Amiamo le nostre ossessioni

Nadia Terranova, Addio Fantasmi, Einaudi 2018 (pp. 202, euro 17)

A che punto si è nella vita: forse è questo che dei loro protagonisti vorremmo i romanzi ci dicessero, e il racconto fosse lo spazio necessario per dirci delle ragioni e dei percorsi che li han portati lì. Leggere romanzi è anche questo: confrontarsi con le storie di altri per ricavare spunti utili a far luce sulla propria, a farsi un’idea del punto cui ciascuno di noi è arrivato.

La vita di Ida è di quelle segnate da un prima e un dopo. Lei è nel dopo, ma non sa dimenticare il prima né tanto meno la linea che ha separato le due parti in cui la sua esistenza si è divisa. Ci sarà uno stacco ulteriore, una seconda cesura capace di restituirle una vita sua? Il titolo ce lo fa pensare, l’inizio no: la madre l’ha chiamata a Messina perché ha deciso di sistemare la casa in cui la famiglia abitava, in cui lei ha continuato ad abitare; in cui ha abitato anche il marito, il padre di Ida –fino al giorno in cui, senza preavviso, se n’è andato, è scomparso, annientato dalla depressione – e anche la figlia ha abitato, prima di trasferirsi a Roma, trovare un lavoro (scrive “finte storie vere” per la radio) e sposarsi, con un uomo gentile, con il quale però il desiderio si è esaurito. E il desiderio, quando si è incrinato, non si può “rattoppare”, neanche se si è ancora giovani, poco più che trentenni, e quel che resta sono allora la tenerezza, la comprensione, la solidarietà. Perché i matrimoni, tutti i matrimoni si arenano “imprigionati nella pretesa di avere accanto un’unica persona a cui abbiamo chiesto di farci da amante, compagno, familiare, amico, per poi assistere devastati all’inevitabile franare di una di queste definizioni o di tutte insieme.” Sono parecchie le pagine riservate al tema del rapporto fra uomini e donne, ma non è, questo, l’unico fulcro attorno al quale la narrazione si addensa: la madre ha chiamato la figlia per svuotarla, quella casa, non solo per sistemarla in vista di una possibile vendita. E qui emerge il discorso sugli oggetti, e sul loro essere appigli essenziali, veicoli imprescindibili della memoria: “Non voleva che un giorno potessi rinfacciarle di aver dato via i miei oggetti, bisognava che tornassi per scegliere cosa lasciar andare. Pensai che era facile, perché, a parte una scatola di ferro rosso custodita in fondo a un cassetto, non tenevo a niente.” Una scatola di ferro rosso: “dal momento in cui un oggetto compare in una narrazione, si carica d’una forza speciale”, notava Calvino, ed è questo il caso, come scopriremo nelle ultime pagine. Ma prima di arrivarci occorre attraversarne altre, pervase da un dire teso, accorato, incerto della propria necessità eppure costretto da un bisogno di ricostruire, capire, dissezionare i sentimenti, evocare fino allo stremo quel passato che non sa passare, quel lutto non elaborato dalla madre e tanto meno dalla figlia, e tuttavia  marcando passi avanti, sempre precari  ma capaci di fissarsi in frasi, in immagini che sostanziano la vicenda, la rendono unica, ne mettono in luce aspetti che vanno oltre di essa e ci raggiungono. A partire, appunto, dai passi dedicati alle cose che ci seguono nella vita, che conserviamo e finiscono per assumere la fisionomia di “speranze inutilizzate”. Perché “la vita non si fa con i residui”, e gli oggetti, anche i più cari, i più evocativi, “non sono affidabili”, e “i ricordi non esistono, esistono solo le ossessioni”. E ossessivo è il dolore della perdita del padre: “Hai permesso al tuo dolore di divorarti – dice a Ida l’unica amica rimasta nella città natale – e la tua ferita è diventata più grande di te. Vivi come una schiava, sei la schiava di quello che ti è successo”. E lo ammette la stessa protagonista: “Amiamo le nostre ossessioni, e non si ama ciò che ci rende felici”.

“Una diade ossessiva” è anche quella formata da madre e figlia: “sbranarci era una forma d’intimità”, riconosce Ida, che ha capito “cos’è davvero una madre: qualcosa da cui non esiste riparo. Dicono che una madre dà tutto e non chiede niente; nessuno dice invece che chiede tutto e dà ciò che non chiediamo di avere.”

Scrivere allora. Quelle storie per la radio: “io riuscivo a tollerare il dolore solo scrivendone, e trasformandolo in invenzione potevo trovare quella pace che nella quotidianità mi mancava”; “i fatti scorrono accanto a noi mentre ci illudiamo, un giorno, di dominarli. Ecco perché mi rifugiavo nelle mie finte storie vere: su di loro io esercitavo una signoria assoluta. Di quello che scrivevo ero sovrana. (…) Scrivendo, mi illudevo di essere autarchica.”

Non dalla scrittura però ma da un oggetto, anzi dai due oggetti riposti ventitre anni prima in quella scatola rossa, verrà la liberazione: dalla pipa appartenuta al padre e dalla sua voce, registrata in un’audiocassetta. Perché sono l’odore e la voce, “le due tracce più volatili”, a riportarci la vicinanza di chi è assente. Una vicinanza che può tuttavia risolversi nella distanza necessaria per vivere, finalmente.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La lezione attuale e opportuna di un grande scrittore

Giuseppe Pontiggia, Le parole necessarie. Tecniche di scrittura e utopia della lettura, Marietti 1820, 2018 (pp. 107, euro 9,50)

“Contribuire alla formazione di una coscienza del linguaggio che sia insieme etica e retorico-espressiva”: i corsi di Pontiggia – di cui il libro offre brevi significativi saggi – avevano di mira “l’acquisizione di un linguaggio responsabile”, non per questo disposto a rinunciare a convincere (“vincere con l’accordo dell’altro”) grazie “alla persuasione in una duplice valenza: psicologica ed estetica”. Che è come dire: si tratta di scegliere con accuratezza le parole e usarle a proposito, con rispetto, in primo luogo, e poi combinarle senza disdegnare il ricorso all’arte della retorica, un’arte ingiustamente assimilata all’ipocrisia o all’inutile sfoggio: di fatto, non più riconosciuta nelle sue valenze positive e dunque dimenticata dalla scuola (un po’ come la paziente pratica della scrittura manuale). E, prima di esser dimenticata, osteggiata dalla cultura idealistica che assimilava la retorica ad una tecnica, ossia ad un sapere minore e puramente strumentale.

Discorsi, quelli di Pontiggia, che suonano tanto attuali da apparire stridenti di fronte alle semplificazioni linguistica e alla povertà argomentativa dell’odierno linguaggio pubblico (solo pubblico? Come parlano fra loro i giovani, soprattutto sui social?). L’autore stesso, del resto, era consapevole del “deterioramento del linguaggio”, di cui “l’invadenza dei gerghi”, dei linguaggi specialistici è un fattore decisivo: linguaggi che rappresentano “una scorciatoia pericolosa”, che contraddice la capacità del linguaggio di “esplorare esperienze nuove e diverse”, sottintendendo un “accordo preliminare” quanto molto spesso inesistente tra chi parla e chi ascolta.

D’altra parte non si può insegnare a scrivere, non c’è scuola di “scrittura creativa” che possa far diventare scrittore chi non possiede quella vocazione alla scrittura che è tanto indefinibile quanto indispensabile. Non si nasce scrittori, ma lo si diventa per vie che l’insegnamento non può artificialmente riprodurre. È meglio allora concentrarsi sul possibile, sul “migliorare la qualità espressiva” ad esempio, anzitutto studiando modelli di scrittura efficace, individuando i meccanismi ad essi sottesi, e poi passando in rassegna gli errori più comuni, e non rifuggendo da una critica reciproca dei testi che sappia indicare senza infingimenti e genericità che cosa va bene e che cosa non va. 

Scrivere, ma anche parlare: non sappiamo far bene né l’una né l’altra cosa, e non conviene prendere esempio da molti intellettuali che parlano “come libri stampati” e “dunque non parlano. Non si servono della parola con energia e convinzione.”  Quanto ai “nostri politici”, osserva Pontiggia, “molte volte non sono all’altezza” della “forte educazione retorica” che posseggono (e qui – solo qui, ma occorre riconoscerlo – il discorso appare decisamente datato…).

Non si scrive e non si parla soltanto, comunque: si legge, o converrebbe farlo: “Pontiggia – osserva Daniela Marcheschi nella sua introduzione – insegna a leggere e nello stesso tempo offre indicazioni per scrivere” e, offrendo indicazioni per scrivere, contemporaneamente insegna a leggere”. Ma ha ugualmente presente la dose di velleitarismo che inevitabilmente si annida nelle campagne di promozione della lettura: “perché il libro non è, come la carne, una tentazione universale. È una vocazione individuale”, ed è altamente “improbabile che il libro possa diventare di moda”. Piuttosto, “se c’è una moda che il libro può perseguire è di essere orgogliosamente fuori moda.”

La scrittura e la vita

Annie Ernaux, La vergogna, L’orma 2018 (pp. 125, euro 15)

“Ho riportato alla luce i codici e le regole degli ambienti in cui ero rinchiusa. Ho inventariato i linguaggi dei quali ero impregnata e che plasmavano la mia percezione di me stessa e del mondo.” La drogheria dei genitori; la loro subalternità psicologica e culturale, “prova dell’esistenza di due mondi e della nostra inconfutabile appartenenza a quello di sotto”; la chiusura del paese, un mondo altro rispetto alla città solo fantasticata; il complesso di usi, norme, abitudini che scandiscono il tempo della giornata, dell’anno, della vita; l’orizzonte ristretto e gravato di precetti, detti e non detti, dell’istituto religioso che lei frequenta: il mondo della giovanissima Ernaux ci era noto dai libri che L’orma ha ripubblicato negli ultimi anni. In questo – già uscito da Rizzoli nel 1997 – un elemento nuovo si aggiunge senza potersi amalgamare al contesto. Né nel proprio mondo interiore né in quello che la circonda, la dodicenne sa infatti inscrivere la “scena di quella domenica di giugno”: “Mio padre ha voluto uccidere mia madre”, è la frase con cui inizia il romanzo. Non l’ha fatto, e tutto è continuato come prima. Tutto tranne un sentimento nuovo che costituisce l’unico, il più profondo fra la donna adulta, che ne scrive, e la ragazzina di allora: la vergogna. La vergogna che si è come rappresa in quella scena: se un fatto del genere è accaduto nella mia casa, “non sono più degna della scuola privata, della sua eccellenza e della sua perfezione.” Quello che è avvenuto, anche se non ha avuto conseguenze ulteriori, riduce all’isolamento chi ne è stato testimone: “L’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla”, e in essa “c’è questo: la sensazione che possa accaderci qualsiasi cosa, che non ci sia scampo, che alla vergogna possa seguire soltanto una vergogna ancora maggiore.”

Ma al di là dei fatti, del loro vissuto, dell’ambiente – e dell’epoca, perché anche in questo romanzo Ernaux sa dilatare la memoria individuale in quella collettiva – in cui si verificano, un altro itinerario di riflessione percorre come sempre le pagine di Ernaux: “non posso cominciare a scrivere davvero senza fare luce sulle premesse della mia scrittura”. Né è possibile adagiarsi nella suggestione del narrare. “Già solo dire quell’estate, o l’estate dei miei dodici anni, rende romanzesco ciò che all’epoca non lo era, non più di quanto lo sia per me, oggi, nel 1995, questa estate in cui sto scrivendo”. Scrivere non garantisce, di per sé, il guadagno di una visione in grado di gettare nuova luce sul passato: “sto iniziando un nuovo libro, mi sono assunta il rischio di aver rivelato tutto fin da principio. Ma in realtà non ho svelato nulla, se non i nudi fatti.” Perché, nonostante lo scopo dello scrivere questo romanzo sia quello di “ritrovare le parole attraverso le quali pensavo me stessa e il mondo circostante”, “la donna che sono nel ’95 è incapace di ricollocarsi nella ragazzina del ’52”. Occorre riconoscerlo: “non esiste un’autentica memoria di sé”. E cercare di contrastare questo dato, evocando il se stesso di un tempo, può avere un risultato paradossale: “Mi fa sentire e mi conferma la mia frammentazione e la mia storicità”.

Neanche quando si è coerenti, coraggiosi, essenziali come Annie Ernaux; neanche quando si dispone di una capacità di narrare e di narrarsi come la sua, neanche allora la vita accetta di risolversi nella scrittura, neanche allora la scrittura sa riscattare davvero la vita.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Scrivere di sé: le ragioni, le pratiche, i guadagni

Ludovica Danieli, Donatella Messina, A scuola di autobiografia. Gràphein, Mimesis 2018 (pp. 140, euro 12)

Il sottotitolo rimanda alla pratica alla quale la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari da vent’anni avvicina coloro che, secondo percorsi e gradi di approssimazione diversi, hanno individuato nella scrittura una risorsa per la vita e nello scrivere di sé la via per accedervi (“Il progetto di scrivere la mia storia ha preso forma quasi contemporaneamente al progetto di scrivere”, diceva Georges Perec). Una Scuola di scrittura autobiografica, quindi, che tuttavia non si può confondere con le numerose scuole di scrittura che al di là delle intenzioni, finiscono nella maggior parte dei casi per limitarsi a trasmettere regole e tecniche, più o meno efficaci.

I presupposti della Lua e le sue finalità traggono spunto dal pensiero di Duccio Demetrio e dalla sua concezione dell’autobiografia come cura di sé (come recitava il titolo del libro pubblicato alla vigilia dell’avvio dell’esperienza di Anghiari: Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Cortina 1996). “Un luogo accogliente, tranquillo, silenzioso” e la possibilità di godere di un “tempo per sé” sono dunque ciò che in primo luogo si offre: silenzio e solitudine, condizioni ma anche sostanza dello scrivere, insieme tuttavia allo scambio, a un confronto con gli altri improntato alla “cura”, intesa come forma della relazione, e alla sospensione del giudizio sulla propria e l’altrui scrittura. È lo “stare individualmente insieme” di cui parlava Bauman, la condizione di fondo che si persegue, il quadro entro il quale lo scrivere di sé può evitare il rischio del ripiegamento narcisistico e l’illusione dell’autosufficienza per consentire invece un avvicinamento al “nucleo centrale” che costituisce ognuno di noi, che ci fa simili e allo stesso tempo unici. Avvicinamento, mai compiuto disvelamento, perché la scrittura non ci restituisce una verità, oggettiva e inconfutabile, su noi stessi e la nostra vita, ma permette di individuare i nodi della nostra esistenza riattivando la memoria, rivisitando i ricordi, recuperando la dimensione collettiva entro la quale si sono formati.

Non è un’operazione semplice, attuabile a partire semplicemente dal desiderio di scrivere di sé: incertezze e resistenze vi si oppongono. Occorre interrompere la “voce interna che sembra colonizzare il pensiero”, sono necessari il coraggio di esporsi e insieme l’umiltà di riconoscere il proprio limite per accettare e dar corso all’umana aspirazione a lasciare una traccia della propria storia.

È per questo infatti che si scrive, secondo molti che della scrittura hanno fatto il loro lavoro: si scrive perché si ha paura della morte, ma anche perché si ha paura della vita; si scrive per dare sbocco alla nostalgia dell’infanzia, ma anche per attenuare il rimpianto, o il rimorso, per le scelte non fatte, che hanno determinato la nostra vicenda quanto quelle fatte, e dunque per “avvolgere il dolore in una rete di parole”, per riuscire a sentirlo come parte ineliminabile e costitutiva di sé; si scrive dunque per trovare un senso della nostra esistenza. Ma anche per giocare: per giocare con la serietà di cui sono capaci i bambini.

Non solo il coraggio di osare e l’umiltà di farlo con senso della misura, occorrono per scrivere, ma anche introspezione e insieme presa di distanza da se stessi, quella sorta di “bilocazione cognitiva” che si rivela come un guadagno sul piano della conoscenza di sé, ma anche su quello più propriamente esistenziale, incoraggiando la rinuncia a collocarsi sempre “nel fare, nell’agire, nell’accelerare”, quando invece si tratta, scrivendo, di “rallentare, fino a fermarsi, rispettare le indecisioni, le interruzioni, le soste e gli intermezzi”. Una sospensione della logica dell’efficienza è necessaria, un sottrarsi al dominio della ragione strumentale che governa i nostri giorni.

Scrivere, come risulta evidente, è sempre riflettere sullo scrivere, ad Anghiari. È recuperare la fiducia, il rispetto delle parole in tempi nei quali sono spesso piegate ad assumere significati diversi o addirittura opposti al loro. È riconoscere la propria identità in tempi nei quali essa sembra dipendere da imprecisati quanto aggressivi distinguo fra noi e loro. Nella consapevolezza, sempre, che “la scrittura non salva ma ripara”, e “rivitalizza l’invito ad esserci, perché “la penna diventa l’oggetto simbolico attraverso i quale ci si riconnette al sentimento più vasto dell’arrendersi alla vita”.

L’unico modo per viverla davvero, forse.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

L’avventura di due sposi

Maurizio Maggiani, L’amore, Feltrinelli 2018 (pp. 200, euro 16)

Sì, il titolo mantiene quel che promette: disseminato in queste si può rintracciare un trattato De l’amour, l’amore per la “sposa” – una moglie c’è, una sposa la si sceglie ogni giorno. Un amore che si intreccia a far tutt’uno con l’amore per la vita, un amore per nulla astratto, fatto invece di quello che la giornata porta, del saper godere di quello che si ha, del sentirsi parte dell’insieme più vasto delle piante, degli animali. Senza dimenticare la fragilità di tutto questo, ma senza lasciarsi avvelenare i giorni dal senso della caducità, perché il “mancare” – di qualcuno che si amava, di cui si era amici – “è un fatto, una verità” e “mancare è una buona parola, è l’unico buon modo per spiegare che c’è la morte”. Del resto, “cosa ne sappiamo noi della morte, niente di niente…”. E allora di vivere, si tratta, all’insegna di un ottimismo pacato, estraneo ai toni di quello obbligatorio della pubblicità e dei consumi, fondato invece sulla certezza che “c’è sempre un buon modo di fare”, che “si può imparare un buon modo per fare ogni cosa”, e le cose possono sempre “prendere una piega inaspettata e promettente”.

La scrittura divagante di Maggiani, digressiva nei contenuti e a tratti apparentemente stralunata, è percorsa da un’ironia serena fatta non per prender le distanze ma, al contrario, per esercitare uno sguardo pregiudizialmente empatico nei confronti degli altri, ripercorrere momenti della propria vita, ricordare incontri, amicizie, amori: il tutto nell’arco di una giornata, di una comune giornata, illuminata dalla superiore intelligenza della gentilezza, della bonomia, della pietas, fin che viene sera e si cucina per lei, in ciò celebrando il “sacro” che ancora resta nel nostro mondo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

“Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self…”

“Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…”

(Italo Calvino)

Ti guardo, e lagrimo, / Venezia mia! / (…) La voce manca, / Sul ponte sventola / Bandiera bianca!*

Francesco Erbani, Non è triste Venezia. Pietre, acque, persone. Reportage narrativo da una città che deve ricominciare, Manni 2018 (pp. 232, euro 15)

Vero: non è triste. È disperata. E noi con lei.

Questo viene da pensare leggendo il “reportage narrativo” del giornalista di “Repubblica”. Che a Venezia esistano – come si illustra nel primo capitolo – “le condizioni per prefigurare un organismo urbano del futuro” e che siano presenti nella città occasioni e soggetti che esprimono una “resistenza” – vedi l’ultimo – non basta a bilanciare la rabbia e la desolazione che gli altri cinque capitoli suscitano: la Laguna è “maltrattata”, dopo secoli di sapiente convivenza con i veneziani ridotta a semplice contorno  della città; la quale a sua volta si è spopolata – innanzitutto per la differenza fra nati e morti – e, coi suoi poco più di cinquantamila abitanti viene simbolicamente oltre che economicamente e fisicamente “mangiata dal turismo”. “Una città di crociera” dalla quale non si sa bene come e quando verranno espulse le grandi navi e è destinata per anni ancora ad assistere alla tragicommedia del Mose, “scandalo infinito” che ha attraversato stagioni politiche fra loro diverse.

Dati aggiornati e incontri con intelligenze critiche vive nella città – a partire da quella di Edoardo Salzano – sono l’opportunità indubbia che il libro offre. Ma perché dargli quel titolo? Non si può scrivere se non ci si legittima nell’universo dell’ottimismo obbligatorio?

A quanto pare sì: Se Venezia muore, si intitolava il libro che Salvatore Settis ha dedicato alla città (Einaudi 2014).

* Arnaldo Fusinato, L’ultima ora di Venezia (19 agosto 1849)

Scrivere/descrivere

Jhumpa Lahiri, Dove mi trovo, Guanda 2018 (pp. 169, euro 15)

Una madre che lascia un biglietto di ringraziamento per chi ha acceso un lume sulla tomba del figlio: invisibili, sia lei che l’autore del gesto pietoso; solo due baci sulle guance con l’uomo che potrebbe essere il suo amante (“Senza dirci nulla sappiamo che, volendo, potremmo avventurarci in qualcosa di sbagliato, anche inutile”); non una parola all’amica che va da lei a raccontare i suoi guai (“Non le dico niente, voglio bene alla mia amica, le permetto di sfogarsi”); lo sguardo del signore che resta in silenzio ma è come le parlasse (“Non cerca di rassicurarmi, solo di farmi capire che capisce”): si direbbe siano solo i rapporti che non si realizzano, che non si consumano nelle parole, a dare qualcosa, a risultare a loro modo significativi. Ma si tratta sempre di un significato solo intravisto, imminente forse, sull’orlo del quale comunque la protagonista si ferma, presentendo forse la delusione, l’impoverimento che deriverebbero dal voler dire, spiegare. E allora meglio contemplare la dilazione, limitarsi al sospetto della presenza di un senso in quel che accade dove ci si trova, e limitarsi a descriverlo, godendosi “il piacere di prendere una penna calda in mano all’aperto e scrivere, magari, due righe”. 

E’ fatto di pezzi brevi questo libro, e scritti con una levità che fa pensare avrebbero potuto in parecchi casi risolversi in poesie. Ma una narrazione c’è: quello star a guardare le cose che succedono intorno, e fra quelle anche se stessi, rivela un risvolto di dolore. Mano a mano si procede nella lettura, quella che era apparsa saggia cautela lascia intravedere una mancanza, un’incapacità: “I miei colleghi tendono a ignorarmi e io ignoro loro. Forse mi trovano ispida, scostante, chi lo sa. Siamo costretti a essere vicini, sempre irraggiungibili, eppure mi sento alla periferia di tutto”. E’ qui, in una irreparabile periferia esistenziale che davvero si trova la protagonista? Ed è allora per questo che titola puntualmente i suoi brani con un riferimento al luogo, alla stagione, alla situazione in cui si trova? Un trovarsi che non è sinonimo di esserci, ma piuttosto il frutto di un ininterrotto cercarsi nonostante la vita si riveli fatta sempre di perdita: “non posso fare a meno di rimpiangere la mia giovinezza malandata, per niente trasgressiva”; “riempio la mia agenda, quella che mi compro alla fine di ogni anno sempre nella stessa cartoleria, della stessa misura e dello stesso spessore. Taccuini di vari colori che inevitabilmente con gli anni si ripetono: blu, rosso, nero, marrone, rosso, blu, nero, e così via. Ecco la collana poco variata della mia vita”; “mi rendo conto per l’ennesima volta di avere un viso che mi ha sempre deluso. Ogni sguardo mi costa, ecco perché tendo a evitare gli specchi”. Ma non è solo da se stessa che lei ricava questo senso di desolazione. Anche gli altri si rivelano soli, ognuno chiuso in un mondo a sé. A partire dalla madre (“Sara la paura della sua paura che mi ha condotta a una vita così?”), e dal padre (“Spendere due soldi, comprami qualcosa di bello ma in fondo non necessario mi ha sempre angosciato. Sarà stato per via di un padre che contava scrupolosamente ogni moneta prima di darmela?”). Eppure l’esperienza famigliare non basta a rende conto dell’isolamento che vediamo, che viviamo: “La piscina è molto grande, ci sono varie corsie e siamo quasi sempre al completo, in otto. Otto vite separate che condividono quell’acqua senza incrociarsi.”

Qualcuno ha parlato di spietatezza a proposito di questo sguardo sul mondo, su di sé, sulla propria vita.

Perché non vederci l’impegno che il realismo esige (e l’assenza del punto di domanda in quel Dove mi trovo del titolo testimonia), il coraggio che l’esattezza richiede, la consapevolezza del limite che rivela uno scrivere che vuole tenacemente risolversi nel descrivere?

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Storie vere, contro storie false

Falsi miti. Storie di migranti oltre i luoghi comuni e le fake news, a cura di Paolo Beccegato e Renato Marinaro, EDB 2018 (pp. 149, euro 10)

C’è chi lavora in iniziative di accoglienza, chi insegna italiano a chi non lo parla ma lo deve parlare, chi addirittura si imbarca sulla nave di una ong che insiste a prestare la sua opera nel Mediterraneo, ma accanto al volontariato assunto in prima persona, l’impegno a non ridursi a spettatori degli avvenimenti che ogni giorno i mezzi di informazione registrano, spesso diffondendo – anche  al di là delle intenzioni – un senso di allarme di fronte alle migrazioni, può imboccare due strade, certo non alternative. Da un lato, non perdere occasione per contrastare “i luoghi comuni e le fake news” diffondendo dati realistici e aggiornati. È la via indicata da Stefano Allievi, per esempio, con un libro minuscolo ma denso, e necessario: 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare) (Laterza 2018). Ma si può anche, abbandonando il modo di vedere diffuso – che non sa vedere differenze fra etnie, provenienze, vicende – conoscere quelli, fra i migranti, con i quali possiamo avere una relazione diretta, e così constatare che ognuno di essi è una persona, con una storia, una speranza, un progetto. È la via indicataci da scrittrici come Jenny Erpenbeck (Voci del verbo andare, Sellerio 2016) o Melania Mazzucco (Io sono con te. Storia di Brigitte, Einaudi 2016), e da questo stesso libro, che riporta “storie raccolte e raccontate”, in cui “le trame, i luoghi e i personaggi sono veri, ma sono raccontati attraverso lo stile proprio” di diversi autori”, tutti impegnati “nel variegato mondo dell’immigrazione”. Si tratta di “storie con al centro vicende umane, talvolta straordinarie, altre volte assolutamente ordinarie”: storie, non ragionamenti, non spiegazioni. Storie, nella consapevolezza che – lo diceva Jaspers – “si può spiegare qualcosa senza averlo compreso”, il che può avvenire invece “attraverso il racconto”.   

Si risolvono del resto in “narrazioni” anche i luoghi comuni, le generalizzazioni, gli stereotipi, che crescono sull’insofferenza di dati e notizie precise, di distinguo e ricostruzioni. E allora si tratta, forse, di contrapporre a narrazioni false narrazioni vere, consapevoli che la malafede nasce spesso dalla paura, dall’inquietudine suscitata da fenomeni che travalicano confini e modi di pensare consolidati, ed è alimentata dalla diffusione interessata di fake news da parte degli spregiudicati imprenditori della paura che affollano la scena pubblica.

Storie, dunque, come quelle di Amadou, “italiano nero che parla un dialetto misto tra lombardo e romano”; di Tiziana, infermiera trentenne imbracata sull’Aquarius; di Himane, nata ad Atene, la cui madre Lousa è una profuga siriana bloccata in Grecia dall’accordo fra l’Unione Europea e la Turchia; di Romeo, “uno dei circa ventimila braccianti agricoli stranieri che lavorano in provincia di Ragusa”, e di tanti altri. 

Storie, per non limitarsi ad “affrontare il tema solo in chiave astratta o, ancora peggio, in chiave moralistica”, quando è invece “opportuno – lo sottolinea Oliviero Forti in conclusione – entrare in dialogo con chi non dispone di tutti gli elementi per indagare la complessità del fenomeno. Diversamente si rischia la contrapposizione che, nel peggiore dei casi, diventa contrapposizione ideologica”. 

L’accusa di razzismo trova purtroppo sempre più spesso appigli concreti e ragioni fondate, ma non può essere scambiata per una soluzione: è sempre una sconfitta, per entrambe le parti, la rinuncia al dialogo.

Il Cognetti himalayano, dopo quello alpino

Paolo Cognetti, Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, Einaudi 2018 (pp. 112, euro 14)

Sono coppie di opposti a governare il racconto.

Il Nepal e il Dolpo. Il primo, un piccolo paese “in rapido cambiamento”, “stritolato tra l’India e la Cina, sempre più ridotto a periferia d’altri”; il secondo, “alle spalle della storia”, una vasta oasi dove gli unici segni di presenza umana sembrano “le bandierine stracciate che [mandano] preghiere al vento”.

In realtà, di persone ne incontra, il narratore: alpinisti e montanari. I primi, personaggi che animano una montagna ormai parte dell’“immensa megalopoli europea; i secondi, figure di una “montagna autentica”, non ancora trasformata – differentemente dal Nepal – dalla modernità, portatrice del “benedetto desiderato benessere” che scalza “una cultura antica, povera e destinata all’estinzione”, com’è stata anche quella alpina”. Nel Dolpo la montagna appare invece ancora curata, vissuta, diversa da quella abbandonata che conosciamo.

Sull’Himalaya, dunque, per pensare alle Alpi, e per scrivere, e disegnare, questo libro. Per scrivere ma anche per leggere, e rileggere, un unico libro uscito a fine anni ’70, Il leopardo delle nevi, di Peter Matthiesen, un libro-guida, ai luoghi e alla meditazione che essi ispirano. Prima fra tutte quella sull’“ossessione alpinistica per le vette delle montagne”, sull’“ascesa” come metafora spirituale, quando “invece il più importante pellegrinaggio tibetano consiste nel compiere in giro intorno al monte Kailash”: “i cristiani piantano croci in cima alle montagne, i buddisti tracciano cerchi ai loro piedi”.

Se non lo sapessimo, ci parrebbe di leggere in questo libro la premessa di quell’altro, Le otto montagne: “fa’ che io sappia guardare e fa’ che trovi le parole per raccontare ciò che ho visto”, è la preghiera che il Cognetti himalayano si trova a dire, e ci sentiamo la forza narrativa di quello alpino.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il senso complicato del mondo

Oreste Aime, I camaleonti. Nuovi luoghi del potere, Marietti 1820 (pp. 120, euro 10)

Dopo I Giacobini, i camaleonti, anzi: I grandi camaleonti: dopo Robespierre e Saint-Just, i  Fouché, e i  Talleyrand; dopo gli ideali della Rivoluzione, il trasformismo della politica. È a quei grandi teleromanzi della televisione di metà anni Sessanta che corre la mente di chi ne fu spettatore da ragazzo. Ma è allo shakespeariano duca di Gloucester, futuro Riccardo III, che l’autore ci rimanda all’inizio del suo saggio, alla camaleontica strategia da lui adottata al fine di “mimetizzarsi sia per evitare gli attacchi sia per attuarli”: è questa figura emblematica il riferimento dell’analisi del potere che ci viene proposta allo scopo di rispondere a due domande fra loro strettamente connesse: che cos’è il potere, qual è la sua natura? e dov’è, oggi, il potere, dove e come si manifesta?

È innanzitutto l’“ambivalenza” a segnalarsi quale carattere essenziale del potere, come, in modi diversi, illustrano i due recenti contributi di Simona Forti e di Gustavo Zagrebelsky, con i quali l’autore si confronta mettendo in luce da un lato la “domanda sul male nella sua forma di banalità o normalità, dall’altro “il nesso fra potere e libertà”. Se il riferimento di entrambi gli autori è Dostoevskij, Forti opera una serrata analisi del “paradigma” proposto dallo stesso sulla scorta di Arendt e Foucault, mentre Zagrebelsky individua nella Leggenda del Grande Inquisitore “la guida per leggere il presente e intravedere il futuro”. Un futuro che si presenta come “una forma di totalitarismo nuovo rispetto al recente passato”, innanzitutto perché capace di “coincidere perfettamente con le forme della democrazia”.

Una “prospettiva di filosofia politica per certi versi opposta”, quella di Forti e Zagrebelsky, essendo la “delimitazione del concetto di potere” da loro operata “quasi inversa”. Di qui la necessità di allargare lo sguardo su una “mappa delle questioni che ruotano attorno al potere” che si presenta assai più ampia e richiede dunque la dettagliata esplorazione che occupa la parte centrale del saggio e dopo aver definito “concetti, simboli e miti” del potere passa in rassegna le teorie che nel Novecento ne sono state elaborate producendo definizioni e descrizioni “talvolta reciprocamente alternative”. In ogni caso, da mettere ineludibilmente a confronto con l’attuale “crisi delle democrazie”, le trasformazioni profonde indotte dalla globalizzazione e dalla rivoluzione informatica, la moltiplicazione dei luoghi della decisione, l’erosione della sovranità degli stati nazionali, la personalizzazione che sempre più connota il potere politico, l’aumento delle diseguaglianze, la crescente possibilità di manipolazione delle persone. E a governare – si fa per dire – questo processo generalizzato e pervasivo, lo strapotere dell’economia finanziaria e la sua convergenza con quello – in modo del tutto analogo, programmaticamente privo di limiti – della tecnica. Quello che si è così costruito è un potere frutto di un “groviglio di sfaccettature”, assunte e insieme dissimulate, per descrivere il quale la metafora del camaleonte, nonostante la metamorfosi intervenuta, torna ad essere “indispensabile”.

La risposta alla domanda che ci si era posta – dov’è il potere oggi? – a partire dalle definizioni analizzate e dal bilancio della situazione attuale è dunque alla fine possibile: “Dall’ambito tradizionale politico, militare, imprenditoriale si è in buona parte trasferito strutturalmente nella finanza, nella tecnica, nella definizione dei rischi”, accentuando “il suo lato anonimo e spesso invisibile”. Lo dobbiamo ammettere: “Viviamo nel tempo di una profonda rivoluzione antropologica di cui ci sfuggono i contorni e la direzione”. Solo un “brusco risveglio”, come quello invocato dalla conclusiva preghiera laica di un poeta polacco, ci può dare la possibilità di misurarci con “il senso complicato del mondo”. 

Una storia misteriosa e ambigua, come la vita

Marlen Haushofer, La parete, e/o 2018 (pp. 256, euro 12,90)

Ci sono libri il cui commento potrebbe prendere altrettante pagine di quelle del testo di cui si intende parlare; romanzi che è facile sintetizzare, impossibile raccontare.

Una donna scopre, una mattina, che un’invisibile parete, spuntata non si sa perché, costruita non si sa da chi né a quale scopo, la separa dal mondo. Di qui la vita continua, la sua e quella di qualche animale, domestico e selvatico che sia; di là, la morte si è presa invece sia gli uomini che gli animali, immobilizzandoli come gli abitanti del castello della Bella addormentata.  Senonché, tra queste montagne misteriosamente tagliate in due non c’è una fata malvagia, né si sa se l’incantesimo finirà dopo cent’anni o durerà per sempre.

In principio è la parete. Tutto quel che leggiamo consegue da questo evento: come la vicenda di Gregor Samsa dalla sua trasformazione in scarafaggio, mi ha fatto notare un amico cui ho regalato il libro: altrettanto inspiegabile di quella, come quella posta quale assunto imprescindibile della narrazione, e di essa generatore.

E dunque, che cosa succede? Semplicemente che la protagonista si dà da fare per sopravvivere. Il richiamo a Robinson Crusoe è inevitabile – ed è richiamato infatti sin dalla quarta di copertina –, ma l’industriosità del naufrago, la sua borghese intraprendenza, sono altra cosa rispetto alla tenacia di questa donna, ricorrentemente tentata di riconoscere l’insensatezza del proprio sforzo; puntualmente ad esso richiamata da loro, dai suoi animali. Un cane, una mucca e un vitello, e diversi gatti che via via si succedono nel corso degli anni.

In molti romanzi troviamo, quale motivo centrale, la relazione con gli animali. In nessuno – mi sembra di ricordare – la troviamo raccontata in modo tanto preciso, fine, struggente. Sostanza della storia stessa. Pur non cambiando nulla, o molto poco, nella situazione della sopravvissuta, una storia c’è, infatti, ed è la storia intima del suo atteggiamento nei confronti della vita, degli altri esseri, del mondo, della morte. Una storia della quale, in alcune pagine, si dimentica il presupposto fantastico, e la si legge allora come la storia – ridotta all’essenziale, a quel che in fondo davvero conta – di chiunque si trovi ad attraversare l’esistenza. E sempre, tuttavia, una storia che non consente di cedere alla tentazione di intenderla come grande metafora esistenziale, perché sa mantenere, fino alla fine, la forza di una trama coesa, coinvolgente.  Ambigua, più che metaforica. Ambigua, priva di un vero finale che la risolva, e pure capace di far balenare significati decisivi. Come la vita, per chi non cessa di cercarne un senso sapendo che, ammesso ce ne sia uno, solo questa stessa ricerca ne potrà essere attestazione. Discontinua, inconcludente spesso, inconclusa sempre.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Montaigne com’era

Luca Romano, Il segretario di Montaigne, Neri pozza 2018 (pp. 235, euro 17)

“Agli occhi di un servo nessun padrone rimane per sempre un eroe”. Quando poi il padrone è chi ha scritto pagine su pagine per dire sinceramente della propria umana ordinarietà, delle contraddizioni e delle debolezze dalle quali si sente contraddistinto, la constatazione non può trovare che ulteriore conferma.

Parla con le parole e ripropone i pensieri dei Saggi il Montaigne di questo romanzo, e il ritratto dell’uomo e del suo stile esce convincente dalle descrizioni del suo improvvisato segretario: “Le frasi che dettava non erano mai definitive, spesso cambiava o aggiungeva qualcosa (…). I suoi discorsi ondeggiavano da un tema all’altro.” E ci dobbiamo credere, visto che a dirlo è colui al quale Montaigne per ben tre anni detta i suoi scritti, per poi scegliere la via del self publishing, sia pure non disdegnando il “privilegio del re”. Ma ecco, conclusa l’opera, l’autore cade in una “profonda malinconia”, e lui lo sa: “Quando si finisce un libro è un sollievo. Il lavoro è terminato. Se poi l’opera trova successo presso il pubblico, ecco alimentato e tenuto in vita più a lungo quel piacere di solito effimero. Ma dopo qualche tempo anche l’orgoglio e la soddisfazione e la vanità perdono consistenza. L’anima gonfia di sé ritorna alle sue estensioni naturali; brevemente incandescente di presunzione, si raffredda altrettanto presto che la brace che si spegne.” In notazioni come questa, oltre che in un intreccio appassionante, sta la qualità del romanzo. Attuale e stimolante, come possono essere i romanzi storici migliori.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Fratello Bartleby

Daniel Pennac, Mio fratello, Feltrinelli 2018 (pp. 121, euro 14)

“Le lacrime non c’erano più. Mio fratello arrivava all’improvviso e adesso il mio magone non lo cacciava più via”: a sedici mesi dalla morte di Bernard – un fratello paterno, anche se maggiore di lui solo di qualche anno – Daniel racconta dell’elaborazione di un lutto che all’inizio l’aveva ridotto all’inconsapevole ricerca di seguire il congiunto nella morte. Incidenti, all’apparenza. Distrazioni che potevano rivelarsi fatali.  Ma proprio lo star dentro il dolore della perdita, il far sì che si faccia “ospitale”, l’accettarlo “così com’è”, indica la via per “riprendere in mano la situazione”: “mi sono detto che avrei scritto qualcosa su di lui. Su di noi.” E Bartelby, col suo enigmatico  preferirei di no, diventa il tramite di una narrazione in cui le pagine di Pennac dialogano con quelle di Melville: era stato il fratello a passare quel racconto a Daniel, ma altro lega la storia dello scrivano alla memoria viva dello scomparso. Un’affinità profonda congiunge l’umorismo che era di Bernard a quello, involontario (?) di Bartleby, ma comune ai due si rivela soprattutto una discrezione confinante con la volontà precisa di sottrarsi agli altri, di fuggire la “confusione del mondo”, un atteggiamento silenziosamente riluttante che si traduce in uno sguardo che non giudica, in una riservatezza estrema dei propri sentimenti: in una progressiva presa di distanza dalla vita, nella sostanza (prima di morire sotto i ferri di un chirurgo, Bernard aveva già rischiato di morire a seguito di un precedente intervento mal eseguito; eppure, ripresentatosi il male, era tornato nella stessa clinica).

E’ nella riduzione del racconto di Melville a monologo teatrale, nell’impararlo a memoria recita dopo recita, che Daniel si lascia alle spalle la disperazione senza per questo rinunciare alla profonda vicinanza con il fratello che non c’è più: “Bartleby per me era una compagnia che suppliva – inspiegabilmente, in misura assai lieve, come un’allusione – all’assenza di mio fratello”. La memoria non diventa ricordo, si mantiene attiva, conserva il sapore di una relazione essenziale e pure indefinita: “Non so niente di mio fratello morto, se non che gli ho voluto bene. Non c’è nessuno al mondo che mi manchi come mi manca lui e tuttavia non so chi ho perso”. Sono le relazioni che sanno mantenere il senso dell’alterità – sembra dirci Pennac –, che si alimentano del non detto, e sono in grado di  accettare che l’unicità dell’altro resti inafferrabile, sono queste le relazioni che neanche la morte può sciogliere.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora