Una lezione importante per la città del Bigio

Tomaso Montanari, Le statue giuste, Laterza 2024 (pp. 134, euro 16)

Non può leggere questo libro senza avvertire assonanze e raccogliere indicazioni chi, come noi, vive in una città in cui da anni si discute di una statua rimossa all’indomani della Liberazione e dell’opportunità o meno di ricollocarla dov’era. Un dibattito che non riguarda un caso isolato, di interesse puramente locale, ma risulta per molti versi esemplare nei tempi della cancel culture, in cui “il conflitto che in tutto l’Occidente si coagula intorno alle statue, nello spazio pubblico” rimanda in realtà a quesiti più generali sul rapporto tra storia e politica, tra passato e presente, tra civiltà e vandalismo”: “è a queste domande che prova a rispondere questo libro”, nell’intento di “costruire risposte utili a comprendere, e a prendere posizione”.

A partire dalla constatazione che “la distruzione delle immagini è una caratteristica tipica dell’identità culturale occidentale almeno quanto lo è il culto di quelle stesse immagini”. Senonché il fenomeno assume oggi una connotazione particolare manifestandosi “in seno a sistemi (almeno formalmente) democratici, e non in occasione di cambi di regime”, e concretizzandosi nella “decolonizzazione simbolica dello spazio pubblico come premessa, e insieme come strumento, per una decolonizzazione dei rapporti di forza sociali”. Sicché, come dimostrano i casi verificatisi negli Stati Uniti e in diversi paesi europei, la contesa non è “sulla storia, cioè sul passato, ma invece sul presente e sul futuro”, e l’indicazione che se ne può trarre è che “nello spazio pubblico deve rimanere memoria sia del monumento, sia del suo abbattimento”, perché “la storia si può riscrivere (tutta la storia, anzi, è continuamente riscritta)” al fine di “raccontarla tutta intera, includendo i punti di vista di coloro che fino ad ora sono stati ridotti al silenzio”. Del resto, come sottolineato da Antonia Layars, docente di diritto a Bristol, una delle città che hanno visto uno dei casi più clamorosi di rimozione di un monumento – quello a un filantropo del Settecento responsabile della tratta dei neri –, “le statue non sono mai state concepite per essere oggettive e nemmeno la loro protezione dovrebbe esserlo”, per cui, coerentemente, gli storici della stessa città si sono trovati concordi nel raccomandare “che la statua di Colston (entrasse) nella collezione permanente dei Musei del comune di Bristol”, esponendola magari in posizione orizzontale e lasciando al suo posto il vecchio basamento con iscrizioni originali ma con una “targa che spieghi quando e perché la statua è stata montata, e smontata”, senza escludere di “pensare in modo creativo al basamento vuoto e alle sue immediate vicinanze”, per esempio commissionando “opere d’arte e attività temporanee”, ma mettendo in conto “periodi di vuoto intenzionale [del basamento] e di presenza” di opere contemporanee.

È dunque una “lezione straordinariamente densa e importante” che viene dal “caso Colston”, e suona tanto più calzante alla luce del fatto che in Italia “non abbiamo mai davvero fatto i conti con l’eredità monumentale del fascismo, oggetto di una ‘rimozione selettiva’ a causa della parziale defascistizzazione. (…) l’urbs, la città delle pietre, ha subito la stessa sorte della civitas, la città dei rapporti sociali, dove ha prevalso, con le parole di Carlo Levi, ‘la bella teoria della continuità dello Stato’”.

Ma survival e revival oggi “si intrecciano in modo ormai inestricabile” (vedi, fra i molti esempi possibili, le vie – 49! – intitolate a Giorgio Almirante) e forniscono prove numerose di un’“egemonia culturale, che se non è ancora fascista, certo non è più antifascista”, in un paese che come l’Italia si è trovata a vivere l’“anno primo dell’Era Neofascista”.

Quanto detto per i monumenti vale per la toponomastica, in cui oltre a intitolazioni discutibili, se non offensive, si registra una “sperequazione di genere”, evidente del resto anche se si prendono in considerazione le statue – e verificabile a Brescia, come documentato da Claudia Speziali nel suo Storie di donne nascoste nel volto di Brescia. Una guida di genere (Liberedizioni 2023).

Un intero capitolo è poi dedicato a Ultima generazione e all’“imbrattamento” di quadri e monumenti: “un’originalissima campagna”, secondo l’autore, contraddistinta dal “preciso fine di non danneggiare affatto questi straordinari ‘supporti’, ma anzi di mettere la loro impareggiabile aura al sevizio della sopravvivenza stessa dell’umanità. (…) Opere che da troppo tempo sono ridotte a inerte feticcio di un turismo forzato tornano invece a nutrire un pensiero critico, una consapevolezza politica: al patrimonio culturale viene riconosciuto un ruolo progressivo, come luogo in cui agire per ridare un significato positivo alla stessa esistenza umana. I musei diventano così teatro di una lotta che usa il patrimonio del passato per assicurare un futuro al genere umano” (essendo il patrimonio “luogo della ‘compresenza dei tempi’”). E in questo senso, le iniziative di Ultima generazione appaiono in sintonia con quelle di chi intende decolonizzare lo spazio pubblico contestando le statue sbagliate che vi sorgono.

Tra abbattimento e conservazione, in conclusione, si possono individuare vie intermedie e assai più lungimiranti e giuste: “in una scala discendente di desiderabilità delle soluzioni possibili si possono elencare: la risemantizzazione in loco; la musealizzazione con segnalazione perenne del vuoto rimasto nello spazio pubblico; la musealizzazione con cancellazione della memoria nello spazio pubblico; la rimozione e conservazione in deposito; la distruzione. (Non serve forse precisare che questo riguarda i segni che sono sopravvissuti, non quelli prodotti dal revival odierno)”.

“Mantenere il monumento, ma rovesciarne il segno in una gogna perpetua – per usare le parole dell’abate Grégoire [rivoluzionario francese] – per ciò che il monumento voleva celebrare, è la soluzione di gran lunga migliore: nonché l’unica ragionevole per le architetture (…). Il modo in cui raggiungere questo scopo non può che essere pensato, negoziato, realizzato caso per caso: ogni statua, architettura monumento rappresenta un singolo individuo, legato allo spazio, all’arte, alla memoria, alla storia universale e alle vicende sentimentali locali in modo unico e irripetibile. Non esistono, dunque, soluzioni ready made, o protocolli universali: ma invece esperienze, riuscite o meno, che possono ispirarne e orientarne altre”. E fra queste, appunto quella di Brescia e della statua che fin dal titolo originale evoca l’Era fascista.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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