediente non si sbriciolano più tra le dita quando ci spalmi sopra lo stracchino. Nella maggior parte dei casi è stata elimi¬nata la linea tratteggiata che li divideva a metà e che sarebbe dovuta servire per spezzarli meglio. Ma invece si risolveva quasi sempre in un pasticcio, come tutte le linee tratteggiate a partire da quelle delle bollette. Adesso i cracker sono interi e spesso contengono semi di vario tipo, farine preziose. Ci sono col sale sopra, senza sale sopra, integrali, ai cereali. Ma tutto sommato i cracker, a parte la linea tratteggiata, non sono molto diversi da quelli che ricorderai.
I succhi di frutta invece sono irriconoscibili. Quelli mono¬gusto non esistono quasi più: arancia, ananas, pompelmo. Solo alcuni discount li tengono ancora, in confezioni giganti con la scritta brutta. Hanno quel sapore aspro, un po’ DDR. Nessuno li compra, tranne le famiglie numerose di bengalesi, o gli ado¬lescenti quando fanno la spesa per le feste. Poi li mischiano con la vodka e li vomitano sui tappeti. Quello al pompelmo è micidiale, alla prima sorsata ti si chiudono tutte le papille sotto le orecchie, come se qualcuno stesse cercando di strangolarti. A volte quei succhi antichi li trovi anche sugli Eurostar o nei voli Alitalia.
I succhi moderni, occidentali, sono invece buonissimi. Com¬posti di frutti diversi, assemblati per colore, forma, utilità. Ce ne sono alla frutta rossa, gialla, bianca, blu, con aloe, ginseng, fiori d’arancio, energetici, digestivi, ACE. Hanno nomi curiosi, che evocano piaceri raffinati. E tutti contengono vitamine, an¬tiossidanti e roba che si presume debba fare bene e di cui tutti quanti evidentemente siamo carenti.
Ho pensato molto ai succhi di frutta in quell’anno. Perché preferiamo qualcosa che è composto di tante cose, più ce ne, sono e più siamo felici? Credo che sia una questione cruciale. Non ci fidiamo più, non riusciamo più a dire sì, voglio quello. Perché quello è fallace. E se si rivela aspro, troppo dolce? Non abbiamo la forza di difendere la nostra scelta. Per scegliere bi¬sogna immaginare che qualcosa sia migliore di qualcos’altro, o almeno che ci piaccia più di qualcos’altro. Scegliere è escludere. Ma noi non lo sappiamo cosa vogliamo, cosa ci piace. Non lo sappiamo più. E allora la cosa che ci rende più felici è il multiplo, meglio ancora se arricchito con altra roba. Un sapore indecifrabile ma buonissimo, del quale non si possa accertare l’origine. Non esiste nessun ACE in natura. Ormai quasi tutto quello che ci circonda è così, pensavo davanti a interi scaffali di succhi di frutta: multiplo e indecifrabile.

John Berger, Perché guardiamo gli animali?

John Berger, Perché guardiamo gli animali? Dodici inviti a riscoprire l’uomo attraverso le altre specie viventi, Il Saggiatore 2016, pagine 120, € 16.00

Del guardare si intitolava la raccolta di articoli e saggi fra cui era comparso, oltre vent’anni fa, lo scritto che ritroviamo nel recente Perché guardiamo gli animali? di John Berger. E si tratta appunto di guardare, senza cercar di riconoscere, di tranquillizzarsi collocando quel che si ha davanti nel già noto. Guardare senza cedere all’imbarazzo, o all’inquietudine che ci fa passare a guardare altro. Guardare e lasciarsi guardare, senza abbassare gli occhi, anche se chi ci guarda non è un altro essere umano.
Stare nello sguardo che intercorre fra me e l’animale: tutto qui.

Quel che ne viene, fra gli innumerevoli discorsi che facciamo, e leggiamo, sugli animali, è una riflessione profonda ma non teorica, colta ma che non ha bisogno di note: sembra di averle già pensate molte delle cose che Berger dice, o che le si sarebbe potute pensare anche noi, solo che non avessimo liquidato il cavallo che incontriamo mentre facciamo una passeggiata con un buffetto sulla fronte, o il gatto che è spuntato da sopra un muretto al nostro arrivo con un’occhiata distratta, interrompendo così la domanda che veniva dai loro occhi.
Ma lo sappiamo, anche noi, che “quando sono intenti a esaminare un uomo, gli occhi di un animale sono vigili e diffidenti”, e al tempo stesso indifferenti, perché l’animale “non riserva uno sguardo speciale all’uomo. Ma nessun’altra specie, a eccezione dell’uomo, riconoscerà come familiare lo sguardo dell’animale.” Perché? Ed ecco una delle molte osservazioni che Berger butta lì con disinvoltura, e che ci obbligano a rileggere, a sottolineare mentalmente: perché “l’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiarlo”, quello sguardo. Somiglianza e diversità convivono nell’attimo in cui vive, sospesa, questa muta reciprocità. Si tratta di accettarla, di non sfuggirla, e allora si comprenderà che “l’animale ha segreti che, a differenza dei segreti delle caverne, delle montagne, dei mari, si rivolgono specificamente all’uomo”.

Gianni Celati: un classico

Gianni Celati, Romanzi, cronache e racconti, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, Meridiani 2016, 1984 pp., 80 euro

È in libreria il Meridiano che raccoglie le opere di Gianni Celati, scrittore che molti di noi hanno seguito a partire dai romanzi stralunati delle Avventure di Guizzardi e della Banda dei sospiri fino ai taccuini d’appunti presi camminando, non importa se lungo il Po o in Africa…

Anche per chi non l’ha accompagnato in tutto il suo percorso, la figura di Celati resta legata a quella di Italo Calvino. Due scrittori apparentemente lontani, due modi di scrivere diversi: sommaria, giocosa, dissolutrice, sconclusionata, insomma rumorosa e carnevalesca la prosa di Celati, quanto ordinata, rigorosa, razionale, controllata (anche quando la partecipazione dell’autore si fa evidente) la scrittura di Calvino.
Eppure il legame che unì i due scrittori fu un’amicizia che, nonostante un quindicennio segnasse la differenza fra le loro età, non si può interpretare semplicemente come quella tra discepolo e  maestro. Una consonanza profonda, piuttosto, un desiderio di confronto che si mantenne vivo negli anni: «Quando Calvino – racconta lo stesso Celati – veniva in Italia da Parigi, per andare a lavorare da Einaudi, una settimana al mese, mi telefonava tutti i giorni e ci scambiavamo idee. Io avevo la borsa di studio a Londra e viaggiavo con una macchina scassata: un camion mi aveva tamponato e la portiera mi arrivava fino alla spalla. Ma con quella macchina andavo avanti e indietro una volta ogni tre o quattro mesi e, passando da Parigi, mi fermavo a dormire da Calvino».

Il Meridiano dedicatogli fa di Celati un classico?
“Proprio lui che ha sempre aborrito ogni seriosità e ogni incrostazione narrativa stilistica”?  si chiede Ermanno Cavazzoni (sul Sole24ore di domenica 14 febbraio).
E noi con lui: si possono applicare a Gianni Celati le definizioni che l’amico Calvino coniò per spiegarci che cosa sono i classici?
“D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”: chi ha già preso in mano il Meridiano Celati, non potrà che rispondere di sì. E continuerà ad assentire se proseguirà nell’esperimento: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, “Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso”. Infine, anche chi Celati non l’ha mai letto e solo ora gli si avvicina dovrà ammetterlo: “I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.”

Restiamo a Cavazzoni allora, e al Belpoliti del saggio introduttivo (sì, lo stesso critico che, ospite di Casa della memoria e della nuova libreria Rinascita, ci ha parlato di Primo Levi): “Certo un Meridiano è sempre qualcosa di santificante, diciamo che mette i contemporanei in odore di classicità. (…) Celati è stato un autore decisivo, dice giustamente Belpoliti, figura di riferimento, anche se non appartenente all’esercito regolare delle lettere patrie. Non si è mai atteggiato a maestro, a caposcuola, capo corrente; però ha tirato tanti giovani autori verso la letteratura; con l’esempio di un’attività leggermente ascetica, più che di una professione. Belpoliti la chiama etica; sì, scrivere come atto di devozione…”.

Passeggiando nei «Giardini d’inverno», sulle orme di Calvino. Una lettura dei racconti di Paola Baratto*.

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(* Paola Baratto, Giardini d’inverno, Manni 2014)

Da dove viene il senso di leggerezza – e di conforto, vorrei dire: di quieta fiducia – che ci resta dopo la lettura di questi racconti, come dopo una passeggiata. breve e ristoratrice? Non certo dal fatto che si tratti di una lettura scacciapensieri. E perché conserviamo una simpatia solidale con i personaggi che abbiamo incontrato? Personaggi che sono lontanissimi dai modelli di vincenti che molto spesso ci vengono proposti più o meno esplicitamente come termini di identificazione, e che dichiarano questa loro estraneità sin dai nomi che portano, nomi comuni (Nino, Irma, Bianca, Fausto, Giulia, Adele) o che suonano addirittura un po’ prosaici, fuoricorso (Biagio, Martino, Gabriele), quasi se ne fosse voluto sottolineare la non eccezionalità. Uomini e donne miti, modesti, e tuttavia animati da una ferma consapevolezza della propria diversità e della necessità di proteggerla. Con discrezione. Ecco la parola: sembrano personaggi ritagliati da un libro, recensito da “La Repubblica” qualche mese fa ma non ancora tradotto in italiano: La discrétion, di Pierre Zaoui, pubblicato dalle parigine Édition Autrement. Vi si parla di persone che praticano “una forma felice e necessaria di resistenzan. (…) lontana dalla dissimulazione, dal calcolo prudente, o dalla paura d’esser vista, l’anima discreta offre una giusta presenza al mondo”. La discrezione: “l’esperienza di un tempo modesto che basta a se stesso”. Non una qualità da esibire, né un atteggiamento che possa generalizzarsi, dal momento che si tratta di un andar controcorrente: “la nostra modernità – sostiene Zaoui – non pare caratterizzarsi solo per una lotta sfrenata per il riconoscimento e la visibilità, ma in pari grado per una lotta sotterrane, più calma ma molto tenace, per l’anonimato et l’invisibilità.” Un fare sotterraneo, deciso ma tranquillo, non appariscente: non sono avventure eclatanti quelle che i personaggi di Giardini d’inverno vivono. Vicende, piuttosto, nelle quali si rapprende uno stile di vita in grado di farsi testimonianza che contraddice la banalità dei discorsi e il conformismo dei comportamenti, e per questo suscita timore. Perché “ciò che è banale ha l’unico merito di essere rassicurante”, e ciò che non lo è non solo può inquietare, ma suscitare osservazioni sarcastiche, sdegnose prese di distanza, o addirittura reazioni ostili (la signora che veste “come se fosse sgusciata da una cartolina seppiata degli inizi del Novecento” “non dovrebbero lasciarla andare in giro”, e l’uomo che si costruisce una casa piena di finestre e lucernari, vedrà la sua “casa di vetro” presa a sassate).
Man mano che si procede nella lettura si comincia a sentire una medesima aria circolare fra le pagine dei racconti che si susseguono, un significato che li accomuna, un gioco di rimandi che li tiene saldamente insieme, senza che si ricorra all’espediente ormai collaudato di far incontrare, a un certo punto, tutti i personaggi, come avviene in tanti film, francesi soprattutto. I protagonisti di Giardini d’inverno marciano ognuno per la propria strada. Solo in un paio di casi si incrociano, comparendo uno nel racconto dell’altro ma senza interferire più di tanto. Per il resto, si attengono a una coerenza che ogni inizio di racconto ci presenta come un tratto di lungo periodo, da tempo praticata. Non enunciata, da chi scrive, ma che sta al lettore intuire dai gesti e dalle parole, poche, dei personaggi.
Si tratta di “collezionisti” nei quattro racconti della prima sezione, di sognatori o abitanti di “altrimondi” nella seconda, di ascoltatori attenti della “lingua delle cose mute” nell’ultima. Tutta gente che nello scegliere tra l’avere e l’essere non hanno dubbi. Non occorre possederle le case in cui ci piacerebbe abitare: basta assegnare ad ognuna il mese in cui preferiremmo farlo. E sono del tutto immateriali i pezzi che insegue la collezionista di stagioni, riconoscendole nel suono struggente dei garriti delle rondini, in profumi e odori evanescenti, nella sensazione tattile del velluto di muschio che avvolge il tronco di una pianta: non è la contemplazione della caducità che la donna coltiva, ma proprio il suo opposto. Lei, delle stagioni cerca “quello che non cambia”: nel loro divenire scova l’essere. L’essere di un tempo ciclico, e già questo rappresenta a ben vedere uno scarto, non una contestazione ma uno scostamento netto rispetto al tempo rettilineo che imperativamente ci domina, sin nel profondo.
Così come dilagante e contagioso è l’uso distratto, omologato delle parole: occorre riconoscerne la fisionomia, verificarne la rispondenza con noi stessi, apprezzarne addirittura la carica erotica per farne oggetto di collezione, e in questo modo contrastarne l’usura. Ma è altrettanto possibile e motivato raccogliere invece sassi, uno diverso dall’altro e anche per questo suscettibili di farsi segno della unicità di ognuno di noi, memoria inconfondibile di chi se n’è andato. E’ difficile non ritrovare in questa sensibilità, che ravvede significati umani anche nell’inorganico, una suggestione analoga a quella che doveva aver mosso l’anonimo collezionista di sabbia – sabbia grigia del Balaton, bianchissima del Siam, rossa del Senegal – la cui opera Italo Calvino aveva visto a Parigi (e dove se no… Parigi è punto di riferimento ricorrente nei racconti di cui parliamo). Un collezionista, quello, che è inevitabile sentire fratello della Irma che raccoglie sassi. Un collezionista, spiega Calvino, che “sapeva dove voleva arrivare: forse proprio ad allontanare da sé il frastuono delle sensazioni deformanti e aggressive, il vento confuso del vissuto”.
Ma in fondo non è proprio questo l’orizzonte non solo di Cuore di pietre, ma anche degli altri racconti di Paola Baratto? Non è questo il filo che ne fa un unico romanzo? “Come nelle poesie e nelle canzoni le rime scandiscono il ritmo, così nelle narrazioni in prosa ci sono eventi che rimano fra loro”: è lo stesso Calvino a ricordarcelo in una delle sue Lezioni, quella sulla rapidità.
Senza trascurare altri fili, certamente. Situazioni che tornano e via via si precisano nella ricchezza dei loro significati. Il silenzio innanzitutto. Non un vuoto, tutt’altro, essendo che “se la musica è ordita da innumerevoli combinazioni di note, lo stesso vale per il silenzio” (parole che sembrano quelle di Mario Brunello, nel suo trattatello recentemente dedicato, appunto, al silenzio).
Basta saperlo ascoltare, il silenzio. Sarà allora possibile rendersi conto che “anche il più piccolo frutto maturo possiede un suo relativo fragore, nell’istante in cui spacca la buccia”, e che non c’è “nulla di più variegato e multiforme del tacere degli esseri umani” (mi torna in mente quell’aneddoto dell’incontro fra Borges, ormai cieco, e Calvino, che la reverenza per il maestro rende più taciturno del solito: “L’ho riconosciuto dal suo silenzio”, risponde più tardi Borges a chi gli domanda come ha fatto a capire che fra le persone che erano andate a visitarlo c’era anche lo scrittore italiano).
Il silenzio, parente stretto della trasparenza (“il vetro è trasparente come il silenzio, tutto lo attraversa”), ma anche delle ombre, “quel risvolto inseparabile dai corpi, dalle cose”, presenza silenziosa, “gemello muto” degli esseri viventi. E’ fotografando le ombre dei suoi clienti che Adele ne coglie i sentimenti inespressi, o inconfessabili, così come è guardando attraverso la nebbia che avvolge la sua casa di pianura che Fausto impara a “leggere tra le righe delle frasi dette per calcolo, per compiacenza, per ipocrisia”.
Un altro tratto comune ai protagonisti: la calma, la lentezza. Di fronte ai capolavori pittorici conservati nei musei Bianca – che non è una monaca, ma un’”ispettrice in ambito turistico”, costretta dal suo lavoro “a spostarsi da una città all’altra”- si concedeva d’indugiare”, “si godeva la pausa”, e uscita dal museo amava il “passeggio senza meta”, la flânerie, ma anche il sostare “dietro le vetrine scintillanti d’una brasserie, ch’era poi, ugualmente, una forma di flânerie sedentaria”. E’ questa propensione alla lentezza che le permette di abitare i quadri che ama, di “inoltrarsi dentro una dimensione temporale cristallizzata, esclusa dall’ingranaggio inarrestabile dello scorrere”.
Non solo le opere d’arte, però, rappresentano interlocutori essenziali. Anche le cose suscitano una pietas che sa interpretare la loro “lingua muta”, e fra di esse soprattutto gli “oggetti vecchi, ossidati, opachi” (come capitava a Brecht: “Fra tutti gli oggetti i più cari”, notava, “sono per me quelli usati. Storti agli orli e ammaccati…): “gli utensili dozzinali d’uso quotidiano” per i quali Gabriele sente “una specie di pena” e che esita a buttar via, che raccoglie addirittura quando li vede abbandonati vicino a un cassonetto dei rifiuti, “relitti domestici senza più domus”.
Motivi e atteggiamenti che, si diceva, danno unità ai dodici racconti (solo dodici purtroppo), ma che non si limitano a questo. O meglio: se questo è il loro effetto è perché non sono che gli aspetti di una stessa critica. Una critica che non si vuol argomentare, che resta lontanissima da ogni intento di persuasione e ancor meno di polemica. Si direbbe che l’autrice condivida la propensione di Adele, la “fotografa delle ombre”, che “da qualche tempo disertava la chiarezza e preferiva lasciare ad altri l’incombenza spugnosa delle spiegazioni”. Non è lo sguardo che si accanisce criticamente quello che si è indotti da questa lettura a rivolgere al nostro mondo. E’ invece uno sguardo che sa cogliere qui dove siamo l’altrove di cui avvertiamo un bisogno vitale. Un altrove in cui regnano – ripetiamolo – il silenzio, la trasparenza, le ombre, la lentezza: basta pensarne il contrario e si ricavano, per contrasto, i caratteri del mondo in cui viviamo: il rumore e la chiacchiera, l’ opacità e insieme la luce cruda e abbagliante che illumina le merci (cioè tutto, tendenzialmente), la velocità ossessiva, la non affezione per le cose che usiamo e gettiamo.
Uno sguardo capace dunque di pazienza e fermezza insieme, di spietatezza e dedizione allo stesso tempo. Ma che soprattutto sa rivolgersi sempre indirettamente a ciò che osserva. Allo stesso modo di Perseo, che non posa i suoi occhi “sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo”, in ciò offrendoci “un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione di metodo da seguire scrivendo”: “è sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo – siamo alla Lezione sulla leggerezza adesso – ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello.”
Ecco. Prendere le distanze dalla realtà del mondo è forse il modo (l’unico, oggi?) per non nascondersi l’inevitabilità di portarne il fardello.
Gira e rigira è sempre a Calvino che mi riportano i passi che muovo in questi Giardini d’inverno, a conferma del fatto che “la leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura”, in una scrittura come questa, prova convincente e viva della “funzione esistenziale” che può avere la letteratura quando si fa “reazione al peso del vivere”.
E’ solo a questo punto che quel senso di conforto, e di pacata fiducia, di cui dicevo all’inizio mi si chiarisce, e posso individuarne la fonte: nella voce che trascorre in queste pagine. La voce che con parsimonia i personaggi fanno sentire è la stessa che guida la scrittura di questi racconti. Apparentemente svagata, mai assertiva, e pure decisa nella sua scelta.
Ancora Calvino, quello delle Città invisibili stavolta: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
È questo secondo modo che Paola Baratto ha scelto. Di qui viene la voce che ci ha dato questi sommessi, poetici minima moralia.

Un giallo nella Gavardo del 1238

Recentemente, nel mondo della critica letteraria è emersa l’idea che per ridare vitalità e credibilità a una letteratura sempre meno capace di incidere su un immaginario collettivo colonizzato e omologato dai media sia consigliabile tornare al romanzo storico: strumento, paradossalmente, per catturare l’attenzione di chi vive oggi.
Altri hanno invece ravvisato la stessa potenzialità nel giallo, o nel noir, nel quale ravvisano una sorta di romanzo sociale della nostra epoca.
C’è chi – a volte avvalorando teorie simili, altre semplicemente ascoltando la propria voglia di scrivere, di raccontare – ha fatto convergere i due generi, e ha scritto romanzi gialli ambientati nel passato, ed è E’ Il nome della Rosa di Eco, naturalmente, che viene innanzitutto in mente.
Più recentemente, una novità si può rilevare nel fatto che come protagonista, come detective, si sono scelti personaggi d’eccezione. Niente meno che Aristotele è l’investigatore dei romanzi di Margaret Doody, una scrittrice canadese: alla fine degli anni settanta il paio di racconti che aveva pubblicato avevano avuto così poco successo da indurre la Doody a lasciar perdere, ma nel 1999 i due volumi sono stati ripubblicati in Italia, da Sellerio, riscuotendo grande consenso di pubblico e di conseguenza la scrittrice ha ripreso la serie con nuovi racconti nei quali Aristotele mette la sua logica ferrea al servizio dell’indagine, in ciò assistito da un tale Stefanos, secondo il collaudato schema per cui non c’è uno Sherlock Holmes senza il suo Watson (come del resto nel Nome della rosa).
Seguendo l’esempio della Doody, sia pure con esiti meno brillanti, un’americana, Diane Stuckart, ha fatto indossare l’abito del detective a Leonardo da Vinci.
Albertano da Brescia. Magistrato e uomo di lettere, non ha certo la statura di Aristotele o di Leonardo, ma l’avergli assegnato attitudini e capacità di investigatore collocano in questo filone un recente romanzo di Enrico Giustacchini (Il giudice Albertano e il caso della fanciulla che sembrava in croce, Brescia, Liberedizioni, 2014), che tuttavia può vantare tratti indubbi di originalità rispetto ad altre prove del genere.
A partire dalla decisione dell’autore di non tenere per sé la natura dei documenti che gli hanno permesso di ideare la sua storia: due registri d’inventario della Mensa vescovile che danno la possibilità di restituire la fisionomia dei luoghi e dei loro abitanti. Di restituirla ma, allo stesso tempo, anche di immaginarla, perché dei documenti l’autore di romanzi storici si deve liberare, dopo essersene servito. Deve immaginare, appunto, pur sempre entro i confini del verosimile, e l’occuparsi di un’epoca come quella medievale di sicuro favorisce questo rapporto col documento: ce lo ha ben spiegato uno storico come Georges Duby, che nel suo Il sogno della storia dichiarava apertamente come la ricostruzione storica sia frutto anche di immaginazione e come l’immaginazione possa dare il suo contributo essenziale quanto più i documenti sono scarsi, lacunosi. Se questo è vero per lo storico rigoroso lo è tanto più per il romanziere, libero di forzare il documento e di colmare vuoti.
Giustacchini non vuole però abusare di questa libertà, o meglio: ne vuole rendere esplicite le condizioni, e i limiti. E dunque – avverte nell’introduzione – “coloro che lo desiderano potranno fruire, in appendice al volume, di un repertorio di notizie, citazioni, rimandi” con “la raccomandazione di accostarvisi però solo dopo aver terminato il romanzo”. Perché è appunto la logica del romanzo che deve prevalere, con tutti i suoi artifici. Artifici che l’autore usa con padronanza, mostrando in primo luogo la capacità di entrare nella testa del protagonista e di far conoscere al lettore i suoi pensieri ricorrendo all’espediente di introdurre un altro personaggio, sapendo che questo dovrà però essere all’altezza del protagonista, un intellettuale, per cui quest’altro personaggio dovrà possedere gli strumenti per capirlo e se del caso contraddirlo. Ecco allora Berengario (non a caso, un medico: come Watson, anche se lo schema della coppia genio dell’indagine-compagno che gli fa da spalla in questo romanzo non risulta dominante).
E come dire del contesto, della scena che fa da sfondo agli avvenimenti e ai discorsi dei personaggi? Usando il punto di vista di questi ultimi, mettendo in bocca a loro i cenni descrittivi, attribuendo a loro il compito essenziale di farli vedere, i luoghi, e non arrogandosi il privilegio scontato, e stucchevole, del narratore onnisciente. E le vicende storiche pregresse: come renderne conto? Spesso nei romanzi storici il raccontarle crea uno stacco sgradevole, un cambio di registro che fa venir voglia di saltare qualche pagina per ritrovare lo svolgersi della trama vera e propria. L’alternativa, scelta da Giustacchini, sta in brevi flashback, introdotti sempre in modo motivato laddove la trama lo richiede ( “L’imperatore, Albertano l’aveva visto una volta sola (…) era avvenuto a Bologna”, e poi, a due pagine di distanza: “Diciott’anni dopo, Albertano si chiedeva se avrebbe rivisto Federico”). Flashback – analessi – ma anche prolessi, anticipazioni: “Albertano meditava di scrivere un libro sul tema della consolazione e del perdono”, quel Liber consolationis che non a caso sarà un “trattato morale ma insieme il racconto di un delitto”. Lo stesso libro di cui l’autore costella il racconto con brevi estratti che marcano le tappe salienti della storia. Che segnano il testo di rimandi a un ipertesto, si potrebbe dire.
Ma veniamo al protagonista, Albertano. Conosciuto come uomo dall’intelligenza e dall’acume proverbiali, non smania tuttavia per mettersi a far ricerche e non sembra entusiasta di doversi occupare di un delitto. Se si lascia convincere dal gastaldo ad occuparsi del caso della morte di Jacoma è perché la ragazza, brevemente incontrata, l’aveva affascinato ricordandogli, con la sua bellezza e il suo profumo, “la stagione vibrante della gioventù”. Del detective ha comunque la stoffa. Ne ha l’intuizione (“Hai mentito, caro il mio ragazzo”, dice fra sé dopo aver ascoltato uno dei personaggi, Lucio Frere), ma ha anche l’atteggiamento che conosciamo ad altri investigatori: non a Holmes, ma piuttosto a un Maigret: Albertano lascia che nella sua anima “(si insinuino) mille e mille dubbi” e non disdegna affatto ma accoglie come un dono il fatto che l’intuizione gli venga da un sogno, un dono che Albertano sembra voglia lasciar libero il lettore di stabilire se venga dal buon Dio, come provvidenziale illuminazione, o dal lavorio di una mente raziocinante.
Oltre a questi, il protagonista è contraddistinto da tratti che si intuisce condivisi dall’autore: il disincanto per esempio, che si manifesta nel modo di fare di Albertano, ma anche nei suoi pensieri più profondi (“tutto ha un fine e tutto finirà. Il tempo perderà il suo significato e tra la vita effimera di una lucciola e quella del firmamento, proseguita immutabile dal quarto giorno della creazione, non vi sarà più differenza”). Non si tratta di una questione di poco conto: un personaggio è vivo e credibile quando l’autore in certa misura gli aderisce. L’identificazione dello scrittore col suo personaggio è condizione dell’identificazione e quindi del piacere del lettore, fatto anche e forse soprattutto di risonanze fra sé e quel che legge. Ed ecco allora, oltre al disincanto, la sobrietà dell’espressione (carattere decisivo in un uomo che avrebbe scritto un’opera intitolata De arte loquendi et tacendi). Una sobrietà che fa tutt’uno con una razionalità non fredda, sillogistica (come quella di Holmes), ma fatta di comprensione degli altri. Una razionalità che ammette piccole abitudini che di razionale hanno poco (mi chiedo se anche l’autore abbia l’abitudine di scarabocchiare i margini dei libri che legge con disegnini fanciulleschi come faceva Albertano e molti di noi fanno).
E infine, un altro tratto distintivo, che costituisce un carattere di fondo di questo romanzo: una certa fiducia, negli uomini, in generale, e dunque anche nella capacità del lettore di accostarsi e di gustare una vicenda non semplicemente complicata nell’intreccio ma, anche, densa di rimandi culturali: l’alchimia, ad esempio, o la complessa rete di allegorie che caratterizzava il pensiero medievale, anche queste introdotte senza cadere nel didascalico ma come riferimenti necessari alla svolgersi della trama e introdotti con naturalezza attraverso il dialogo dei personaggi.

Se potessi scriverti ogni giorno

Emma e Giulio Turchi, Se potessi scriverti ogni giorno. Lettere 1927-1943, a cura di Gianfranco Porta, Roma, Donzelli Editore, 2013
(Questo testo è apparso sul Corriere della Sera – Brescia martedì 3 dicembre 2013)

Più di mille lettere, intercorse dal 1925 al 1943 fra Giulio Turchi, carcerato e poi condannato al confino, e la moglie Emma.  Una scelta delle parti più significative di questi scritti – insieme a fotografie che accompagnano il testo e sono testo a loro volta, come nelle opere di Sebald – è confluita in Se potessi scriverti ogni giorno, un libro curato da Gianfranco Porta per Donzelli. Studioso della storia del movimento operaio bresciano e dei militanti della Sinistra, Porta aveva già ricostruito le vicende di altre figure di bresciani caduti vittima dell’apparato repressivo del regime – come Domenico Viotto, Antonio Forini, Oscar e Gino Abbiati – fino a individuare  nell’esperienza del confino un terreno di indagine privilegiato. Un’indagine attualmente giunta alla fase del bilancio finale, della scrittura di un saggio impegnativo che leggeremo fra non molto, ma che intanto ha prodotto questo risultato: alla lettura del fascicolo riguardante Giulio Turchi sono seguiti il contatto e poi la collaborazione con la figlia Gioia, custode delle carte delle lettere dei genitori. Un carteggio che si discosta da quelli già conosciuti, i cui autori sono nella maggior parte degli intellettuali. Giulio è invece un operaio, comunista, ed Emma una sarta che non ha finito le elementari. Quando gli viene tolta la libertà lui ha 25 anni, lei 20. Si sono sposati meno di un anno prima. Da quel momento, l’aprile del’27, scriversi rappresenterà per anni l’unico tramite che rende possibile non semplicemente la tenuta del loro rapporto, ma anche l’approfondirsi di  un “dialogo in cui – sottolinea il curatore – si parla dell’amore e della solitudine, del ricordo e della speranza, del dolore e della felicità”.
Non solo un libro per i cultori della ricerca storica dunque, ma un documento che può esser letto come testimonianza di una lunga vicenda d’amore. Un romanzo epistolare che, fin dal modo in cui il protagonista si rivolge alla compagna, richiama altri carteggi: “dolcissima amica”, “mia anima seconda”, “la mia buona piccola mammina, mia buona amica, sorella, la mia tutto”, oggetto di un amore “da fratello da compagno e da tutto”. Come non essere tentati di lasciar correre il pensiero a uno dei più intensi fra gli scambi epistolari fra amanti, quello in cui Eloisa scrive “al suo signore, anzi padre, al suo sposo, anzi fratello”, dichiarandosi “la sua sposa, anzi sorella”, e Abelardo le risponde chiamandola sua “inseparabile compagna”? Coniugi condannati a vivere lontani anche quelli, costretti ad affidarsi alle lettere per “dividere ogni dolore e ogni gioia” proprio come Giulio ed Emma, che nei loro messaggi cercano “un po’ di requie per l’animo esulcerato” e la conferma che i loro “pensieri si incontrano”, trovandovi fin l’illusione di un contatto fisico: “quella carta è stata in mano a te, quelle righe sono state vergate dalla tua mano e nel vederle vedo tutto questo”.
L’amore come dimensione ideale, dunque? come fuga dalle traversie e dalle sofferenze? Non è questo il caso: al senso concreto della quotidianità che contraddistingue Emma, alla sua attenzione alle necessità che prosaicamente la vita pone, tanto più a chi deve sopportare le privazioni, anche materiali, che la segregazione comporta, fanno riscontro in Giulio la coscienza orgogliosa della propria integrità morale e una capacità di autocontrollo che potrebbero ridurne il profilo a quello stereotipato del militante trincerato nella sua fede. Sennonché, ci troviamo di fronte a un uomo per il quale la domanda su “come vivere la vita è una questione che (…) occupa ogni giorno parte del (suo) tempo”. Lungi dal dolersi di questa sua attitudine problematica, spesso malinconica, Giulio, memore della lezione del materialismo storico, se ne fa una ragione: “le vicende della mia vita mi hanno modellato così”. Ma la tendenza a considerare da un punto di vista filosofico le avversità  e la sofferenza attinge a un orizzonte più vasto, ora caratterizzato da motivi stoici ora da convinzioni che richiamano da vicino i toni della filosofia dell’esistenza: “non poteva trattarsi per me di andare alla ricerca del vero senso della vita per poi uniformarvi la mia, ma (…) di dare alla mia vita uno scopo, per (…) evitare così di farmi soffocare dalla noia e dalla stanchezza.” Non è dunque per far trionfare un senso certo del mondo che quest’uomo ha conformato la sua esistenza alla militanza e alle sue possibili drammatiche conseguenze, ma proprio a partire dal non senso: non sono generosità, altruismo, fiducia infallibile ad animare quest’uomo, non è un eccesso di vita che l’ha motivato e continua a sostenerlo, ma una mancanza, da lui avvertita come tratto che lo distingue dagli altri, cifra non della sua eccezionalità ma della sua unicità. Della sua solitudine, anche. Un senso di separatezza che l’ininterrotto colloquio con una persona, con cui si è resa possibile “una fusione affettiva e totale degli animi”, ha saputo orientare, illuminare di un significato.

Emma Forconi alla fine degli anni Venti
Giulio Turchi alla fine degli anni Venti
Emma e Giulio finalmente insieme nell’agosto del ’43