Una scrittura capace di trasmettere sentimenti universali

Donatella Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, elliot 2011

La assiste, la porta alle visite di controllo – anche se lo sa: servono soprattutto a lei, perché la rassicurano – e nel complesso può ritenersi “una figlia sufficientemente buona”.

La celebre definizione di Winnicott riguardava la madre che possiede la capacità di accudire il suo bambino e – al di là delle sue intenzioni – non fargli dentro il vuoto che altrimenti quello si porterà dietro tutta la vita. Ma i ruoli si invertono: ora è alla figlia che spetta il compito di curare la madre: ci riesce? A suo modo, in qualche modo. Come tutti quelli che hanno vissuto l’esperienza di accompagnare i genitori nell’ultimo tratto della loro vita, e ne sono usciti stremati, ma soprattutto insoddisfatti, frustrati se non addirittura gravati di rimorsi: per non aver fatto tutto quello che andava fatto; per non aver fatto abbastanza avendo già mentre lo facevano questa sensazione di insufficienza, o di inadeguatezza; per non aver donato tutto il tempo possibile  a chi forse non chiedeva molto di più, in fondo (“odio il tempo che mi costa”, confessa la figlia, voce narrante di questo romanzo). Tutta la storia di una relazione – una relazione primaria, che non appartiene e non apparterrà mai al passato – precipita in quei mesi, in quelle settimane finali, portandosi dietro tutto. Tutto quello che l’ha definita sin dai primi momenti dopo la nascita, e poi nell’infanzia, nell’adolescenza, nella prima giovinezza. Ed è allora un bilancio inevitabile quello che alla fine si impone, e può essere un bilancio drammaticamente negativo: “Il nostro amore è andato storto, subito.” Perché? Perché la madre non ha potuto essere una madre sufficientemente buona, si potrebbe sintetizzare: “Era troppo educata al sacrificio per permettersi il piacere di stare con la sua creatura. (…) Lei mi amava, ma aveva altro da fare. Lavorava, per sua figlia. Non venivo prima nei suoi pensieri e non l’ho sopportato. Da grande mi sono appellata alla sua storia, ma non ci ho creduto abbastanza. Doveva disubbidire, per me, amarmi contro tutti.”
Con questa “madre inaccessibile, separata, non per disamore, per fretta, quest’altra forma del disamore” la figlia vuole, deve fare i conti che da sempre si proponeva, e sempre ha rimandato, fino al momento in cui lei, la madre, “è sfuggita nella malattia”, in una condizione nella quale “i conti non si chiudono mai”.  

È questa consapevolezza a guidare la narrazione, una narrazione che sa dare respiro storico, sfondo collettivo, alla vicenda materna che ha segnato la figlia: tornano alla mente le pagine che un’altra scrittrice, Annie Ernaux, soprattutto quella di Una vita di donna (Guanda, 1987), anche lei alle prese con la demenza della madre (“Non volevo che ritornasse bambina. Non ne aveva il «diritto»”). Non fosse che la confidenza, con il corpo bsognoso di cure della madre, che là si riscontra, resta nelle pagine di questo romanzo una dimensione penosamente irraggiungibile: “mi tocca la gamba all’improvviso e parla di questa mia gonna così morbida. (…) Soffro il contatto, avverto il disturbo. Controllo la reazione. Cerco di sembrarle disponibile ma non mi credo, sono rigida. Dove posa il palmo, la pelle scotta sotto il tessuto.”

Provando a spiegare le ragioni del successo del suo ultimo romanzo, L’arminuta (recente vincitore del Campiello, di cui questi appunti si sono occupati lo scorso 14 maggio), Di Pietrantonio – che sarà con noi in libreria il prossimo 10 novembre – ne rintraccia il motivo nei “temi universali che tratta”. La vicenda è quella di un abbandono drammatico, infatti, ma anche chi non ne ha subito uno tanto grave “può immedesimarsi nell’Arminuta”. E’ forse questo il filo che lega questo romanzo al primo, quello d’esordio: la capacità, guadagnata attraverso  la scrittura scarna che li caratterizza, di rendere condivisibili stati d’animo nati da vicende apparentemente lontane dall’esperienza di chi legge. Nell’Arminuta, il senso dell’abbandono; in Mia madre è un fiume, il senso di una problematicità irrisolvibile e bruciante che il rapporto con la propria madre lascia nella figlia.
Una problematicità alla quale anche chi è figlio, leggendo queste pagine, si sente tutt’altro che estraneo.

Il corpo, la vita, la scrittura

Mariagrazia Fontana, Il tempo raggiunto, secondorizzonte e Liberedizioni (pp. 280, euro 16)

Misurarsi con il proprio corpo, i segni che ne giungono, le paure e i desideri che indistintamente esprime, nell’esperienza della malattia come nella pratica della corsa.

Soccorrere quello ferito e sofferente – tanto più da interpretare nel suo muto linguaggio  se chi ricorre alle cure è straniero – nell’esercizio del proprio lavoro, un lavoro – l’autrice è chirurga, presso l’Ospedale Civile – che non si lascia mai ridurre al protocollo né alla semplice procedura tecnica dell’intervento; confrontarsi con il corpo  che attraversa le età della vita, nella relazione, densa di ricordi e significati sedimentati, con la madre che invecchia, così come in quella sempre in via di nuova definizione e anche per questo rigenerante con le figlie che, da bambine che erano, sono già donne.
Sono queste le coordinate principali entro cui si delinea il corso di un’esistenza che per dirsi non ricorre al romanzo autobiografico ma a una sequenza di racconti che rimandano  uno all’altro in una medesima trama, entro l’orizzonte aperto di un tempo che solo la scrittura sa raggiungere. Una scrittura che sa aspettare in solitudine le parole che, sfuggendo all’inflazione e al brusio assordante delle molte che si pronunciano, sanno conservare traccia dei giorni, e far uscire dallo spazio del silenzio la voce che può tenere in vita la vita, nella sua unità profonda.
Come la pratica della corsa è seguita alla malattia, nascendo dalla “pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci”, così la scrittura trova radice nel corpo: “Corsa e scrittura emergono dallo stesso magma profondo, alle volte oscuro, torbido, alle volte limpido e lieve. (…) Certi giorni la scrittura viene fluida, la penna corre da sola sulle righe e le parole corrispondono perfettamente a ciò che sento necessario dire. Altri giorni ricado nella scrittura analitica, indagatrice, anatomica. (…) Quando finisco in questo vortice sento la fatica, e ora ho imparato che devo lasciare, deporre la penna e infilare le scarpette. Nei giorni fortunati la corsa fa pulizia, opera una spoliazione, mi libera dalla verbosità. So che, quando spreco troppe parole, non ho chiaro ciò che va detto o obbedisco ad un vizio antico che mi allontana dalla verità.
Quando la corsa fa il suo lavoro, ricevo il grande dono dell’intuizione. Mentre sudo in salita, mi si spalanca davanti quella verità che mi aveva messa davanti al quaderno e dalla quale mi ero lasciata sviare. Limpida, pura, perfettamente ripulita dalle parole in eccesso, dalle parole viziate.”

1917-2017: un anniversario per riflettere sull’oggi

Rita di Leo, L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse 2012 (pp. 178, euro 10)

Se si è dell’idea che gli anniversari servono a riflettere sull’oggi, a cento anni dalla Rivoluzione d’ottobre non si può ignorare il libro che Rita di Leo ha pubblicato cinque anni fa.

Da decenni studiosa dell’Urss, autrice di libri fondamentali di analisi storico-politica nati dalla conoscenza continuamente aggiornata  della letteratura internazionale sull’argomento, da viaggi in Unione Sovietica e dal racconto di testimoni diretti dell’evoluzione del paese, di Leo offre nell’Esperimento profano (dopo quelli “sacri” tentati da gesuiti e quaccheri nell’America del 6-700) gli strumenti essenziali per comprendere le tappe essenziali di una storia che continua a riguardarci. Una lettura che va al cuore della “guerra di classe sovietica” concentrandosi sul ruolo attribuito agli operai e agli intellettuali (non tanto i grandi dissidenti che conosciamo, quanto i professionisti, i tecnici, gli insegnanti). Un ruolo centrale con Lenin (nel ’24 “imbalsamato con le sue convinzioni”), ma da Stalin in poi di fatto subordinato, fino agli anni di Gorbachev, quando infine lo strato degli intellettuali (mai riconosciuti come classe, come gli operai e i contadini) prese “la propria vendetta sul «lavoro produttivo», che tornò al fondo della scala sociale”. Non solo l'”operaismo” di Stalin” e il “populismo” di Khrushchev, ma anche la svolta impressa dall’ultimo segretario del Pcus trova in queste pagine una messa a punto rigorosa, che toglie di mezzo giudizi contraddittori e ideologici nel rilevare quel che intanto s’era davvero affermato: la convinzione che il ruolo decisivo era ormai giocato dall’economia e non dalla politica, e dunque “l’obiettivo prioritario non stava tanto nel creare una società diversa quanto nel crescere più del capitalismo”. La crisi decisiva che si era consumata era quella della “politica-progetto”: screditata e battuta nella sua versione “estrema” in Urss ma parallelamente in quella “ridotta” della socialdemocrazie europee. E’ qui che la ricostruzione e l’analisi storica si fa discorso del presente: nel sottolineare come la “vittoria” dell’Occidente capitalistico sull'”esperimento” – sprofondato nelle proprie contraddizioni e imploso nello sdoppiamento fra un partito sempre più debole nel suo ruolo di pianificatore e una società ormai dominata dal mercato, sia pure sommerso – ha coinciso con “una grande vendetta nei confronti degli operai” perpetrata, ben oltre i confini dell’Urss, grazie alla globalizzazione del mercato del lavoro. E insieme agli operai sono gli intellettuali critici ad essere sostanzialmente scomparsi: la fine dell'”esperimento” sovietico ha screditato la cultura europea – dall’illuminismo alla socialdemocrazia otto-novecentesca – da cui aveva preso le mosse, e asservito gli intellettuali che ne erano stati rappresentanti e innovatori. “L’intellettuale europeo che nel passato studiava il potere per cambiare «lo stato presente delle cose», si è convinto del proprio ruolo di servizio e sembra non voglia avere idee altre da quelle per cui è ingaggiato e retribuito”.

Ne deriva che “L’antagonismo sopravvissuto è individuale, l’intellettuale [critico] si rifugia nei monasteri, come fossimo tornati all’anno 1000”.
“Politica e progetto – questa la conclusione, che il caso cinese di certo non corregge – sono diventati termini in disuso. Per chi vuole risalire la china c’è solo il principio speranza.”

La dignità per invecchiare in questi tempi

Marco Aime, Luca Borzani, Invecchiano solo gli altri, Einaudi 2017 (pp. 123, euro 13)

Lidia Ravera, Il terzo tempo, Bompiani 2017 (pp. 495, euro 19)

“Dilagante senescenza” delle nostre società come dato di fondo, destinato ad assumere un ruolo centrale nel XXI secolo, quanto il riscaldamento climatico e le migrazioni.

Questione che non solo la politica ma anche la cultura diffusa, vecchi compresi, tendono a rimandare, nel caso migliore. A rimuovere, di fatto. La de Beauvoir della Terza età, l’Améry di Rivolta e rassegnazione, il Bobbio di De senectute, fino allo Zagrebelski di Senza Adulti  e al Celli di Generazione tradita, sono solo alcuni degli autori delle cui riflessioni Aime e Borzani fanno tesoro, per introdurre tuttavia un dato di novità rispetto alla letteratura sull’invecchiare e la condizione degli anziani, il giovanilismo che il mercato incoraggia e la solitudine disperata dei vecchi che non possono proporsi come consumatori.
Non solo occorre aver presente che non si può parlare dei vecchi senza dire dei giovani, ma soprattutto – qui l’elemento principale di interesse del saggio – è necessario calare il discorso nella realtà attuale, mettendo al centro dell’attenzione chi è vecchio oggi e quali rapporti intrattiene con chi è giovane, oggi. Ed ecco allora una sottolineatura decisiva: “La generazione che si è riconosciuta come giovane, che ha riempito le piazze e occupato scuole e università in nome della rottura con la società dei padri, fa ora i conti con la propria vecchiaia. E lo fa nascondendola, non guardandola, cercando di restare comunque attaccata alla scena.” I vecchi di oggi – citando Celli: “Eroici  nel Sessantotto, fiaccati negli anni Settanta dal susseguirsi di aborti rivoluzionari, tanto sanguinosi quanto velleitari, arresi negli anni Ottanta a un benessere compensativo” –  non hanno fatto davvero i conti con il loro passato e hanno invece “creato un’epica autocommemorativa e lasciato poco spazio a chi è venuto dopo”. “La mia generazione e quelle successive – afferma Alessandro Bertante, nato nel ’69, in Contro il ’68 (Agenzia X, Milano 2007) – formatesi culturalmente negli anni Ottanta e Novanta, gravate di questo fardello e soffocate dall’abbraccio di padri che si rifiutano di invecchiare e temono di perdere il loro presunto primato intellettuale, non sono state capaci di un rigenerante conflitto anagrafico”.
Ma non si tratta solo di attaccamento a idee, miti, comportamenti vissuti quando erano giovani a impedire ai vecchi che si formarono a cavallo fra i Sessanta e i Settanta di costruirsi un’immagine corrispondente alla loro età effettiva. Chi invecchia oggi non può più contare su modelli del passato, perché le età dell’uomo sono diventate oggi più numerose e articolate: si è tardo-adulti e poi  giovani-vecchi prima di essere considerati e potersi considerare vecchi davvero. Le immagini propagandate dal mercato finiscono per essere introiettate, almeno nelle fasce sufficientemente abbienti della popolazione anziana.
Se, in conclusione, sono da un lato necessarie politiche che affrontino il grande tema dell’invecchiamento delle nostre società non in termini esclusivamente assistenziali e diretti solo a mitigare i disagi delle fasi ultime della vecchiaia, dall’altro sono gli anziani stessi a doversi “ricollocare nel proprio tempo e a misurarsi con gli scenari del mutamento accelerato e dell’incertezza”, a dover acquisire la consapevolezza che “è nel riconoscimento e non nel nascondimento, nel convivere con il limite e non nel riciclaggio, che possiamo trovare, anche individualmente, la dignità per invecchiare in questi tempi.”

“Una Woodstock geriatrica?” domanda ironico il figlio alla madre sessantaquatrenne che si ripropone di riunire in una comune i compagni con cui aveva convissuto quando di anni non ne aveva ancora venti: “La gente cambia, mamma. Tu sei rimasta identica perché sei piuttosto concentrata su te stessa. E’ stato il tuo tasso di narcisimo a conservarti”.
Ecco: Costanza, la protagonista del romanzo di Lidia Ravera è per molti aspetti la rappresentante di chi, giovane negli anni settanta, non lo è più oggi. Anche se Costanza non è affatto portata a rimuovere la vecchiaia incipiente: giudizi impietosi, battute fulminanti attraversano le pagine a manifestare un’autoironia sempre all’erta, quasi assillante (nessuno può ironizzare su di me e sulla mia età: l’ho già fatto io…). E l’autrice sembra consapevole di questo suo atteggiamento se fa ammettere al suo personaggio che il suo umorismo “sa di fiele”. Si ritiene comunque un'”antropologa della vecchiaia”, che cura con gusto e intelligenza la rubrica online Vecchiaia, istruzioni per l’uso. Senonché, non le basta: vuole rimettere insieme la comune, appunto. Nonostante lo scetticismo di certe amiche: “Mi fa tenerezza la tua pervicacia – le dice una di queste – la testardaggine con cui hai coltivato in tutto questo tempo il mito degli anni settanta. I tuoi, naturalmente. Non gli anni settanta come sono stati. La tua versione dolcificata. (…) Una rivoluzione senza spargimento di sangue”.
Eh sì, gli anni settanta, a quanto pare, non tramontano per chi li ha vissuti e magari non ha più smesso di “confondere la sinistra con l’età delle illusioni (…) quando ci facevamo carico dei mali del mondo come se ne conoscessimola cura, con l’altruismo distratto di chi può sperperare il suo tempo”.
C’è molto di più, in questo romanzo, ma tener presente la chiave che Aime e Borzani ci hanno suggerito è senz’altro uno dei modi per leggerlo.

Un apologo grottesco e tenero

Yu Hua, Il settimo giorno, Feltrinelli 2017 (pp. 189, euro 16)

Le diseguaglianze non scompaiono neanche dopo che si è morti.

Il protagonista, in attesa della propria cremazione, non può sedere sulle poltrone riservate ai vip defunti, ma il sindaco, appena deceduto, ha la precedenza sui ricconi anch’essi in attesa. Perché, nella Cina di oggi, pur dominata dal mercato e conquistata dalla ricchezza, il potere dei burocrati di partito e dei funzionari  pubblici ha ancora la meglio.
Morire si muore, ma occorrono i soldi per la cremazione e poi per la tomba, altrimenti si è costretti a vagare sul confine tra la vita e la morte, dopo esistenze vissute in una società competitiva, in cui una moglie può lasciare il marito per un altro che le garantisce la carriera, o una fidanzata suicidarsi perché perché quello che il compagno dopo molte insistenze le ha regalato è un iPhone tarocco.  Una società in cui l’accesso alle cure è costoso e difficile, i prezzi degli immobili conoscono impennate che tagliano fuori la gran parte della popolazione, l’informazione è distorta, i neonati eliminati – secondo i dettami della politica del figlio unico – sono gettati nel fiume come “rifiuti ospedalieri” e l’unico cibo non è adulterato è quello che viene servito ai banchetti di Stato.

Una denuncia del sistema cinese, dunque? Anche, e delle più caustiche, ma non solo. Radicale e disincantata, la critica che percorre questo libro, incarnandosi in storie e personaggi che vivono situazioni paradossali, ricorda certe pagine di Swift ma lascia emergere, in contrappunto, uno sguardo pur sempre ironico ma pieno di pietas nei confronti di vite inconsapevoli e smarrite e tuttavia capaci ancora di amore. Dell’amore disinteressato di un padre per caso, un ferroviere che adotta il bambino trovato fra i binari e lo cresce, dando vita a una vicenda dal sapore cechoviano. Ma è soprattutto dopo, in un aldilà dove non esiste più la solitudine, e tutti sono buoni con tutti, che appare chiaro come si stia meglio da morti che da vivi. Anche perché, divisi da invidie e disamori nell’aldiquà, passata la soglia tutti si ritrovano: amici sinceri, parenti solleciti, amanti appassionati.
Il tutto narrato non ricorrendo alla corrosività della satira, ma con la grazia e la leggerezza di un apologo grottesco.

Un’infelicità vissuta con parsimonia

Alberto Schiavone, Ogni spazio felice, Guanda 2017 (pp. 239, euro 16)

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”.

“Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Sembrano impersonare i due modi descritti da Italo Calvino per far fronte al dolore e alla disperazione, i protagonisti di questo romanzo.
Ada non solo è caduta nell’alcolismo, nella sciatteria, fino all’abbrutimento che non lascia più intravedere la dignitosa insegnante che è stata, ma si è anche lasciata alle spalle le buone maniere e il politicamente corretto: dà della testa di cazzo a molti e manda affanculo tutti, estranea al mondo, irreparabilmente distante dagli altri. Amedeo no, anche da pensionato è rimasto l’“omino leggero” che è sempre stato, uno di quegli uomini che temono il giudizio degli altri: ha “paura di tutto” e non è “sicuro di niente”. Eppure, vive la propria infelicità “con parsimonia”, e non si chiude al mondo: si guarda attorno e da quel che vede e ascolta ricava raccontini, che non scrive, ma narra a se stesso, mentalmente. E così passa dieci, dodici minuti. Non devono durare di più, non farebbero per lui. Non si sottrae alla miseria e al degrado domestici, ma sa distinguere “ogni spazio felice”, per esempio quello in cui si svolge l’esistenza degli animali, che  “vivono nel presente” e “non conoscono il rancore, il ricatto, l’impotenza”, che sono invece esperienza d’ogni giorno per lui. Complice, di fatto, dell’abiezione della moglie, che a malincuore provvede a rifornire quotidianamente di bottiglie e sigarette e s’accontenta di disapprovare sommessamente, di riprendere con cautela. Una complicità, la loro, nata da un comune dolore, la disgrazia che s’è portata via uno dei due figli adottati, il maschio, e ha annientato lei mentre lui è riuscito ad affrontarla, avendo a fianco la figlia, Sonia: “Spettatori storditi. Poi famigliari attenti. Delusi. Arrabbiati. (…) Amedeo e Sonia soli davanti a un fallimento. Di loro tutti. E allora l’impegno di esserci, stare lì, resistere alla tentazione di scappare e lasciare tutto. L’alcol di Ada è il loro stesso  fiume. Ci sono immersi…”.
Sullo sfondo, la Storia: la marcia dei quarantamila della Fiat a Torino, dove “con grande anticipo finiva il Novecento”, senza che ci si potesse render conto della portata dell’evento, “perché l’impegno di vivere non permette di capire”.  E neanche i privilegiati, del resto, sono consapevoli del fatto che quello in cui vivono “è un mondo sempre più uguale, in cui la parte ricca, colta, prova ad arroccarsi laddove ancora si riconosce e non si mischia con i barbari o gli esclusi”, ma “non capisce che verrà rasa al suolo”.

Una storia triste in un mondo triste, dunque. Che se troverà un motivo di riscatto lo troverà nella pietas di Amedeo, nel suo desiderio di risollevare la moglie dalla rovina che persegue con determinazione, di aiutare la figlia nelle sue improbabili e sofferte esperienze sentimentali. E’ la lingua asciutta, il periodare limpido dell’autore, la costruzione nitida in cui si dispongono gli avvenimenti in sequenze di fotogrammi, a impedire che arriviamo in fondo senza mai avvertire il sapore sgradevole del patetismo. Ma lo dobbiamo anche a lui, ad Amedeo, con il suo antieroico arrabattarsi, la sua sostanziale pulizia morale, la capacità di conservare  un nativo spirito di umana curiosità, e di comprensione intelligente: più lo si segue e più si ha l’impressione che la sua richiami un’altra figura, e – pur nella diversità d’ambienti in cui le vicende sono calate  e nella differenza di cultura che connota i due personaggi –  è quella di Stoner, il protagonista dell’omonimo fortunato romanzo di John Williams, cui alla fine ci sentiamo di accostarla. 

La negazione del pessimismo non implica l’ottimismo

Ulrich Beck, La metamorfosi del mondo, Laterza 2017 (pp. 227, euro 16)

Cercar di capire perché non capiamo più il mondo: nel suo ultimo libro Ulrich Beck – morto prima di finirlo, all’inizio del 2015 – invita a smettere di pensare gli avvenimenti attuali attraverso la categoria del cambiamento, nel quale, per radicale che sia, qualcosa resta comunque uguale, e nella discontinuità è possibile rinvenire elementi di continuità.

L’ottica nella quale dobbiamo porci è invece quella della metamorfosi: “una trasformazione molto più radicale, in cui le vecchie certezze della società moderna vengono meno e nasce qualcosa di totalmente nuovo”. Allo stesso modo, dobbiamo riconoscere che al programma “idealista” del cosmopolitismo è subentrata una realtà, quella della cosmopolitizzazione, in cui anche chi vive nel più completo isolamento è coinvolto in dinamiche globali.
Al di là dei discorsi di metodo, Beck non esita  – a tratti con un piglio consapevolmente spiazzante, se non provocatorio – a sostenere che nel cambiamento climatico, l’esempio più lampante della metamorfosi in corso, non possiamo attardarci a vedere solo la possibilità di un esito catastrofico: dobbiamo saper vedere anche possibili, positivi “nuovi inizi”, riassumibili nella dilagante – secondo l’autore – presa di coscienza che dalla Dichiarazione di indipendenza è ormai tempo di passare a una Dichiarazione di interdipendenza. Lo stesso capitalismo, di per sé “suicida”, conosce inediti momenti di “riflessività”, che si esprimono nell’apertura a orizzonti di più lungo periodo sia in uomini d’affari che in economisti ortodossi, finora attestati sulla linea di una indefettibile – non importa quanto ideologica – fede nel progresso.
Ma attenzione: questa crescente presa di coscienza è essa stessa un aspetto della metamorfosi e ne condivide dunque la natura: non realizzazione di un programma etico e politico ma accadimento, dato di fatto in evoluzione rapidissima, frutto non di una solidarietà globale ma di una sorta di “cosmopolitismo egoista”.
E’ inevitabile, per il lettore, avvertire in certe pagine un implicito richiamo a interpretazioni che di nuovo hanno ben poco: l’hegeliana “astuzia della ragione”, o un’indefinita “mano invisibile” (della metamorfosi?), sembrano minare l’appello al rinnovamento della nostra mentalità e dei nostri strumenti di analisi della realtà. Senonché l’autore sembra consapevole di questa possibile deriva, ma è con Ernst Bloch e il suo “principio speranza” che ammette se mai un'”affinità”, soprattutto quando sottolinea i pericoli che anche il pensiero critico corre, non riuscendo a riconoscere la portata della metamorfosi in corso e  restando perciò, suo malgrado, prigioniero dello stesso presentismo contro cui argomenta, cedendo di fatto alla colonizzazione del futuro
da parte del presente che caratterizza la società attuale.

E’ qui che Beck risulta stimolante, se non convincente: nel mettere in luce l’angustia del pessimismo precisando però che “la negazione del pessimismo non implica l’ottimismo”, e ribadendo che riconoscere la possibilità di effetti collaterali positivi di fenomeni in sé negativi – cambiamento climatico in primis – non significa escludere la possibilità della catastrofe, ma neanche quella che la crisi ambientale metta alle corde il neoliberismo, la guerra, l’irresponsabilità della politica internazionale.
Questo è in definitiva il senso profondo della riflessione di Beck, e il suo lascito, è il caso di dire: occorre lasciarsi alle spalle l’idea che ciò che non sappiamo sia una lacuna che, per quanto vasta, primo o poi si colmerà, per pensare invece che c’è molto che neanche sappiamo di non sapere. A partire dagli esiti del
la metamorfosi che sta accadendo, appunto.

Un’incapacità lentamente acquisita

Amitav Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza 2017 (pp. 207, euro 16,50)

Che il romanzo, a differenza della saggistica, sostanzialmente ignori il cambiamento climatico può essere considerato un fatto marginale solo a patto che, da un lato, non ci si sia ancora convinti della portata epocale del fenomeno e, dall’altro, non si abbia presente che la narrativa è spia e insieme produttrice di immaginario collettivo, di cultura diffusa.

Ghosh spazia sulla letteratura occidentale e fa entrare il lettore in quella dell’Oriente – indiana in particolare, della quale si sa molto poco – per dimostrare che il silenzio della letteratura sul fatto di gran lunga più decisivo del nostro tempo, il suo esser priva di strumenti per affrontarlo, non sono che il segno di un più vasto fallimento immaginativo e culturale che agli occhi dei posteri – sempre che la crisi ambientale ne permetta la futura esistenza – apparirà come una “grande cecità”. Una tragica incapacità di lasciarsi alle spalle la “tracotanza predatoria dell’illuminismo europeo” e il suo misconoscimento della dimensione non umana della vita e del mondo, aspetti intimamente connessi dell’ideologia del capitalismo colonialista e, insieme, matrici di un pensiero che ha esteso l’illusione della regolarità della vita borghese, del suo culto della soggettività individuale, alla realtà intera. E’ così che si è reso impensabile ciò che non appare probabile, e questo nell’epoca stessa in cui i fenomeni climatici – con la loro violenza, estensione e imprevedibilità – dicono esattamente il contrario.

Ghosh non è uno scienziato, e neanche un filosofo: le sue non sono teorizzazioni, ma constatazioni ricavate da circostanziati esempi tratti non solo dalla storia letteraria ma anche da quella storia dell’ambiente tanto poco coltivata dagli storici di professione.
Si finisce di leggere questo libro con una consapevolezza nuova: non è solo uno stato di negazione (sapere e pure fare come non si sapesse: cosa diversa ma non meno inquietante del negazionismo) che non ci fa prendere sul serio il cambiamento climatico. E’ anche un atteggiamento culturale lentamente maturato e ormai profondamente radicato nella nostra cultura e nel modo di pensare la nostra vita. Un atteggiamento solidale – di fatto, al di là delle nostre idee politiche – con il sistema dominante. Un atteggiamento che ci rende ciechi di fronte alla più grande mutazione che gli uomini abbiano mai conosciuto, sordi alle voci che cercano di farci aprire gli occhi e convincerci che non c’è pensiero critico se il primo posto fra le minacce e le urgenze che incombono sul mondo attuale non viene assegnato al cambiamento climatico.

La civiltà non è una conquista irreversibile

La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017 (pp. 235, euro 19)

Terrorismo. Migrazioni, soprattutto da regioni in cui lo stato è scomparso. Disuguaglianze crescenti, fra Nord e Sud ma anche all’interno dei paesi occidentali.

Xenofobia, islamofobia, razzismo. Nazionalismi, sovranismi, populismi e imbarbarimento del discorso pubblico.
Il dizionario politico del nostro tempo non si limita a fornire una smentita ulteriore e definitiva dell’ideologia del progresso: parla di un processo di “regressione” che non è solo economica e politica, ma si estende a tutti gli aspetti del vivere collettivo (e di quello individuale: fra panico demografico diffuso in Europa e malinconia esistenziale esiste un nesso accertabile).
“Decivilizzazione” è il termine più pertinente per descrivere questa involuzione: un arretramento decisivo, e pervasivo, su quel terreno, la civiltà, che ci si rappresentava come un campo di tensioni, e minacce, ma anche come un cammino sostanzialmente irreversibile. Reso precario, invece, e oggi messo radicalmente in discussione, dai rischi globali generati da una finanza che permea l’economia reale nel quadro del neoliberismo imperante, dalle conseguenze di trasferimenti epocali di popolazione e cronici stati di guerra, da un cambiamento climatico che solo con intenti dichiaratamente provocatori si può ancora mettere in dubbio.
Come si è finiti in questa situazione e come, ammesso che sia possibile, uscirne: queste le domande cui cercano di rispondere gli autori in un libro pubblicato contemporaneamente in più paesi.
Non sono discorsi nuovi quelli che troviamo in queste pagine, ma in essi spiccano sottolineature che tentano di stabilire corrette gerarchie di rilevanza fra i problemi, diagnosi mai semplificatorie e sloganistiche ma nette e decise nell’individuare le criticità di fondo: la tendenza a un dilagante rifiuto della democrazia (Appadurai), una democrazia del resto sempre meno inclusiva e, oltre tutto, in grado di ampliare le libertà personali nel momento stesso in cui toglie potere ai cittadini (Krastev); la renitenza a riconoscere nel neoliberismo il ritorno a un capitalismo dell’esproprio (Della Porta) e contemporaneamente un’ideologia che ha egemonizzato la Sinistra, incapace di rifiutare l’alternativa fra neoliberismo progressista e populismo reazionario (Fraser) e ormai guadagnata al credo del TINA: There Is No Alternative (Streek).
Rendersi consapevoli di quello che accade è il primo indispensabile passo: far fronte a una gigantesca crisi di civiltà esige innanzitutto una rivoluzione culturale che metta in grado di riflettere e pianificare sul lungo periodo (Bauman). Presupposto essenziale è l’attribuzione di un ruolo centrale al fenomeno migratorio e al cambiamento climatico (due fenomeni più o meno mediatamente legati fa loro) e, conseguentemente, l’assunzione del fatto che lo scontro oggi è fra internazionalisti e nativisti (Krastev), da un lato, e dall’altro fra negazionisti di fatto (quelli che sanno ma non fanno) della questione ambientale e coloro che invece non fuggono davanti ad essa e individuano nel cambiamento radicale e ad ogni livello degli stili di vita l’unico comportamento all’altezza dei tempi (Latour).

Al fondo di una simile presa di coscienza, o ripresa di pensiero critico, non può che esserci il riconoscimento che la “grande regressione” non è un fenomeno naturale e neanche l’esito di una complessità ingovernabile e sfuggente, ma il risultato di un tradimento: quello perpetrato dalle minoranze privilegiate (Latour), contro il quale nulla sarà possibile senza la rivalutazione  della kantiana “unificazione civile dell’umanità” (Bauman) e la costruzione di una “nuova internazionale politica” (Žižek).

Una ventata d’aria fresca

Paolo Nori, Le parole senza le cose, Laterza 2016 (pp. 98, euro 14)

Paolo Nori, Undici treni, Marcos y Marcos 2017 (pp. 157, euro 16)

Roberto Livi, La terra si muove, Marcos y Marcos 2017 (pp. 190, euro 16)

“(…) era un blogger, perché aveva un blog, era uno youtuber, perché aveva un account su YouTube, era stato un twitter, perché aveva avuto un account su Twitter, era stato, molto tempo prima, un facebooker, perché aveva avuto, molto tempo prima, un profilo Facebook, non era mai stato un instagrammer, perché non aveva mai avuto un account su Instagram però era un traduttorer, perché faceva delle traduzioni, e un romanzer, perché scriveva dei romanzi (…).”

Ci si può presentare così? si può definire in questo modo, romanzer, lo scrittore al tempo dei social? Sì, se si è convinti – come il Nori di Undici treni – che per parlare di cose serie si debba ricorrere a un’ironia vagamente demenziale. E allora si può dire anche del senso di spaesamento indotto dal vorticoso cambiamento del paesaggio della quotidianità, dalla sempre minore corrispondenza fra le parole e le cose (ancora Nori, in Le parole senza le cose):, perché c’è stato “un periodo dove le cose eran le cose, non come adesso, che non si capisce più niente, che non dico sia peggio, magari è anche meglio, però è un’altra cosa”. Per fare un esempio, il mondo in cui sono nati i cinquantenni di oggi, fra cui l’autore, “era un mondo dove i telefoni facevano ancora quei rumori così forti, così frequenti e campanellosi che per noi voglion dire  «telefono», anche se abbiam dei telefoni che coi campanelli non c’entran più niente”. E’ “nostalgia” quella che nasce dalla “propensione a identificarci con gli oggetti che usiamo” e che nel frattempo hanno cambiato fisionomia: “oggetti che conservano il loro nome ma mancano come oggetti”.  E non si tratta solo delle cose: anche i luoghi si fanno irriconoscibili. Metti certe librerie, come la Feltrinelli di Parma, tramutatasi da “libreria piccola e stipata di libri” a “grande libreria su tre piani”, “piena di bottiglie di vino, di prosciutti, di abat-jours, di appliques, di tortellini, di cancelleria, di caffè, di bomboloni” (e l’elenco prosegue), mentre i libri sono “pochissimi e solo là in fondo, alla fine della sala”, dove “un cartello con una freccia puntata verso l’alto (dice) «I libri sono ai piani superiori»”.
In questo mondo che cambia faccia a ritmi insostenibili, anche sapere chi si è diventa una faccenda dalla soluzione aleatoria: “Ero così abituato al mio comportamento da brava persona, che arrivato a un certo punto della vita ho cominciato a pensare di essere davvero una brava persona”, recita l’incipit del romanzo di Roberto Livi.

Ma perché il modo migliore di parlare di questi autori sembra citarli, quasi che esprimere impressioni e giudizi su di loro senza aderire alle loro parole li travisasse? Perché il che cosa  dicono non è distinguibile dal come lo dicono, o meglio: la loro scelta stilistica, la loro lingua è protagonista della pagina, non semplice veicolo ma sostanza dei loro ragionamenti apparentemente sconclusionati. Questi autori: non solo Nori e Livi. Anche Ugo Cornia (“ c’è una cosa che fino a prima che nascessi tu non c’era, e invece dopo poco che sei nato c’è stata, quindi questa cosa per te sembrerà necessaria e normale, per sempre”, leggiamo nel suo ultimo libro: Buchi, Feltrinelli 2016), e Daniele Benati (“Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche te sei un po’ strano”, per citare una delle tante sentenze raccolte in Opere complete di Learco Pignagnoli, Aliberti 2006).
Sono gli autori riconducibili al filone padano-emiliano che raggruppa appunto Cornia, Livi, Nori, Benati (ma al quale non si possono dire estranei, se non altro per il sapore del loro umorismo, scrittori come il cremonese Andrea Cisi col suo La piena, minimum fax 2017). Filone il cui atto fondativo è stata l’apparizione della rivista Il Semplice, negli anni Novanta,  mentori Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni (sullo sfondo, il Tonino Guerra e il Federico Fellini di Amarcord).

Ad accomunarli, e a garantire a noi lettori un piacere che non sapremmo ben definire, è la loro scelta di star vicini al parlato quotidiano, coi suoi dialettismi e regionalismi, con le sue costruzioni sintattiche approssimative, le ripetizioni e le riprese come regola. Uno stile, una lingua, capaci di un’immediatezza che è impossibile scambiare per trascuratezza. Frutto evidente, piuttosto, di una ricerca e di una cura senza le quali l’impressione di semplicità che comunicano non si darebbe. Né si darebbe quel senso di orgogliosa  ribellione al già detto – alle frasi fatte e al conformismo delle opinioni, al politicamente corretto e al culturalmente conveniente – che ci coinvolge come una ventata di aria fresca, da  respirare a fondo, sorridendo.

Perché si racconta dei propri genitori

Richard Ford, Tra loro, Feltrinelli 2017 (pp. 144, euro 15)

Perché si racconta dei propri genitori? Perché, anche coloro che si provano a scrivere senza sognarsi di vedersi pubblicati ma per una delle molte altre ragioni per cui si scrive, raccontano innanzitutto di loro, e di se stessi al tempo in cui vivevano con loro?

Non perché si trattasse di persone fuori dal comune, né perché è se stessi che si ritiene eccezionali, e dunque meritevoli di un’autobiografia che parta da chi ci ha messo al mondo. Non è certo questo che muove Richard Ford, e tanto meno l’idea che nei tratti del padre e della madre, e nella loro vicenda, si nasconda un destino, il proprio. O che nelle loro personalità e nella qualità del loro rapporto si nascondano la cifra del proprio carattere o addirittura le ragioni profonde delle proprio modo di stare nel mondo. Non sono i rimandi di significato cui le storie familiari sensibili alla cultura della psicoanalisi ci hanno abituato a guidare questa narrazione: sono i fatti, gli avvenimenti che segnano l’esistenza di due persone come tante, che di particolare e irripetibile hanno avuto però la ventura di essere stati i tuoi genitori e che dunque senti il bisogno di “sentire vicino” e di “onorare” (così, lo stesso Ford, in una recente intervista). Il che non esclude ma anzi alimenta la voglia di capire. Di capire chi erano, che cosa volevano dalla vita, pur sapendo – ammette l’autore – che si tratta di un desiderio destinato a rimanere insoddisfatto: “io cerco di affrontare la loro diversità ed essi mi eludono, come fanno tutti i genitori”. Perché i  genitori  creano per noi “una sorta di ‘separatezza congiunta’ e un utile mistero, per cui anche quando ci troviamo insieme a loro siamo soli”. E tuttavia, “più vediamo pienamente i nostri genitori, più li vediamo come li vede il mondo, maggiori sono le nostre possibilità di vedere il mondo com’è”. Non mancano passaggi di questo tipo in questo libro, ma non si tratta di conclusioni, di approdi che dalle vicende contino di aver estratto concetti. Perché quel che conta sono solo i fatti. E’ questo l’insegnamento principale che sia il padre che la madre gli hanno lasciato: nella constatazione che “questa è la vita” sembra riassumersi il loro lascito: “La psicologia non era una scienza che praticassero più della storia. Non erano indagatori per natura, non si chiedevano come si sentissero a proposito di questo o di quello”, e non si trattava né di stoica accettazione della vita né di indifferenza ai suoi casi. La loro convinzione, o meglio: la loro pratica, concreta e quotidiana, era quella di prenderla per quella che era, semplicemente. Stare ai fatti, appunto.

Ed è questo il principio che sembra essere trasmigrato nella scrittura di Ford: “ho cercato di essere il più possibile oggettivo – spiega nell’intervista già richiamata, riportata nell’inserto libri della Stampa lo scorso 27 maggio – non elaborare teorie, descrivere solo i fatti: l’amore non è una teoria, ma una serie di infiniti piccoli atti”.
La volontà ripetutamente dichiarata di attenersi ai fatti perché quelli, solo quelli rivelano le intenzioni, potrebbe essere intesa come una molto americana professione di behaviorismo, e invece si rivela con sempre maggiore chiarezza un’espressione di pudore, di rispetto e riconoscimento di un’alterità irriducibile, condizione imprescindibile perché il ricordo non sfumi nella commemorazione, garanzia vera della pietas che il figlio sa tributare al padre e alla madre riandando ai loro giorni, alle loro speranze, alla loro fine.

La gioia di scrivere

Murakami Haruki, Il mestiere dello scrittore, Einaudi 2017 (pp. 189, euro 18)

Una dichiarazione preliminare: i romanzieri, assicura Murakami, non sono persone generose, sono egoisti e competitivi, fra loro. Non però nei confronti di quanti si affacciano all’esperienza della scrittura.

Ma attenzione: se accolgono con simpatia– differentemente da attori e sportivi, per esempio – e addirittura incoraggiano gli esordienti, è perché un nuovo scrittore anche se ha successo non fa ombra all’altro. La narrativa, infatti, è come “un ring di lotta libera sul quale può salire chiunque lo desideri. (…) I lottatori già sul ring – gli scrittori – fin dall’inizio sono più o meno rassegnati alla facilità con cui si entra in campo. (…) Tuttavia, se salire sul ring non presenta particolari difficoltà, restarci a lungo è una faticaccia. (…) Un certo talento e una certa fermezza sono necessari”, anche se “di questa particolare capacità non si sa molto”: scrivere è un dono che non si sa da dove arriva ma che, se lo si è ricevuto, va protetto con cura. E così subentra un'”utile selezione”, fra  quelli che lasciano dopo uno due romanzi, magari anche buoni, e quelli che dello scrivere sanno fare un “mestiere” e hanno la capacità di riproporsi puntualmente ai lettori: “il numero di romanzieri non ha limiti, ma lo spazio nelle librerie sì”.
Non sono comunque i premi letterari né i giudizi dei critici a sancire la qualità di uno scrittore. E’ altro: la gioia che si prova a scrivere innanzitutto, una gioia piena, che risponde a un desiderio vero, perché – non si deve dimenticare – è bene scrivere solo quando se ne ha voglia; in secondo luogo, a confermare la genuinità del proprio talento, è, con molta evidenza, il fatto di continuare ad avere lettori.
Per quanto indefinibile sia, ciò che occorre per diventare uno scrittore richiede comunque alcune pratiche. Primo, leggere in continuazione, “far passare dentro di sé il maggior numero possibile di storie”. Secondo, osservare attentamente eventi, persone, e rifletterci senza esprimere giudizi: “collezionare dettagli”, “ingredienti originali” che nutriranno la narrazione. Terzo: crearsi una propria lingua, un proprio stile, un proprio ritmo, semplificando e purificando il racconto non aggiungendovi particolari ma  “per sottrazione”, e  non lasciandosi condizionare dal fatto di non  aver da parte un patrimonio di esperienze fuori dal comune cui attingere. Si scrive “combinando quel poco che si ha”. Ma anche organizzando metodicamente la propria giornata. E qui si entra davvero nell’officina – espressione spesso abusata, ma appropriata in questo caso – dello scrittore, e sono le pagine migliori del libro, quelle in cui Murakami racconta del suo scrivere – e cita Karen Blixen – “senza speranza e senza disperazione”, cinque ore al giorno, per sei mesi, un anno, o due, o tre, fino a terminare la prima stesura e da quel momento iniziare la sequela di revisioni che porteranno alla versione definitiva del libro. Avendo sempre presente la necessità di  considerare il tempo come un amico, l’alleato più prezioso per arrivare a scrivere davvero il romanzo che si voleva scrivere, e  senza dimenticare mai che un altro amico va tenuto in conto: il proprio corpo. Scrivere e fare una vita sana sono due aspetti di un unico modo di vivere, lontanissimo dall’immagine stereotipata del genio  che coltiva la sregolatezza come condizione della sua creatività.

Non è un saggio autobiografico quello che ha voluto scrivere, assicura in conclusione Murakami, ma chi lo ama troverà in questo libro notizie sulla sua vita e la sua personalità, un po’ come in L’arte di correre (Einaudi 2013); chi non lo ama vi troverà comunque una brillante e argomentata demitizzazione degli scrittori e della scrittura: i romanzieri non sono maîtres à penser,  e la scrittura non è l’apice delle attività umane. Si può vivere senza scrivere. E senza leggere, come il numero di “lettori forti” (lettori di un libro al mese), non entusiasmante neanche in Giappone, dimostra…

Una storia di vite mancate, senza rassegnazione

Sandro Campani, Il giro del miele, Einaudi 2017 (pp. 243, euro 19,50)

Una storia di famiglie, di amori e disamori, speranze e fallimenti, di destini che si credeva di aver scongiurato e invece negli anni l’hanno avuta vinta.

Una storia come quelle che si sentivano raccontare dai parenti anziani: perché quei due, col bene che si volevano, si sono separati; perché, con la passione che quel tale aveva messo nel suo mestiere ha finito col fare debiti e dover lasciare, e così doversi reinventare un lavoro, sensato – come l’andare in giro a vendere il proprio miele – o strampalato, e distruttivo – com’è il lavoro del buttafuori di discoteche;  perché quell’altra, che era tornata al paese e sembrava aver messo la testa a posto, e trovato finalmente un equilibrio, se non la felicità, poi se n’è riandata via…
Tutti perché ai quali per un’intera notte, seduti accanto al fuoco, con una bottiglia di grappa sul tavolo, due uomini, uno giovane e l’altro vecchio, cercano di  rispondere. Arrovellandosi il primo, lacerato da un dolore senza requie, divenuto straniero al suo stesso paese; rivolgendo  il secondo uno sguardo di comprensione a quel che è successo, uno sguardo venato di rassegnazione ma immune dal rimpianto. Di errori ne ha fatti anche lui, ma è comunque risolto, perché nel posto dove sta ci sta bene, e diversamente dal giovane l’amore per la sua donna l’ha saputo proteggere, e continua a nutrire di senso la sua vita. E’ la sua, quella del più vecchio, la voce narrante, anche se l’altra si prende lo spazio che una storia ingarbugliata, e ancora in cerca di una chiave che non si troverà, richiede.

Parlano, bevono, e la loro vicenda lascia trasparire la vicenda di tutta una comunità in bilico fra un passato perduto, fatto di certezze, di regole condivise, di riti che un senso l’avevano, e un presente di abbandono – siamo nell’Appennino emiliano – di disgregazione sociale, di disorientamento culturale, e morale.
Il racconto va e viene, come la memoria, in un rimando continuo di flashback che chiede impegno al lettore rendendolo però via via partecipe di un ripensamento del passato a tratti ossessivo, sempre più umanamente accorato, inevitabilmente consapevole della propria inutilità.
E fuori, nel buio della notte, la lince (la vediamo occhieggiare dalla copertina del libro): qualcuno l’ha vista, altri solo presentita, ma lei c’è, nessuno ne dubita, e aspetta. Misteriosa come i boschi che circondano il paese, una natura  dimenticata e vilipesa e pure forte e imperturbabile, sordamente incombente sul mondo degli uomini, imperscrutabile come l’enigma che sta al cuore di  queste vite di donne e uomini comuni. Vite che avrebbero potuto essere diverse, e non si sa cessare di interrogare per sapere perché sono andate come sono andate.

Spettatori attenti delle proprie vite

Katie Kitamura, Una separazione, Bollati Boringhieri 2017 (pp. 187, euro 14)

Dag Solstad, Romanzo 11, libro 18, Iperborea 2017 (pp. 189, euro 16,50)

Sia la protagonista del romanzo dell’americana Kitamura che quello del norvegese Solstad attraversano la vita non cessando mai di cercarvi un senso: analizzano se stessi e i loro giorni senza moralismi e senza rimpianti, ma le scelte che fanno risultano ambigue, o opache addirittura, ai loro stessi occhi.

“La gente è capace di vivere in uno stato di perenne delusione, molti non sposano la persona che speravano di sposare, e ancor meno vivono la vita che speravano di vivere, altri inventano nuovi sogni per rimpiazzare i vecchi, trovando altri motivi di insoddisfazione”, constata Kitamura.

Lui se n’è andato in Grecia, a far ricerche sulle prèfiche, le donne che piangono ai funerali dietro compenso, perché sta completando un libro sul lutto. Affascinato da chi ha subito un perdita: anche se il dolore si direbbe non l’abbia mai sfiorato sembra uno che ha perduto tutto, e non fa che scappare: da una donna all’altra, nascondendo il suo vuoto dietro la sua capacità seduttiva.
Avevano già deciso di separarsi, ma senza dire a nessuno del divorzio ormai prossimo, neanche ai genitori di lui. E’ di fronte a questi che lei, ex moglie nei fatti, sente di dover continuare a recitare il ruolo della moglie, e dunque raggiunge il marito. Il quale però è scomparso dall’albergo in cui era, senza lasciar traccia, almeno fino a che scomparirà una seconda volta e di lui, vittima di un’aggressione il cui autore resterà ignoto, non si ritroverà che il cadavere.
Arrivata in Grecia per chiedere al marito di non rimandare il divorzio, lei si ritrova così vedova. La morte sembra averla in qualche modo legata nuovamente al marito o, meglio, all’ex marito, e il dolore di una moglie non sembra alla fine tanto diverso da quello di una ex, perché a contare non sono le ferite che con evidenza gli avvenimenti infliggono, ma quelle che “non sai di avere, e il cui decorso non puoi prevedere”.
Nulla sfugge a un’ambiguità pervasiva, che sembra contagiare anche le dimensioni del tempo, del rapporto fra un passato “sottoposto a ogni tipo di revisione”, e che dunque si rivela   “un campo poco stabile”, “un terreno cedevole”, e un futuro che di conseguenza sarà “diverso da quello che abbiamo programmato”.
Nel confronto stridente fra questa indeterminatezza che segna scelte e sentimenti, e una scrittura tesa invece a registrare con precisione analitica ogni sfumatura delle percezioni, ogni particolare dei gesti, ogni ambivalenza dei pensieri si può riconoscere la cifra di questo romanzo, che non fa che riflettere un’epoca come la nostra, “dove la gente non fa che scattarsi foto in ogni momento” e “l’effetto non è quello di una rinnovata spontaneità o verosimiglianza delle foto che proliferano sui telefonini, sui computer, su internet, ma piuttosto il contrario: è l’artificio della foto a essersi introdotto nella nostra vita quotidiana.” 

Meno evidente e dichiarata è l’opacità delle scelte che si compiono e segnano la vita nella vicenda del protagonista del romanzo norvegese, funzionario ministeriale in carriera che tuttavia “nel più profondo di sé (sa) che la felicità passeggera (è) il bene più desiderabile a questo mondo”. E dunque lascia moglie e figlio di due anni, lavoro e città  per poter convivere, in un centro di provincia, con l’amante. Donna che l’ha affascinato con la sua grazia e la sua esuberanza, ma anche con il suo fascino seduttivo: qualità che nel giro di meno di vent’anni fatalmente si appannano al punto da non permettere, all’innamorato di un tempo, di ricordare le ragioni della sua passione.
Una separazione anche in questa storia, perciò, che conosce tuttavia uno sviluppo inatteso: il figlio di lui, ormai ventenne, si trasferisce nella città del padre, che lo accoglie animato dalla speranza di poter riannodare un rapporto che lui stesso aveva spezzato. Senza per altro essersene mai pentito: cercare significati nella vita non vuol dire, per quest’uomo, esprimere giudizi sul percorso che si è scelto di fare. Ciò che è accaduto doveva accadere: non è fatalismo a ispirare una simile posizione, quanto una sotterranea percezione della casualità e dell’interscambiabilità degli accadimenti, e delle stesse proprie scelte.
Il figlio si rivelerà un estraneo, molto diverso dal padre: convintamente calato nelle “modernità” il primo, entusiasta del mondo com’è, quanto inconsapevolmente portato a rintracciarvi vie traverse il secondo. Per altro alieno dal considerare il figlio un illuso: non ha certezze il protagonista di questa storia, o quanto meno è lontanissimo dal ricavarne norme di condotta.

Una cosa però la vuole decidere lui, sia pure con la complicità di un paio di medici: fingere un grave incidente e la conseguente paralisi che lo costringerà per il resto della vita a stare su un sedia a rotelle. Approdo assurdo di una vita che si sente di non aver potuto vivere all’insegna dell’autenticità, non tanto per le scelte fatte ma perché un’ineliminabile alienazione, oggi, cova nelle vite. Non esami di coscienza, pentimenti per gli errori commessi o rimpianti per le proprie rinunce possono allora esserne lo sbocco, ma solo una protesta radicale e silenziosa, segreta e incomunicabile. Una scomparsa dal mondo degli altri che non implica né la sparizione né la morte.

La ricerca della diversità

Cees Noteboom, Cerchi infiniti. Viaggi in Giappone, Iperborea 2017 (pp. 183, euro 15)

E’ ancora possibile viaggiare? Il viaggio può essere ancora scoperta o quantomeno confronto con una realtà diversa, una cultura non omologata, un altrove non del tutto assimilabile ai luoghi in cui si vive? 

Domande che da almeno mezzo secolo attraversano la pratica del turismo. Hans Magnus Enzensberger (il suo Una teoria del turismo è di metà anni ’60) ha osservato che “Il turismo , ideato per liberare i suoi seguaci dalla società, prese la società in viaggio con sé. Da allora sulla faccia dei compagni di viaggio, si poté leggere ciò che si voleva dimenticare”, e non diversamente Gianni Celati, in Avventure in Africa (Feltrinelli 2000), nota che quelli che viaggiano con  lui “in comune hanno questo: che evitano di guardarsi l’un con l’altro, quasi si vergognassero di riconoscersi. Ognuno di noi si muove in due metri cubi di vuoto spinto, fuori dalla sostanza dei commerci quotidiani, destinato a guardare tutto come da dietro un vetro. Ognuno è tra i muri della sua privacy che si è portato dietro da casa, ha raggiunto il suo fine, ma forse ha già perso per strada il resto…”.
Osservazioni simili si ritrovano nei diari di viaggio di Noteboom, e il fatto che il paese più volte visitato sia il Giappone non limita la loro portata:  è di noi che si parla, di noi in quanto turisti, al di là dei luoghi scelti per i nostri viaggi. Di noi che raggiungiamo un paese straniero già carichi di immaginari letterarie e preconfezionate convinzioni culturali, e politiche non di rado: “Perché devo andare in giro come una botte piena di pregiudizi e informazioni?” si chiede Noteboom, consapevole del fatto che il pericolo che si corre è che il viaggio si riduca a verifica delle idee che già si hanno, che il conoscere non  ammetta che il riconoscere.

Ma la responsabilità non è solo nostra: nel primo hotel in cui ci si ferma, appena atterrati, le pareti sono occupate da immagini delle Hawaii: appena arrivati in Giappone “si è già altrove”. Un altrove che potremmo veder riprodotto in qualsiasi altra parte del mondo. Impossibile quindi incontrare davvero l’altro, percepire la diversità di luoghi e persone? No, se ci si abbandona a quel che si vede, si sente, si assapora; se si usa la propria guida non come un doppio della realtà ma solo come uno strumento per dare spessore storico a ciò che si guarda; se non ci si preoccupa di vedere, e di capire, tutto e si accetta la casualità dell’incontro, la parzialità inevitabile delle proprie impressioni. Riflette questo atteggiamento la scrittura di Noteboom, fatta di notazioni dettate dal momento, brevi digressioni, piccoli racconti, a volte non privi di humour, come quello della visita a una seduta del parlamento: “Io non capisco nulla, mi faccio spiegare dove siedono i comunisti e dove i liberali, ma per me non è che una sala molto grande piena di signori in abito grigio (…). Come diceva mia zia dopo un’opera di Pinter: Non ho capito niente, ma è stato molto bello.” E allo humour si alternano spunti di riflessione, dettati ad esempio dalla proverbiale passione per la fotografia dei giapponesi: “Padri fotografano figli, figli fotografano padri, famiglie intere spariranno dentro albi di foto fino al momento in cui nessuno saprà più chi fossero.” Di giorno in giorno, tuttavia, si fa strada la percezione di una radicale alterità, custodita in concetti del tutto estranei a un europeo ( “mono no aware”: il «pathos delle cose», il  «riconoscimento della speciale bellezza dell’effimero»”), in paesaggi nati da concezioni lontanissime dalle nostre: “per i giapponesi la natura è animata, in senso letterale”, mentre “noi abbiamo trattato la natura come un nemico da reprimere”. Di qui la differenza abissale fra i nostri giardini fatti di alberi potati e cespugli sagomati e i giardini zen, in cui “la simmetria è una bestemmia, non fosse altro per il fatto che in natura non esiste”.

Ma il Giappone delle masse metropolitane, dei treni superveloci, dell’innovazione tecnologica, dell’organizzazione meticolosa e pervasiva del tempo? Be’, sì, l’autore, durante un tour fra i templi e i luoghi di culto, deve riconoscere di “essere in cerca di un Giappone che in realtà esisteva ancora soltanto come eccezione, come se un giapponese in Europa cercasse esclusivamente alcuni monasteri benedettini”. Eppure, “tutte quelle cose – suicidi rituali compresi – devono essere ancora presenti in mille forme e pensieri dietro le facciate tirate a lucido, dietro l’immagine occidentale della potenza industriale del futuro”. Un tema questo, del rapporto fra vecchio e nuovo, tradizione e modernità esasperata, sul quale l’autore torna, e che rivede senza timore di contraddirsi, passando da uno scritto all’altro, dalle impressioni di un viaggio a quelle del successivo. Spostarsi nello spazio, del resto, è anche attraversare tempi diversi, cercare il passato nel presente,  arrivando sempre troppo tardi, senza tuttavia restare estranei a quel che è stato. Non solo in Giappone. Lo si diceva: questo è un libro che offre spunti che vanno al di là dei luoghi visitati, per tentare una fenomenologia del viaggio e della ricerca della diversità, dei desideri e delle contraddizioni (vissute spesso come delusioni) cui si espone il turista dei nostri tempi: “Chi a Firenze vuole vedere esclusivamente il Rinascimento sa di ingannarsi e al tempo stesso entra in contatto con forme di verità. Forme deformate, verità sfilacciate, qualcosa che è esistito e non c’è più ma c’è ancora.”

L’arte del racconto e le sue prove

Francesca Manfredi, Un buon posto dove stare, La nave di Teseo 2017 (pp. 165, euro 16)

Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti, Bollati Boringhieri 2016 (pp. 462, euro 18,50)

Normali, quotidiane, convenzioni e abitudini si scoprono invece fragili, ambigue.

Non basta fare come gli altri, fare quello “che fanno tutti” (“cercano la cosa giusta da fare. E la cosa giusta da fare è sempre la stessa, la più semplice. La cosa giusta è quella che fanno tutti”).
Può capitare – come succede al personaggio di uno dei racconti di Francesca Manfredi– di pensare “di aver fatto la cosa giusta, e che presto o tardi avrei potuto farne altrettante, di cose giuste, se solo mi ci fossi messo”, ma la buona volontà, la fiducia, non mettono al riparo da una reciproca estraneità le coppie, nelle quali uno si trova a chiedersi chi sia davvero l’altro, lo sconosciuto con cui vive, né preservano da una invisibile opacità le famiglie, in cui genitori e figli, apparentemente vicini, vivono in realtà in mondi separati.

E sono proprio i bambini, in molti casi, ad avere la peggio, come se non essere stati ancora assorbiti dalle convenzioni che precariamente regolano le relazioni li rendesse vittime designate: di adulti incerti di se stessi, nella sostanza inaffidabili. Sfuggenti, diversi da quel che si credeva: la propria madre può di colpo, senza una ragione evidente, assumere “un’espressione che non le avevo mai visto”, racconta la figlia: “Ancora più dura del solito, e nello stesso tempo incredibilmente fragile. Per una volta non riesco a capire cosa pensa, e mi mette paura”. E’ il perturbante, l’affacciarsi improvviso dell’estraneo nel familiare, che cova in questi racconti e affiora, per un attimo, prima che tutto torni come prima, e cioè indefinito,  insicuro, discontinuo, tanto che l’unico, temporaneo rimedio, è rifugiarsi un “buon posto dove stare”, fosse pure lo scantinato della propria casa: non importa dove trovarlo questo posto, basta che sia “da qualche parte, al sicuro”, come recita uno dei titoli.
E’ un inquietudine fredda – inutile si sarebbe tentati di dire – che queste storie lasciano. Sempre che di storie si possa parlare, perché qui l’arte del racconto alla Carver (evocato in molte delle recensioni che il libro, premio Campiello Opera Prima, ha avuto) si ha l’impressione che sia distillata al punto da… evaporare. Che cioè il pathos del non detto sia un risultato che neanche ci si è proposti.
E’ in casi come questo che viene da chiedersi se quello di non dir tutto, di dire anzi quasi niente lasciando al lettore il lavoro di immaginare il contesto, il prima e il dopo delle vite dei personaggi, debba essere un comandamento ormai inviolabile per chi scrive racconti. Se debba ritenersi per sempre andato il tempo di quei racconti che sapevano delineare il romanzo che, non per semplicemente per attenersi alla stringatezza, avevano deciso di non essere (Čechov, pur da più parti evocato come antesignano della short story evasiva e minimale, ne ha scritti), o quegli altri, che pur rispettando l’imperativo della laconicità, e dell’allusività, sanno condurti, uno dopo l’altro, in una trama che di fatto fa romanzo. Un romanzo fatto di racconti, come quello di Lucia Berlin. 

Non è la storia di una scrittrice, e non sono racconti sull’arte dello scrivere, quelli di Lucia Berlin. Il titolo italiano ha soppiantato (come spesso accade, per ragioni imperscrutabili) quello originale, che dava subito il quadro della situazione, e dell’intenzione ironica, sconfinante a volte in un cinismo di facciata, dell’autrice: Manuale per donne delle pulizie. Che è poi il titolo di uno dei racconti, uno dei più rappresentativi del mondo in cui si svolgono queste storie. Un mondo in cui occupano un posto significativo le case in cui la protagonista si trova a fare uno dei molti lavori che, per forza di cose, sperimenta: “Amo le case, le cose che mi raccontano, e questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace fare la donna delle pulizie. E’ proprio come leggere un libro”. Anche quando in quelle case si viene a contatto con donne spesso sole, anziane, un po’ via di testa: “Mi segue di stanza in stanza ripetendomi sempre le stesse cose. Io mi sto rincoglionendo insieme a lei. Continuo a dire che me ne vado, ma mi fa pena. Sono l’unica persona con cui possa parlare. Suo marito è un avvocato, gioca a golf e ha un’amante. Non credo che la signora Jessel lo sappia, o che se lo ricordi. Le donne delle pulizie sanno tutto.” Il distacco con cui Berlin racconta lascia non di rado emergere un’empatia che suona sincera, anche se sorvegliata sempre e mai tale da incrinare la distanza con cui racconta delle donne incontrate. Anche quando parla di sé, delle proprie vicende, dei propri fallimenti,  lo fa come se parlasse di un’altra, di una delle tante con cui ha avuto a che fare. Il che può sorprendere in un libro sostanzialmente autobiografico. Non un romanzo però. O forse: un romanzo fatto di capitoli coincidenti con altrettanti racconti che, evocando i diversi mestieri  conosciuti e le traversie vissute, si richiamano fra loro mantenendo tuttavia la loro compiutezza, la loro autonomia. Quasi a dire che, per quanto si possa aderire alla convinzione che l’identità di una persona non sta nei suoi documenti e nel suo curricolo ma nel racconto della sua esistenza, se la si vuol restituire non è la forma del romanzo che oggi può farlo, ma un seguito di quadri, di racconti, spezzati e discontinui come le vite. Racconti in cui non sembra succedere niente, se non il passare del tempo, il consumarsi dei giorni, senza rimpianti o struggimenti: vivere significa lasciar andare quel che si è vissuto e vivere il giorno che si sta vivendo. Anche quando quel che capita appare difficile da accettare e suscita sgomento: “Di solito il pensiero di invecchiare non mi crea problemi”, ma ci sono situazioni che possono “gettare nel panico”. Le lavanderie a gettoni, per esempio: “erano un problema anche quando ero giovane. Richiedono troppo tempo (…). Mentre stai seduto lì, tutta la vita ti passa davanti agli occhi, come se stessi affogando.” O l’agenzia di viaggi a cui la donna da poco tempo rimasta sola si rivolge per continuare l’abitudine di passare l’estate in Messico e in America Latina: “le avevano chiesto quando doveva rientrare. Lei era rimasta in silenzio per un po’, raggelata. Non aveva bisogno di tornare (…). Non doveva andare in nessun posto, non doveva rendere conto di niente a nessuno.”

Anche il genio è relativo?

Étienne Klein, La bicicletta di Einstein, Ponte alle Grazie 2017 (pp. 227, euro 16)

David Bodanis, Il più grande errore di Einstein, Mondadori 2017 (pp. 304, euro 25)

Marie Benedict, La donna di Einstein, Piemme 2017 (pp. 347, euro 18,50)

Anche nell’epoca delle celebrities, in cui la sete di fama sembra aver reso obsoleto il desiderio di gloria, il mito del genio non sembra tramontato.

E’ vero che i primi posti della classifica dei geni contemporanei – recentemente pubblicata , non si sa sulla base di quali criteri, dal “Daily Telegraph” – sono occupati da Albert Hofmann (l’inventore dell’LSD), Sir Timothy Berners-Lee (considerato dai più l’inventore del Web), George Soros (finanziere e filantropo) e Matt Groening (il creatore dei Simpson), ma nell’immaginario collettivo la figura del genio continua a richiamare un volto  ben preciso: quello di Albert Einstein.

Ce lo conferma Étienne Klein, un fisico, non un semplice divulgatore, che illustra in termini accessibili le idee del suo illustre collega seguendo i luoghi da lui via via abitati (Le pays qu’habitait Albert Einstein era il titolo originale): “Fin da adolescente – racconta in apertura – ho sempre avuto bisogno di averlo intorno. Sulle pareti della mia stanza avevo appeso due sue foto. Su una era giovane (…); sull’altra – quella che la maggior parte di noi ha in mente – era vecchio, patito, mal vestito, aveva i capelli lunghi e occhi infinitamente tristi.” La tristezza di chi ha molto compreso dell’universo e delle relazioni fra spazio e tempo che lo attraversano e tuttavia sente che molto ancora gli sfugge? Anche peggio, stando a David Bodanis (questo sì, divulgatore scientifico): il vecchio Einstein è un isolato. Il suo rifiuto di misurarsi con le nuove teorie della meccanica  quantistica l’ha ridotto ai margini della comunità scientifica internazionale.

Tutt’altro il personaggio che incontriamo nel romanzo di Marie Benedict, del tutto aderente all’immagine affascinante cui siamo affezionati, all’inizio, ma poi, mano a mano che le pagine scorrono, sempre più compromessa da un desiderio di notorietà e da un narcisismo che la incrinano fino a renderla del tutto inattendibile. Artefice di questa drastica ridefinizione del profilo del’intelligente per antonomasia è la moglie, Mileva Maric, voce narrante di una storia drammatica della serie “dietro ogni grande uomo c’è una grande donna”. Dietro per l’appunto: pare che il professore, quando la coppia era in pubblico, gradisse che lei gli camminasse a qualche passo di distanza. Ma c’è ben di peggio, e non è neanche l’indifferenza che come padre dimostra nei confronti dei figli (contraddizioni dei grandi, si potrebbe pensare: vedi Rousseau…). Quel che grida vendetta è che il famoso articolo del 1905, quello che per la prima volta abbozza la teoria della relatività, non sarebbe farina del suo sacco, o lo sarebbe solo marginalmente. La vera autrice – stando al romanzo – è Mileva, anche lei scienziata, dotata, a differenza del marito, di un vero talento matematico, ma costretta a rinunciare allo studio e alla carriera proprio per assecondare quella di lui e crescere i loro figli. 

Si resta senza parole: è come se ci si venisse a raccontare che Sof’ja Tolstaja non si limitò a copiare più di una volta il testo di Guerra e pace, ma ne scrisse i capitoli migliori per poi veder cancellata la propria firma, che si era attesa di veder comparire accanto a quella del consorte…
Una grande storia d’amore e di disamore, dunque, quella di Benedict, che si fa leggere – come si usa dire – avendo comunque presente l’avvertenza che, sia pure molto sommessamente,  il lettore riceve (“Questo libro è un’opera di fantasia. I fatti storici narrati sono liberamente interpretati dall’autrice”).
Dovremo leggere, prossimamente, il romanzo in cui ci si rivela che – come uno studioso australiano ha del resto poco tempo fa sostenuto – capolavori come le Variazioni Goldberg non sono opera di Johann Sebastian Bach ma della moglie, Anna Magdalena?

Conoscere le emozioni che vivono in noi per comprendere gli altri

Eugenio Borgna, L’ascolto gentile. Racconti clinici, Einaudi 2017 (pp. 179, euro 18)

Si aggiunge con questo libro un nuovo capitolo alla grande opera che da anni Borgna va componendo, ogni volta illuminando temi di fondo con il suo linguaggio duttile, denso di immagini e di riferimenti culturali che esulano dal campo della psichiatria (bisognosa “della poesia se vuole guardare negli abissi insondabili della interiorità”).

Persuadendoci, in questo modo, che il suo discorso riguarda tutti e coinvolge le relazioni che anche noi, non malati, intratteniamo. Il dialogo, l’“ascolto gentile”, non è solo condizione che apre al medico la comprensione della sofferenza del paziente: “perché possa sgorgare una relazione (…) è necessario conoscere le emozioni che vivono in noi, e le emozioni che vivono nell’altro da noi con cui entriamo in dialogo. Ma come riconoscere la cascata infinita delle nostre e delle altrui emozioni (…)? Solo non stancandoci mai di guardare dentro di noi in questa ricerca continua, di quello che noi siamo e di quello che si anima nella nostra interiorità.” Che è come dire che la gentilezza dell’ascolto, lungi dal risolversi nella cortesia che ogni giorno, in diverse occasioni, ci viene offerta in quanto clienti, neanche può limitarsi ad essere attenzione e disponibilità verso l’altro, ma richiede un atteggiamento di impegno attivo e costante rivolto su di sé: “La introspezione è la premessa alla immedesimazione”. E la fiducia reciproca è la sostanza, fragile ma imprescindibile, di una relazione effettiva, sensata, proficua.
Sempre teso a persuadere, più che a dimostrare, il discorso di Borgna  è comunque ricco di indicazioni, di prescrizioni inaggirabili, di distinguo non negoziabili fra psichiatria come relazione d’ascolto e pratica di senso da un lato, e, dall’altro, psichiatria “risucchiata  nel solco delle scienze naturali” e quindi portata a sostituire ai significati  le cause. Non si risolve tuttavia in un esercizio critico di natura teorica, ma mostra sempre la sua origine dall’esperienza, e fondante, in questo senso, appare quella condotta nel manicomio di Novara, sulla quale l’autore si sofferma prima di proporci i racconti clinici che formano il libro. A partire da un caso di depressione, di quella depressione, non psicotica, “che ciascuno di noi può incontrare nella sua vita” – sotto forma di “malinconia, o tristezza dell’anima, o male di vivere” –  e che, nella vicenda trattata, trova una soluzione “nel silenzio, ancor più che (nelle) parole” dello psichiatra, il quale non arretra davanti agli annunci di suicidio della paziente, sapendo – sulla scorta dell’intuizione di Holderlin – che proprio “dove è il pericolo, cresce | anche ciò che dà salvezza”. Diverso il caso di una depressione psicotica, nella quale si rendono indispensabili farmaci antidepressivi, utili tuttavia nella misura in cui chi cura garantisce “una presenza silenziosa” capace di “testimoniare una vicinanza intessuta di ascolto e gentilezza, di accoglienza e tenerezza.” Un atteggiamento che non può recedere neanche in presenza di casi solitamente identificati con il termine – evocativo di inguaribilità – di schizofrenia, “una forma di vita dolorosa e straziante nella quale continuano nondimeno a risplendere le luci della umanità”.

Un atteggiamento, quello indicato da Borgna, che non riguarda comunque solo chi si occupa professionalmente di queste sofferenze: non si stanca, l’autore, di chiederci di non dimenticare che “l’essere lambiti dalla tristezza, e dal dolore dell’anima, è esperienza comune a ciascuno di noi, ma siamo tentati di non coglierne i significati se non quando siamo noi a soffrirne”.

Un enigma con cui convivere

Claudio Morandini, Le pietre, Exorma 2017 (pp. 189, euro 14,50)

 “Voialtri che state in città credete che basti dire che non ci sono più le stagioni, e vi pare di aver fatto lavorare il cervello. (…)

Però così è facile, troppo facile. In realtà noi, che sul ritmo delle stagioni ci abbiamo sempre campato, ci siamo accorti che non è che le stagioni non ci siano più: ce ne sono troppe, piuttosto, le une ammucchiate addosso alle altre, e si alternano come fossero mesi o settimane.” Per cui, i montanari di Sostigno, da secoli abituati  alla transumanza verso gli alpeggi di Testagno, sono ora costretti allo spostamento non più una volta ma addirittura sette volte all’anno. E’ tutto un andare a venire con le loro bestie e le masserizie, e fosse tutto qui. Il torrente cambia letto a sorpresa, ora distruggendo gli orti ora inondando il paese. Ma è ancora altro a rendere difficile la vita: le pietre. Portate dal torrente, o cadute dalle montagne che sovrastano il paese e a poco a poco si disfano. Quel che non si era mai visto, però, e che queste pietre sembrano vive: camminano come animali, crescono come frutti, penetrano persino nella casa di due pensionati che in montagna avevano cercato la pace e che dalla montagna sembrano invece perseguitati, con la loro villetta assediata, il soggiorno invaso. Dalle pietre.
Una metafora dell’estraneità, o dell’ostilità addirittura, della montagna rispetto alla città? Come nel precedente Neve cane piede (Exorma 2015), il racconto scoraggia ogni interpretazione che cerchi di sciogliere l’enigmaticità della situazione. Neanche la vita dura dei montanari e lo spopolamento del loro habitat, pur richiamati esplicitamente, appaiono il riferimento ispiratore: la triste constatazione che “quando piove sui poveri piovono pietre” non si potrebbe dire fuori luogo, ma il film di Ken Loach – il cui titolo deriva appunto da quel proverbio inglese – non c’entra. Come risultano infondate le interpretazioni in chiave di castigo divino avanzate dal parroco, o quelle di stampo scientifico che i geologi – altra gente di città – propongono.
Non c’è da cercar significati reconditi o metafore velate e suggestive nei racconti di Morandini. Lui si preoccupa, è vero, di dirci da dove gli è venuta l’idea (una vecchia “storia  religiosa e civile” della sua Val d’Aosta, in questo caso, in cui si parlava di “pierre frappants” viste nella valle di Gressoney nel 1908), ma poi la narrazione va per la sua strada e basta a se stessa.

Anche le assonanze letterarie lasciano il tempo che trovano, presto contraddette dal seguito della lettura: se Neve cane piede faceva pensare – lo si notava in questi “appunti per i lettori” oltre un anno fa – un po’ a Rigoni Stern, per l’ambiente, poi al Verga di Rosso Malpelo e infine all’Uomo nell’Olocene di Frisch, qui sono se mai Dino Buzzati e i misteri ambigui dei suoi racconti a venire in mente. Ma è come se l’andamento tranquillo della narrazione, e la semplicità della lingua cui ricorre (appartiene a uno di loro,  a un paesano, la voce narrante), finissero con lo stemperare l’inquietante inspiegabilità del fenomeno, e con l’annegare la sua drammaticità nella rassegnazione di chi in montagna si è ostinato a restare. Con le pietre occorre convivere, anche quando si fanno invadenti e ti entrano in casa.
Sono se mai certe immagini di Magritte a balenare, alla fine: quelle enormi pietre che se ne stanno posate sul pavimento lucido di una stanza…

Storie taciute, storie raccontate

Ombre. Racconti ispirati ai dipinti di Edward Hopper, Einaudi 2017 (pp. 300, euro 18,50)

A volte, quando si scorrono i programmi della tv o si erra da un canale all’altro cercando qualcosa di vedibile, vien da chiedersi se le uniche storie da mettere in (tele)film siano quelle di assassini e maniaci.

Sembra che alla gente “normale” non capiti niente di interessante, che i giorni che ordinariamente si vive non portino niente che valga la pena di raccontare.
E la cosiddetta “vita quotidiana”? con le sue abitudini, la sua noia, le sue solitudini, i suoi momenti sospesi, fra il dominio del pubblico e i recessi del privato, in cui senza esserne davvero  consapevoli si fan bilanci della propria esistenza, senza trarne conclusioni ultimative o giudizi definitivi, mai, ma tornando a misurarne la qualità. O il senso, addirittura.
Sono questi momenti che troviamo nei quadri di Hopper, che proprio per questo ci piacciono, e piacciono a un numero di persone che va molto oltre la cerchia dei colti in fatto di pittura. Non succede niente in quelle scene. Eppure sta succedendo tutto. In quell’esatto momento, crinale che una storia ha raggiunto e sta per valicare, riprendendo a rotolare in quella corsa inarrestabile che abitualmente, un po’ distrattamente, si è soliti definire vita.
Hemingway diceva che un racconto è come la punta di un iceberg: è il decimo di una storia che riusciamo a sapere, mentre tutto il resto no. Resta sotto. Lo scrittore vero non ce ne parla, e lì sta il segreto della sua arte, e del nostro piacere di lettori.
E dunque bella idea quella di chiedere a scrittori di professione di inventare storie a partire dalle scene, dagli ambienti, dai personaggi che Hopper ha racchiuso nei suoi quadri. La scelta agli autori, sia del quadro che del modo di imbastire la narrazione: prendendo lo spunto da quel che si vede per esempio.
Dalla donna nuda che si esibisce in uno spogliarello.

O dalla ragazza in abiti succinti che si intravede dalle finestre illuminate del suo appartamento.

O, ancora, dall’uomo che legge il giornale mentre la donna accarezza un tasto del pianoforte.

(Anche questi visti dalla finestra della loro casa. Non è casuale: Paolo Cognetti dice che, se un romanzo è la casa, un racconto è quel che vedi da una delle sue finestre).

Oppure, il racconto può essere già avviato quando si arriva alla situazione che il quadro rappresenta: ai tre personaggi che non si sa che cosa tenga in attesa nella hall di un albergo, per esempio. 

O ai silenziosi personaggi che sembrano non sapersi risolvere a lasciare il caffè ancora aperto anche se è tardi, nel quadro forse più famoso di Hopper, Nighthawks, Falchi della notte

O alla donna che legge un libro in poltrona mentre l’uomo fuma una sigaretta davanti alla finestra (da questa parte della finestra, stavolta, ma in ogni caso lì, sul confine fra spazio pubblico e spazio privato, appunto, dove pare scocchi il più delle volte la scintilla di cui la storia ha bisogno per divampare).

E sì che Edward Hopper non era un narratore, ci si ricorda opportunamente nella prefazione: “s’interessava soprattutto alle forme, al colore e alla luce, non al significato o al valore narrativo di un immagine”, per cui “i suoi quadri non raccontano storie”. Già: a meno che le storie siano proprio quelle lì che vediamo, e non ci sia molto di più da raccontare, come se oltre a forme colore e luce non ci fosse poi granché da stanare, e la verità più essenziale delle donne e degli uomini, così come dei luoghi a volte disabitati che Hopper ci propone, stia esattamente in quel loro esserci, lì, in quel momento, e sia tanto profonda ed essenziale, appunto, da brillare d’un’autenticità priva di suoni e parole, che la intaccherebbero, la sporcherebbero. (Non sarà un caso se nella mostra di tre anni fa, a Bologna, alle opere del pittore americano era  venuta l’idea di accostarne alcune di Giorgio Morandi).
E dunque? Partire da un quadro di Hopper per immaginare quel che veniva prima ed è venuto dopo, una storia insomma, non sarebbe poi la bella idea che ci era sembrata nel prendere in mano questo libro?
Forse no, l’idea è originale, e difatti li si legge d’un fiato questi racconti (soprattutto quando la mano è quella di Joyce Carol Oats o di Stephen King). Senonché si tratta di spy story, di noir, di piccoli saggi di ordinaria cattiveria. E allora il dubbio resta: e se fossero state storie d’ogni giorno, storie che potrebbero capitare – o sono capitate, magari – a ciascuno di noi,  storie senza violenze ossessioni intrighi e sangue? Se fossero stati, a comporre questo libro, racconti di quei giorni in cui si direbbe che non è successo niente, i giorni che quasi sicuramente si dimenticheranno, anche se sono i più e fanno la vita?  Non sarebbero state storie più aderenti, più fedeli al genio pacato e inquieto di Hopper?

L’opacità del presente e la scrittura

Annie Ernaux, Memoria di una ragazza, L’orma 2017 (pp. 236, euro 18)

“Il testo mancante, sempre rimandato”: all’“autobiografia collettiva” che ha decretato il successo di Annie Ernaux anche in Italia (Gli anni, Orma 2015) e a tutto il suo percorso precedente, segnato da più di dieci romanzi, mancava un capitolo.

Credevamo di sapere tutto di lei, o almeno l’essenziale, e invece era rimasto “un buco inqualificabile”, e insieme una sfida che non poteva più essere elusa: quella di “testare i limiti della scrittura” – quasi che i “libri precedenti (fossero) solo approssimazioni” – raccontando finalmente un episodio avvenuto cinquant’anni fa, nella prima giovinezza. Niente di eccezionale: la prima volta, l’iniziazione sessuale, marca tutte le vite, e non è affatto raro il caso che si sia rivelata una delusione, una  smentita, drammatica o grottesca, dell’aspettativa creata dal Desiderio. Ma nell’esistenza  dell’autrice ha segnato un passaggio cruciale, che ha messo in discussione l’immagine ancora labile e indefinita che la diciottenne aveva di sé. L’esito è stato un sentimento pervasivo di vergogna, di inadeguatezza, che si è rappresentato negli eccessi della bulimia e poi in uno stato di  “glaciazione interiore”.

La ricostruzione della propria identità di brava ragazza dovrà pagare il prezzo di una rimozione mai davvero compiuta: il rimosso, in questo caso, più che tornare inaspettato resterà in attesa e infine si imporrà chiedendo di essere riportato alla luce. Attraverso la scrittura naturalmente, alla quale  in quest’ultimo romanzo non si chiede più soltanto di  “salvare qualcosa del tempo in cui non saremo più” (così, negli Anni), ma anche di far luce sull’“incomprensione di ciò che si vive nel momento in cui lo si vive”, sull’“opacità del presente”. Si tratta di un aggiornamento o quanto meno di una precisazione sostanziale: il potere della scrittura non si esercita solo sul passato, ma si estende al presente. Perché – questa l’intuizione con cui il libro si chiude – è proprio “la mancanza di senso di ciò che si vive nel momento in cui lo si vive che moltiplica  le possibilità della scrittura”. Possibilità che sembrano aprire a  una reciproca trasparenza fra passato e presente, a permettere di  “esplorare il baratro tra la sconcertante realtà di ciò che accade nel momento in cui accade e la strana irrealtà che, anni dopo, ammanta ciò che è accaduto”.