Peter Sloterdijk, Il rimorso di Prometeo. Dal dono del fuoco al grande incendio del pianeta, Marsilio 2024 (pp. 96, euro 15)
“Un’antropologia energetica” è quella che in meno di cento pagine delinea il filosofo tedesco – maestro di sintesi ricche di intuizioni brillanti e spesso di schematizzazioni ardite o collegamenti spericolati – a partire dalla constatazione che sin dall’epoca preistorica homo sapiens ha potuto contare su un “complice” decisivo nella sua “fuga dalla sfera delle mere condizioni naturali”: il fuoco, non a caso elevato a “metafora del divino, accanto al vento, al fulmine e al sole”. Il fuoco ha reso “le prede della caccia commestibili per l’uomo”, ha permesso di trasformare il grano in pane, di separare i metalli dai minerali, qualificandosi come componente decisiva del lavoro, ossia del rapporto fra uomini e risorse naturali.
Anche se, più tardi, nelle prime civiltà avanzate, lo sfruttamento della forza muscolare di animali e schiavi ha fatto sorgere “l’idea ingannevole che il ‘lavoro’ (…) passasse al primo posto nel bilancio energetico degli Stati dispotici, mentre i contributi della sfera dei combustibili diventavano secondari”. Una situazione che non sarebbe cambiata, nella sostanza, con i servi della gleba medievali, ma solo con le manifatture della prima età moderna e, dal Settecento, con le fabbriche e la nascita della figura sociale del proletario. A segnare una svolta sono tuttavia le macchine a vapore, ossia un diverso modo di sfruttare la forza imprescindibile del fuoco alimentandolo con “alberi [che] sembravano risalire in superficie”: il carbon fossile – e in seguito il petrolio –, “un surplus di energie che sembravano sottrarsi alla legge delle rigenerazione lenta”, quale era quella che si era imposta finché si era bruciata solo legna o carbone di legna, carbonella. Per cui si può affermare che “quelle che consideriamo civiltà moderne sono in realtà effetti degli incendi di foreste che il nostro presente appicca nei relitti dell’antichità della Terra” e che “l’umanità moderna è un gruppo di piromani”. Neanche il sogno di riscatto innescato dalle analisi di Marx sarebbe riuscito a contraddire il fatto che “la forza con cui il braccio del lavoratore è in grado di bloccare le ruote – scioperando, contestando lo sfruttamento da parte del padrone – non corrisponde ad alcun potere di metterle in moto. Questo può provenire solo dalle camere di combustione delle macchine”. Si era coscienti della esauribilità del carbone, ma se ne deduceva solo l’esistenza di un problema di risorse, non certo di quello della produzione di particelle di CO2 in eccesso, il che “illustra la portata del ‘principio fondamentale della dinamica della civiltà, secondo cui, nel processo mondiale, vengono liberati più effetti di quanti si possano imbrigliare in forme culturalmente trasmissibili”. L’uso del carbone, e del petrolio, a scopi energetici ha così introdotto “un’inedita mancanza di rispetto per la natura, sia sul versante dell’uso estrattivo delle ‘materie prime’ sia su quello dell’esternalizzazione incurante degli effetti collaterali”. Una mancanza di rispetto sufficiente a generare una “vergogna prometeica”: “il titano filantropo non aveva previsto ciò che l’umanità ha fatto del dono del fuoco (…). Il dono del fuoco si è rivelato un dono fatale che si autoalimenta fino a degenerare nell’imprevedibile”.
Dopo una lunga digressione sull’evoluzione che a partire dalla metà dell’800, ha reso “le società moderne più simili ad associazioni di consumatori che a gruppi in lotta del tipo ‘popolo in armi’” – e ha trasformato alla radice la vita degli animali non umani, rinchiusi nel “gulag globale” degli allevamenti intensivi –, l’attenzione si concentra sui fenomeni che caratterizzano la parte privilegiata del mondo, dove appaiono ormai indispensabili “gli operatori egotecnici: smartphone, carta di credito, personal computer” e “nessuno vorrebbe rinunciare alle conquiste del nuovo modus vivendi”; dove “riprodursi e allevare la prole, ormai, non è più ritenuto il più serio e urgente di tutti i compiti sociali” e, visto l’andamento demografico, “l’accento si sposta soprattutto in relazione alla crisi dei sistemi di assistenza e di cura. Ma, al fondo, il “rimorso prometeico” ha scavato un vuoto che non può essere colmato dal “gesto di piantare alberi”, la cui “forza simbolica” è lontanissima dal compensare un “modus operandi dominante ancora radicalmente estrattivo” anche se “tutto il mondo si fregia dell’etichetta della ‘sostenibilità’”: “un (poco) pio autoinganno”, se non si attua una generale conversione a tecnologie “post-prometeiche” basate sull’uso di energie rinnovabili e inscritte in un “nuovo habitus tecnico-culturale che potrebbe essere descritto come ‘pacifismo energetico’”, fautore di “economie locali” anziché di “aree metropolitane” tentacolari ed energivore. Ma attenzione: “è prevedibile che gli adattamenti creativi alle nuove idee e alle nuove circostanze – prima fra tutte, il riconoscimento delle ricchezze minerarie come patrimonio dell’umanità e non degli Stati “che per caso vi stanno seduti sopra” – richiederanno secoli di conflitti”, senza l’esclusione di “fenomeni abbastanza violenti da indurre processi di apprendimento, ma non così devastanti da riportare allo stato selvaggio” e mettendo in conto uno scontro decisivo fra “correnti post-prometeiche e neo-prometeiche”, fra sostenitori del pacifismo energetico e promotori di soluzioni tecnologiche atte a perpetuare un modello ormai rivelatosi “irresponsabile”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.