Racconti per risignificare i luoghi

Architetture inabitabili, a cura di Chiara Sbarigia e Dario dalla Lana, Marsilio Arte 2024 (pp. 248, euro 38)

Inabitabili non perché degradate al punto da non offrire accoglienza possibile, ma perché non concepite per essere abitate. Eppure l’inabitabilità può essere sì una “condizione triste”, ma anche “vitale e altamente simbolica”, tanto da aver meritato di esser rappresentata in una mostra che ne esibisse alcuni casi esemplari, e potesse riassumersi un questo catalogo. Un catalogo ricco di immagini, che mettono a confronto lo stato attuale del monumento con quello del passato, ma anche, e soprattutto, un catalogo da leggere.

Ad ognuno dei casi considerati corrisponde infatti la lettura che ne ha fatto uno scrittore, lasciato libero di impostare come meglio credeva il suo discorso. Di qui, alcune scelte di fondo: da un lato c’è chi opta per un racconto, capace di coinvolgere il luogo e l’edificio in questione; dall’altro, chi invece conta sulla ricostruzione storica e la descrizione architettonica per mettere in luce l’identità e rendere evidenti le valenze simboliche dell’oggetto; ma ci sono anche scrittori che sentono la necessità di rendere esplicita la propria esperienza dandoci un resoconto della relazione che con il luogo hanno stabilito prima e durante la loro visita.

Mentre appare quasi occasionale il rapporto fra il racconto di Filippo Timi e gli ex seccatoi del tabacco di Città di Castello, la narrazione che Francesca Melandri costruisce attorno al campanile che emerge dalle acque del lago di Resia a Curon, in Val Venosta, sa arricchire la percezione di questo celebrato monumento dei significati che gli derivano dalla storia, e lo fa non soltanto riandando al tempo della costruzione della diga e del lago artificiale che ha sommerso il paese lasciandone indenne solo il campanile della chiesa (lo stesso cui rimandava il romanzo di Marco Balzano, Resto qui), ma soprattutto intrecciando questa vicenda con altre due. La prima, niente più di un episodio, è quella di alcuni ragazzini del luogo che costruiscono per gioco una piccola diga su un ruscello e che altri tre, segnati da un’infelice storia familiare, distruggono, dando sfogo a un “animo gonfio di miseria”. La seconda ha invece una portata ben più vasta: anche in questo caso è una diga ad essere distrutta, quella sul Dniepr, che Stalin nel 1941 dà ordine di far saltare per fermare la Wehrmacht senza che ne siano avvertiti i contadini ucraini che abitavano a valle e che in migliaia furono spazzati via dalle acque. Che cosa c’entra la diga sul Dniepr con quella di Resia? L’estate del 1950, quella in cui si edifica la seconda e avviene il trasferimento forzato degli abitanti di Curon, è la stessa in cui Stalin fa ricostruire la diga distrutta durate la guerra, ma la nuova diga, una settantina d’anni dopo, sarà di nuovo fatta saltare durante un altro conflitto, quello fra Russia e Ucraina. È un ecocidio di proporzioni immani quello provocato dall’inondazione che ha portato fino al Mediterraneo sostanze inquinanti e velenose: un’altra distruzione dettata da un “animo gonfio di miseria”…

È questo gioco di rimandi – che si conclude con la scena della scrittrice che, secondo il rito turistico affermatosi, affitta un pedalò e si spinge fino a toccare il campanile che spunta dalle acque – a sostanziare un racconto che dà prova di come la letteratura sappia intessere trame che risignificano luoghi e persone.

Sono invece excursus di carattere storico, ricchi di informazioni di natura tecnico-costruttiva, quelli dedicati alla milanese Torre Branca (ex “Torre littoria”) da Gianni Biondillo, che parla qui da architetto qual è, più che da autore di romanzi; al Lingotto di Torino che, nelle pagine di Andrea Canobbio, parla in prima persona e avverte: “Passeranno i secoli. Ma io resterò come lo scheletro del dinosauro che emerge dalla sabbia (…). Passeranno i secoli ma io resterò la sede del conflitto e dello scontro”; e infine al gazometro di Roma, “Colosseo novecentesco”, emblema di una modernità “divenuta a suo modo archeologia”, nella nudità delle sue incastellature metalliche “ancora lì a rammentare della base materiale dell’esistenza”, come un fossile.

Altro è il registro adottato a Tiziano Scarpa. La sua visita al Memoriale Brion, la tomba voluta dall’industriale per sé e la consorte nel Trevigiano, diventa occasione per riflessioni sul rapporto che lega i vivi ai morti: “Seppellire è inumare, è inumanare, è consegnare all’umanità. Cosa vuol dire? Che i viventi non sono ancora umani? Che solo i morti entrano a far parte dell’umanità? In un certo senso, sì. Sono i morti che (…) decidono lo standard dell’umanità attuale e di ogni umanità futura. Noi siamo umani perché siamo un prodotto dei morti”. E la tomba progettata dall’omonimo – ma non parente dello scrittore, precisa lo stesso – architetto Carlo Scarpa, “(mette) in discussione la nostra cittadinanza spirituale e fisica nella città dei morti (…) per edificare un mondo nuovo mettendo in discussione quello ereditato dai morti”.”

Dense di riflessioni sono anche le pagine di Andrea di Consoli sui Palmenti di Pietragalla in Lucania, dove si pigiava e si facevano fermentare le uve, “luoghi che un tempo furono affollati e vivi, e che ora sono inutilizzati e inermi” e proprio per questo ci danno un avvertimento ineludibile: “ha senso visitare quel che rimane del passato e che non ha più vita solo se si è capaci di correre il rischio dello spaesamento temporale”, “perché questo è il senso di una visita a un luogo del passato sopravvissuto alla corrosione del tempo: mettersi in contatto con ciò che è sepolto, con ciò che, per non essendoci più, c’è ancora”. Parole che in certo modo si attagliano anche all’ultimo luogo preso in esame, il Grande Cretto di Gibellina, lo strato di cemento con cui Alberto Burri ideò di coprire i resti del terremoto del 1969 nel Belice. A differenza di altre descrizioni e interpretazioni, il racconto di Stefano Auci ci restituisce il vissuto dei giorni in cui l’opera veniva costruita, per giungere alla constatazione che “alla fine, siamo ciò che riusciamo a ricordare”, tanto più in un’epoca nella quale – secondo la conclusione di Marco Belpoliti – “l’architettura contemporanea ha trasferito l’inabitabilità dal campo della produzione industriale a quello della vita quotidiana delle persone” e “l’arte di costruire sembra spesso prescindere dalla stessa presenza umana diventata una variabile indipendente dalla progettazione”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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