Una storia di ordinaria infelicità

Andrea Bajani, L’anniversario, Feltrinelli 2025 (pp. 128, euro 16)

La differenza non è fra chi ha saputo staccarsi dai propri genitori e chi invece gli resta legato per tutta la vita. La differenza è fra chi se li porta dietro senza saperlo, non riconoscendo che se li porta dentro, e chi ne è consapevole, e non ha dimenticato che sono la causa del nostro essere al mondo, la ragione originaria di quel che siamo. Il protagonista di questo romanzo è di quelli che sanno e non smettono, perciò, di interrogarsi sulla possibilità stessa di un distacco: “Si possono abbandonare i propri genitori? O meglio, ci si può sottrarre a loro, semplicemente togliendo il proprio corpo di mezzo con un gesto netto e definitivo?

E condannarli a vivere il re­sto dei propri giorni, per così dire, con un arto fantasma? Non è una risposta che si possa dare in maniera affermativa. Si può solo fare, e io lo feci, con quella ponderatezza defini­tiva che solo l’istinto consente, perché la ragione, impaurita, altrimenti arretrerebbe”.

L’impresa di andarsene da loro, dal padre e dalla madre, è il filo che percorre una storia familiare che ricorda le memorie di Annie Ernaux, ma ancor più da vicino la Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo di Didier Eribon (in queste note lo scorso 13 settembre). Se questo libro è di quelli che resteranno in mente è tuttavia per il modo in cui l’autore sa rimettere al mondo – nella narrazione – la madre, dopo che lei ha dedicato i suoi giorni a “sottrarsi, a non esistere né per sé né per i figli, a pulire, servire, obbedire al marito in casa e nel letto, a esegui­re il poco o niente che mio padre si aspettava o pretendeva da lei”. “L’in­gombro familiare”, infatti, è prerogativa di lui, il padre “che si era messo al centro della scena e aveva scritto per così dire la versione unica del romanzo familiare”, perché la lotta, per lo più a bassa intensità, che ogni giorno si consuma nelle famiglie ha (anche) questa origine: l’esclusiva di una narrazione. Lo ricorda anche Rachel Cusk nel suo ultimo romanzo (in queste note lo scorso 19 luglio): “le storie familiari riflettono la contesa – fra genitori e figli, fra coniugi – del monopolio della narrazione della storia stessa della famiglia”.

Ecco allora che per il narratore si tratta di procedere a “un’operazione delicata, [che] richiede un’at­titudine chirurgica specifica, una freddezza della mano. Ri­chiede lentezza e precisione, un bisturi grammaticale” necessario a “scorporare” la madre dal padre, ad “estrarla da quell’oscurità per farne a tutti gli effetti il per­sonaggio di un romanzo”.

C’è anche il romanzo del romanzo in questo libro, l’esplicita e ricorrente dichiarazione metanarrativa che esso consiste in “un dispositivo che produca fatti, pensieri e persino una memoria del tutto differente, alter­nativi, generati nell’atto dello scrivere”. Ed è solo grazie a questo atto che emerge una verità sempre taciuta: “mia madre era più forte di mio padre, e in fondo vinse la partita su di lui. E perse quella con la vita. Mio padre fece polvere e rottami di ogni tipo di legame, familiare e non. Trasformò la vita di sua moglie in un deserto senza vita all’orizzonte. Solo che lei era l’unica in grado di abitarlo, quel deserto, l’unica che aveva espresso una rinuncia così to­tale, così definitiva, a tutto”.

Il romanzo si conclude là dove era iniziato, con la partenza di lui, il figlio, la cui voce ci ha accompagnato in questa storia: “Sono trascorsi dieci anni da quel giorno di dicembre. Ne scrivo ora, a un mese da questo strano anniversario in cui, insieme allo sfascio di una famiglia intera – su cui non c’è molto da festeggiare –, celebro una liberazione”. Una liberazione su cui ha comunque continuato a gravare un dolore mai sedato, che ha portato alla psicoterapia, a un divorzio, nel quale tuttavia un’immagine è rimasta a dominare la memoria, quella dell’implicita solidarietà che la madre ha comunicato al figlio al momento del suo distacco: “Mia madre non è mai stata da gesti di commiato, principalmente perché era sopraffatta da una forma di timi­dezza molto prossima alla negazione di sé. Il che, nel con­creto, le rendeva impossibile ogni retorica (…). Eppure quel giorno fu lei a salutarmi per ultima, sola ol­tre la soglia, all’imbocco delle scale. Più che congedarmi, in qualche modo mi seguì. Con la visuale degli anni che sono passati da allora, mi verrebbe da dire che non le era possibile lasciarmi andare”.

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