L’abisso interno

Henning Mankell, Nel cuore profondo, Marsilio 2021 (pp. 472, euro 18)

Atmosfere cupe, fra tempeste e banchise ghiacciate del Baltico; una natura che non consoce altra legge che quella del più forte, tanto più in un’epoca nella quale il mare è percorso dalle corazzate tedesche e russe che si affrontano nella più distruttiva delle guerre fino allora combattute, la prima guerra mondiale: il senso di una catastrofe incombente percorre questo romanzo fin dalle prime pagine – occupate da un’anticipazione angosciosa, il tentativo di fuga di una pazza dal manicomio in cui era rinchiusa da ventitré anni – e accompagna la narrazione che ci riporta alle missioni del capitano esperto in misurazioni batimetriche, capace di rilevare inesattezze nelle carte nautiche ma in realtà sempre “alla ricerca di qualcos’altro: un punto in cui il batimetro non sarebbe mai riuscito a raggiungere il fondo. Un punto in cui il batimetro cessava di essere uno strumento tecnico per trasformarsi in un mezzo poetico”. Non è tuttavia nell’idillio che la sua storia sfocerà, ma nella tragedia, perché la profondità del suo cuore è irraggiungibile, sulla sua vita gravano ombre di cui ignora la natura e lo portano ad azioni che, a posteriori, gli sembrano compiute da un altro. E che Mankell racconta guardandosi dall’attingere all’onniscienza del narratore, preferendo il ruolo di testimone, apparentemente distaccato, delle menzogne nelle quali il protagonista si imprigiona: “volevo riflettere sul perché al mondo ci siano troppi uomini che mentono quando si tratta di sentimenti”, ha raccontato lo scrittore nel 2014, dieci anni dopo l’uscita del libro: “uomini che agiscono senza controllo dei sentimenti nei riguardi delle donne, e se un uomo perde il controllo, può sprofondare nell’abisso interno e può accadere di tutto”.

A loro ma anche alle donne che coinvolgono nella loro corsa distruttiva. Non è solo la moglie Kristina ad esserne annientata, ma anche Sara, la donna, sola su in isola sperduta, la cui sopravvivenza ricorda quella dell’Uomo di Aran, il drammatico film-documentario girato nel 1934 da Robert J. Flaherty. Ma sono soprattutto a Bergman che rimandano le risonanze che il lettore avverte, e non a caso. Il grande regista svedese era suocero di Mankell e i due si frequentavano: “Quando gli ho dato da leggere il primo capitolo del romanzo – raccontava Mankell – ha commentato, ‘Mi piace, vorrei leggerlo fino alla fine’. Per me è stato un incoraggiamento a finirlo. Quando si ha un rapporto con un simile genio, è difficile capire quello che una persona così può darci. Abbiamo delle cose in comune: tutti e due prendiamo la vita seriamente, sappiamo che si vive una volta sola e che nella vita non si torna indietro e bisogna prendere quello che c’è”.

Nonostante pentimenti sofferti e propositi rinnovati è proprio quella di tornare indietro la via che il capitano non sa prendere, o forse non desidera davvero: ama la moglie, ma il suo matrimonio non ha mai conosciuto intimità; ama la donna dell’isola proiettando su di lei il sogno di redimersi da una colpa di cui non conosce l’origine, l’aspirazione a una vita sgombra dai formalismi dell’ambiente militare. Ma è un altrove irraggiungibile, e del tutto incomunicabile, quello cui tende, orizzonti lontani e fondali marini che nessuno è mai arrivato a misurare: “Era come se un sigillo invisibile lo rendesse inaccessibile a tutti fuorché a sé stesso. La superficie era tranquilla, come quella di un mare silenzioso, ma al di sotto si nascondevano le forze con cui si era scontrato. Ambizione, insicurezza, il ricordo delle sfuriate del padre e delle lacrime silenziose della madre. Viveva una lotta costante tra il controllo, la previsione e l’azzardo sfrenato. A differenza di altri non si adattava alle situazioni, ma cambiava personalità, diventava un altro uomo, spesso senza nemmeno rendersene conto”.
Il castello di bugie che ha costruito crollerà, lasciandolo solo, facendo alla fine prevalere la sua pulsione autodistruttiva.
E la moglie del protagonista, la povera reclusa che abbiamo incontrato nelle prime pagine, non ricompare, alla fine.  La narrazione ad anello cara a scrittori come Daniel Mendelshon (in queste note all’inizio dello scorso febbraio) non fa per Mankel.
La sua storia non ammette una ricomposizione conclusiva, i suoi personaggi non conoscono riscatto.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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