I libri bruciano male

«Che cosa sono l’uomo o la donna
la cui unica arma sono le parole?
Cosa c’è in queste parole da renderle così pericolose
che alcuni degli uomini più potenti della Terra,
con esercito, armi e persino armi nucleari,
non possono vivere in sicurezza sapendo che
queste persone, costoro – gli scrittori – esistono?»
Azar Nafisi

È difficile bruciare un libro, questa la constatazione da cui parte Paola Ginesi, della Fondazione Piccini: nel fumo acre “l’odore lugubre e triste delle cose che non vogliono bruciare”1, contorcimenti dolorosi, le pagine sembrano difendersi compattandosi, alcune volano in alto quasi per sfuggire ad un destino di morte etica, culturale, di vita, di bellezza, di sapere… prima ancora che materiale.

Un libro bruciato è il tentativo di cancellare un qualcosa esistito per anni, per secoli, per la paura del pensiero, della coscienza, della ragione, della forza dei diritti perché si sa bene che «conoscere il mondo è connesso al volerlo cambiare» (Aldo Capitini).

In Fahrenheit 451 i “vigili del fuoco”, “custodi della pace spirituale” della popolazione, inneggiano: “il libro è un fucile carico nella casa del tuo vicino: diamolo alle fiamme!”.

Però, se i libri bruciano male, ancor più difficile è bruciare il pensiero, la ragione, la bellezza, la coscienza, il sapere, il dubbio, la consapevolezza.

Ai Wei Wei, noto artista cinese in esilio – figlio di Ai Qing, uno dei più grandi poeti rivoluzionari della Cina – nelle memorie della sua famiglia2, scrive come, per evitare prigione o condanna a morte, insieme a suo padre decisero di bruciare tutti i libri di casa. In mezzo al silenzio e al dolore, quasi fisico, Ai afferma che si sentì crescere dentro una forza incrollabile: «il senso “inflessibile” della bellezza».

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Titolo: Manuel Rivas, Los libros arden mal, Alfaguara 2006
[1] Idem
[2] Ai Wei Wei, Mille anni di gioia e dolori, Feltrinelli 2023

Per una ciocca di capelli…

È cedere al disegno perverso dell’Occidente rivendicare il diritto di andare a scuola? – si chiede Paola Ginesi, della Fondazione Piccini –, guidare un’automobile, uscire da sole, essere protagoniste nella vita sociale, non subire dolorose e umilianti mutilazioni genitali, rifiutarsi di divenire una sposa-bambina, mangiare senza dover rinunciare al cibo per i “maschi” della famiglia?

Ebraim Raissa, il presidente iraniano, che denuncia le proteste delle donne come «il disegno dei nemici per destabilizzare l’Iran», concorda con l’analisi di non pochi nostri media ed opinionisti “occidentali” di vari schieramenti ideologici.

Per quest’ultimi, le proteste delle donne iraniane sono, da una parte, un ulteriore fenomeno di emulazione per aderire a costumi lontani dalla loro storia e contrari alle loro tradizioni; dall’altra, un’ulteriore dimostrazione del disegno dell’Occidente che «attraverso la liberazione del corpo femminile tenta di penetrare e invadere» (Michele Castaldo)unpaeseper imporre i propri valori per cui, di fatto, nel togliersi il velo, la donna passerebbe da una schiavitù di tipo teocratico ad una schiavitù incentrata sul sesso.

La stessa polizia morale è in un certo senso “necessaria”: «La domanda da porsi è: ancor prima di definire il fatto come conservatore, retrivo e reazionario, perché esiste una “polizia morale”? perché si ritiene da parte dell’Islam in quanto religione, di dover frenare in qualche modo l’istinto naturale che la femmina interpreta del desiderio sessuale maschile, un istinto che Malthus definisce primordiale e insopprimibile […] L’Iran, avendo subito ricatti e sanzioni continue da parte dell’imperialismo occidentale, è costretto ad essere guardingo nei confronti dei costumi occidentali per non essere invaso e disgregato. […] Chi oggi saluta trionfalisticamente la ribellione di giovani donne in Iran contro l’oppressione femminile sa di proporre come modello alternativo a quello teocratico islamico quello del liberismo occidentale, dell’individualismo femminile preda della mercificazione di tutta la società, compreso il corpo e la mente della donna, anzi proprio attraverso la donna» (Michele Castaldo).

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“Tertium non datur”*


Non avrei mai più voluto scrivere neppure una parola legata in qualche modo a “questa” guerra – scrive Paola Ginesi, della Fondazione Piccini –, ma in un incontro con alcuni amici, una ragazza mi chiese di mettere per scritto, ampliandola un poco, la discussione che era nata per condividere quelle riflessioni con i suoi compagni/e, per spiegare meglio le sue convinzioni e aiutare a riflettere, senza tabù e pregiudizi, su un argomento decisivo per il loro futuro.

Ho l’impressione di trovarmi sul banco degli imputati quando sfioro la geopolitica mondiale che si sta “chiarendo” nella guerra in Ucraina e mi viene voglia di dire con la mano tesa – su cosa: costituzione vangelo dichiarazione dei diritti umani? – “considero la guerra in Ucraina un’invasione di Putin, con tutte le conseguenze che ciò comporta”.

Ed ora, posso, insieme a tantissime altre persone, cercare di capire un po’ della storia meno recente di una zona che pochi conoscono; permettermi qualche perplessità su come il tutto viene gestito; dichiararmi contro la guerra tout court, perché uccide, distrugge, ruba pane e futuro, fa esplodere le peggiori pulsioni?

Posso rivendicare il diritto alla ricerca e alla difesa di tutto ciò che costruisce la pace anche se questo significa seguire, come ci dicono, strade estranee al buon senso comune, perse tra il fumo di inutili sogni e utopie?

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La risposta non violenta non si improvvisa*. Per una cultura di pace

“Ho ascoltato le posizioni più diverse sull’argomento  guerra-pace  – scrive Paola Ginesi, della Fondazione Piccini – ed ho cercato di mettere per scritto alcune impressioni con la certezza che è indispensabile rimettere in piedi con maggior forza il dibattito sulla pace, sui percorsi per renderla una problematica diffusa, per farne uno stile di vita (…) credo che la riflessione debba andar oltre la cronaca di oggi verso una reale, forte cultura di pace”.

L’attuale crisi geopolitica, sociale, economica, ecologica, culturale deve esser letta in un’ottica più ampia, non può esser vista come una sconfitta di chi lotta per un mondo diverso, ma come un richiamo alla “controffensiva”, all’impegno a tutto campo.

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La parola e le parole

“In questi tempi incerti dove la parola cede il posto alle armi, il ricordo va a Gino Strada con le sue scelte e la continua denuncia di ogni guerra e violenza in difesa della vita di tutti, da qualsiasi parte del “fronte” si trovino”:  una riflessione ampia, avviatasi prima dello scoppio della guerra in Ucraina e da questo evento resa ancor più attuale.

Testo di Paola Ginesi (Fondazione Piccini).

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La sfida dei diritti

Mai forse si è parlato tanto di diritti… ma di quali diritti si tratta?

È necessario fare chiarezza, porre fine alla retorica e alla banalizzazione che finisce per significare qualsiasi cosa e il suo contrario, ogni valore, di conseguenza, perde consistenza perché «quando un concetto significa tutto, non significa più niente. La perdita di qualsiasi ancoraggio semantico significa la morte di un concetto» (Vladimiro Giacché).

Basta aprire un giornale, connettersi a un social, accendere radio o TV… è “diritto” tutto e il contrario di tutto… si deve intervenire, quasi sempre “contro”, spesso con toni offensivi e violenti… l’opposto di diritto nel suo reale significato.

Ci si appella alla giustizia, alla libertà, all’autonomia, all’uguaglianza… parole grosse, importanti, ma rischiano di rimanere astratte: ciò che vale è la loro applicazione, i termini, le modalità, le leggi per realizzarle nei diversi contesti.

I problemi nascono quando dalle dichiarazioni si passa alle norme per concretizzarle, per uscire dalla “carta” e farsi storia reale; questi valori devono essere incarnati altrimenti rimangono un principio più di discussione filosofica (nulla di male, anzi spesso interessante e stimolante) che di realtà quotidiana.

Diritti, giustizia, libertà, autonomia, uguaglianza possono essere considerati valori assoluti, ma non potranno mai avere un contenuto assoluto per ogni tempo e luogo, nella loro attuazione hanno significati differenti in storie e geografie diverse.

Diritti, libertà, giustizia non sono concetti ideali, principi inalienabili, si raggiungono in un complesso percorso storico, sociale, culturale, etico. Libertà, giustizia, autonomia, uguaglianza… per principio sono valori condivisi… ma, cosa significa essere liberi, giusti, autonomi, uguali? come assicurare nel proprio tempo, personale e comune, nella “terra” che calpestiamo, il diritto alla libertà, alla giustizia, all’autonomia, all’uguaglianza?

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Nessun uomo è un’isola

«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto.
Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare,
l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse
un promontorio, come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa.
La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché
io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana: suona per te». John Donne

L’isola come paradiso perduto da ritrovare o utopia da costruire è presente a lungo nella storia del pensiero, oggi si parla di isole galleggianti (anche “fai da te”) come una specie di “covo della libertà”[1].

Un’ipotetica libertà totale, l’assenza pressoché assoluta di limiti portano ad un individualismo senza confini e fanno cadere le coordinate per un percorso comune di tutta la collettività.

Non dimentichiamo che tante isole furono scelte per costruirvi carceri, per impedire fughe e contatti, e proprio questo è ciò che succede a chi se ne costruisce una per proteggersi: la reclusione.

Il progetto neoliberista, la globalizzazione in veste economica diffondono un senso di insicurezza e precarietà in ogni ambito esistenziale, la soluzione offerta è la chiusura nel privato creando così ostacoli alla ricerca di uscite collettive.

Propaganda, strumentalizzazione, disinformazione spingono a temere il presente e, soprattutto, impediscono di immaginare un “mondo diverso” per il futuro.

Si rifiuta ogni confronto, ci si isola sempre più, ci si lamenta sempre più, ma non è mettendo insieme indifferenza, risentimento, rabbia che si crea un gruppo in grado di porsi come forza politica per affrontare le varie problematiche!

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[1] Alla fine degli anni ‘60 se ne era costruita una nel Mar Adriatico, poi fatta demolire, l’Isola delle Rose, autoproclamatasi stato indipendente, con un proprio governo, lingua, moneta. Tra tanti esempi attuali, l’isola Blue Estate che sarà realizzata nel Mar dei Caraibi, poco lontano da Miami, progettata per regalare una tranquillità assoluta e livelli di privacy, oltre che di lusso, senza precedenti, senza criminalità, con burocrazia ridotta al minimo, senza tasse.

Le frontiere del caos

«Il mondo è grande e terribile e complicato» scriveva Gramsci nel 1917 su L’Avanti… e più tardi: «il vecchio mondo sta morendo e il nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri».

È difficile descrivere con maggior incisività e chiarezza questo nostro tempo… si minimizza la forza del “vecchio”… si ignora la forza del “nuovo”… se non si riuscirà a dargli spazio al più presto, il mondo che faremo sarà troppo simile al vecchio, bloccato in un chiaroscuro che confonde e disorienta, dove agiscono le forze scatenate dal “sonno della ragione”.

Oggi il “chiaroscuro” prende spesso il nome di caos, emerso come per caso in un momento storico segnato da confusione e sbandamento: nulla, invece, è più voluto studiato programmato.

Nell’attesa che si prolunga, i “mostri” temuti da Gramsci sembrano espandersi; sempre al di sopra della legge, per nascondere la loro natura creano disordine e confusione da cui sembra impossibile sfuggire… mostri vecchi e nuovi che intrecciano i loro tentacoli nel presente.

Il problema più grave non è tanto indicare ì mostri che è facile individuare, ma smascherare la pericolosa “banalità del male” denunciata da Hannah Arendt, che, in vesti e funzioni diverse, si nasconde dietro la normalità, con le ombre racchiuse nelle pieghe della quotidianità… quei mostri con un’apparenza inoffensiva finché non gettano la maschera e si scatenano contro ogni parvenza di convivenza civile, cultura, rispetto e spalancano le porte a violenza, odio, calunnie, vendetta, falsità; inondano le reti sociali, s’infiltrano in piazze e rivendicazioni stravolgendone significati e obiettivi… “l’inevitabile” repressione viene presentata e percepita come necessaria, si accettano così decreti e regole che in tempi di “ordine” sarebbe impossibile imporre.

Questa situazione di decadenza, di degrado sociale, politico, culturale, etico appare “normale” per una parte dell’opinione pubblica.

Profitto – produttività – efficienza… gli dei (o i demoni) di oggi portati avanti da una (pretesa) ordinata logica mezzi–fini negano ogni traccia di razionalità in tutto ciò che fa sì che un uomo sia uomo nel significato più profondo: libertà bellezza amore paura speranza sogno fatica immaginazione dubbio sofferenza pensiero… per impedire ogni “disturbo” al cosiddetto progresso che si costruisce alle spalle – o contro – la maggior parte dell’umanità, destinata a divenire semplice pedina nel gioco del mercato e della tecnologia, sconvolgendo coordinate storiche e geografiche.

È l’ordine che serve ad appiattire, a togliere punti di riferimento, a creare il silenzio di idee, desideri, dubbi, a chiudere nell’oscurità della paura, in un assedio alla verità, alla giustizia, alla vita sino a capitolare in una disastrosa resa e chiudersi nel proprio mondo individuale.

Dal caos, si dice, nascono crisi a catena, così situazioni ignorate da sempre sembrano esplodere improvvisamente, con grande violenza e disordine.

Non è il caos a creare la crisi, sono le molteplici crisi – climatica, sanitaria, politica, sociale, economica, etica… – a provocare il caos che incontriamo ovunque.

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Il diritto alla bellezza

«Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore»[1].

La bellezza deve essere accessibile a tutti, deve essere considerata un diritto per tutta l’umanità perché è un mezzo indispensabile per la crescita spirituale dell’uomo, per la sua libertà di coscienza, per la sua presenza nella società e nella storia.

Friedrich Schiller – alla fine del ‘700 – si chiedeva: «Com’è possibile che in questi tempi moderni, con tutte le conoscenze e tutta la tecnologia, siamo ancora dei barbari? Vi deve essere qualcosa nella mente della gente, nel carattere degli esseri umani, che impedisce la ricezione diretta della verità. […] Ogni miglioramento nel dominio della politica può soltanto essere pensato attraverso la nobilitazione del carattere dell’individuo. […E ciò] Può accadere soltanto attraverso il bello artistico».

Egli è convinto che «il buon cittadino si forma nell’educazione alla bellezza e che quest’ultima si può fruire solo in un modo: nell’esercizio del gioco. Per Schiller si tratta di un riferimento metaforico, evidentemente, che allude alla fantasia e all’emozione. La bellezza è un meraviglioso gioco di crescita collettiva che non può essere negato a nessuno» (Irene Boldriga).

La storia ci offre numerosi esempi di come il ricorso alla “bellezza” sia stato chiesto e offerto in momenti oscuri.

Firenze, come tante altre contrade italiane, fu segnata da scontri di potere, lotte intestine, guerre tra fazioni opposte, calamità naturali che fecero numerose vittime… Nel 1373, in cerca di qualcosa che affrancasse, almeno per un po’, da tanta oscurità, un gruppo di cittadini invia ai Priori delle Belle Arti e al Gonfaloniere di Giustizia la richiesta della lettura pubblica della Divina Commedia:

«A favore dei cittadini della città di Firenze che desiderano essere istruiti nel libro di Dante, dal quale, tanto nella fuga dei vizi quanto nell’acquisizione delle virtù, quanto nella bella eloquenza possono anche i non grammatici essere educati […] chiediamo che abbiate la premura di ottenere e di approvare solennemente la scelta di un uomo capace e sapiente, ben istruito nella scienza di questo tipo di poesia, per il tempo che desiderate, ma non maggiore di un anno, perché legga il libro volgarmente chiamato El Dante nella città di Firenze a tutti coloro che vogliono ascoltare, tutti i giorni non festivi, in un ciclo di lezioni continue come di solito avviene in simili circostanze».

Il popolo cercava nella cultura, nel “bello” le risorse interiori per ritrovarsi e riprendersi, per trovare forza, speranza, coraggio del futuro con quella bellezza che riempie coscienza e intelligenza.

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Un’altra scuola è possibile?

Nulla, oggi, può apparire più scontato della scuola, dell’“andare a scuola”… un diritto conquistato a fatica contro ostacoli di ogni tipo, contro pregiudizi, alibi culturali, fattori politici, denunce del campo religioso… una volta dichiarata obbligatoria (e – sembrava – gratuita) si ritenne raggiunto l’obiettivo e l’attenzione si rivolse a problemi più “urgenti” lasciando questo settore strategico per l’intera società nelle mani di “addetti ai lavori”, che si sono rivelati spesso incompetenti e incapaci. Per Maria Montessori un paese che non ha a cuore l’istruzione dei bambini e dei giovani è un paese senza futuro.

Con il passar del tempo, come tanti altri diritti, anche quello di una scuola pubblica di qualità, aperta veramente a tutti, di un’educazione/istruzione nel più ampio significato è stato compromesso.

Sotto ogni bandiera politica i “tagli” alla scuola – soffocata in una selva di regole, decreti, decisioni lontane dalle sue finalità – sono stati devastanti ed hanno portato a situazioni insostenibili “corrette”, per continuare a rispondere il più possibile alla sua vera natura, dalla buona volontà e professionalità di persone presenti nelle istituzioni scolastiche. Ma questo non può essere sufficiente e ce ne rendiamo sempre più conto.

Anche la scuola è diventata una “merce”, un “prodotto di mercato” per cui deve rispondere alle sue esigenze preparando giovani capaci di servire “il” e “al” sistema economico e politico attuale?

Negli ultimi anni ai dirigenti scolastici è stato chiesto, in pratica, di divenire “imprenditori” e di gestire con logiche quasi economiciste un patrimonio comune che non ha nulla a che vedere con leggi e interessi finanziari.

La logica del mercato vuol trasformare il diritto universale all’educazione in un bene di consumo con l’obiettivo di creare persone “competenti” e “produttive”, “funzionali al sistema”. Chi non ha le stesse opportunità diviene manodopera a buon mercato, con sempre meno diritti, a rischio di esclusione, con un futuro incerto.

Quando alla scuola si chiede un qualche profitto, significa che non è più considerata uno degli strumenti principali per la democrazia, se ne perde totalmente il significato e la ragion d’essere.

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Il silenzio della verità

Per una “ecologia della parola”

Accanto all’ecologia dell’ambiente, ai pericoli che ne possono derivare per l’intera umanità se non si innescano costumi sostenibili e di rispetto dei suoi ritmi, c’è anche una “ecologia della parola” da rispettare e da usare in modo “sostenibile” perché ne dipende il senso stesso del vivere insieme, delle prospettive di futuro, dei valori che intessono l’espressione dell’esistenza come individui e come società.

«Le parole sono il bmeglio e il peggio che abbiamo… Per le meraviglieche si possono esprimerecon la parola, se usataconarmoniae profondità; possono però diventareviolenteseutilizzate male, se si cambiail loro significato» (José Saramago).

Alcune, nelle mani di persone abili a manipolare la comunicazione, vengono divulgate quasi come “parole d’ordine” alle quali tanti si sentono costretti ad ubbidire per non mettersi fuori dal contesto in cui vivono, perché così fanno tutti, senza preoccuparsi di capire il fine per cui vengono usate… parole che “fanno solo rumore” e non chiariscono concetti e fatti, non informano, non aiutano a “dar forma alla mente”.

In una reale democrazia le istituzioni politiche, per essere autorevoli e riconosciute, devono essere capaci, da una parte, di dare regole precise, dall’altra, di coinvolgere tutti i cittadini considerati non oggetti da utilizzare ai più diversi fini ma soggetti e protagonisti del vivere insieme.

Governi e istituzioni, invece, non parlano realmente alla gente, non spiegano la situazione e le proposte per superare i problemi… anzi creano spesso un clima di allarme per avere le mani libere e non dar spazio a critiche e contestazioni: “non ci sono alternative”, “se non si prendono queste misure il paese cadrà nel caos e il futuro sarà incerto e difficile per tutti”… L’insicurezza per il presente e il timore per il domani rendono la gente incerta e preoccupata, di conseguenza più controllabile.

Del resto, nessuno può negare che in tutto il percorso storico la menzogna e la manipolazione dell’informazione abbiano fatto parte degli strumenti del potere.

“Le parole sono pietre” (Carlo Levi) e, secondo l’uso che se ne fa, si possono costruire muri o ponti, senza dimenticare poi che, soprattutto in questi tempi, «informazioni false producono eventi veri», basta pensare alla guerra in Iraq del 2003, alla distorsione dei dati sull’immigrazione, alla strumentalizzazione del terrorismo….

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Il diritto della persona all’interno delle contraddizioni sociali

Interesse generale e interesse particolare

Interesse particolare e interesse generale sono concetti contraddittori e contrastanti o elementi che possono essere conciliati dalle norme giuridiche e dall’azione delle autorità pubbliche?

L’interesse particolare è incompatibile con l’interesse generale o ne è, normalmente, complementare?

Quale ruolo gioca l’interesse generale nello scenario politico-economico, socio-culturale attuale?

È ancora reale il suo valore come elemento di giustificazione dell’azione dello Stato e come fattore di coesione nelle società?

Il nostro futuro è legato alle risposte che sapremo dare a queste domande.

Nella prassi politica si fa grande uso (e abuso) del concetto di interesse generale, spesso per legittimare scelte ed azioni e dare un senso razionale a certe prese di posizioni senza dover ricorrere a troppe giustificazioni.

Il dibattito segue due linee fondamentali: l’utilità e la razionalità.

Nell’ottica dell’”utilità”, la questione viene risolta come “il massimo beneficio per il maggior numero di persone”; nella prospettiva della “razionalità”, invece, vengono posti limiti al criterio quantitativo, da cui deriverebbe una “dittatura della volontà della maggioranza”, la “sintesi finale” non può essere considerata espressione della volontà generale perché ne rimane estranea la partecipazione delle minoranze.

Nel corso della storia, pur con termini e caratteristiche diverse, l’interesse generale è stato oggetto di studi, analisi, diatribe ma acquisì maggior forza soprattutto a partire dal XVI secolo, in molti casi assumendo il carattere di “ragion di Stato”.

Machiavelli, in particolare, punta ad un ampliamento dello spazio di deroga delle norme che, sotto la pressione di una qualche emergenza, viene concesso alla politica in nome di un interesse generale superiore. L’unica ragione evidente, però, è quella di salvaguardare il potere del “sovrano”, senza tenere in considerazione la volontà popolare, secondo il principio che “il fine giustifica i mezzi” [1].

Quando chi gode del privilegio di governare parla di bene comune per difendere i propri interessi specifici, quando il concetto di interesse generale viene usato per dare utilità e razionalità alle azioni del potere, come argomento decisivo nel processo decisionale, risulta inevitabilmente snaturato, compromesso e perde il suo valore: non dipende più dalla volontà generale ed è funzionale a interessi particolari.

Una minoranza che fa propria l’interpretazione di ciò che è interesse generale ne fa una questione di potere; si proclama la razionalità delle proprie azioni per nascondere i reali interessi di un leader, di una élite, di lobby di ogni tipo, di un partito politico, di poteri economico-finanziari, dello staff di un giudice, di gruppi di pressione… una  “ragion di Stato” camuffata dietro il tanto abusato termine di “bene comune”.

Gli “interpreti” attuali della volontà collettiva, o almeno di ciò che viene presentato come interesse di tutti, si rifanno alla democrazia rappresentativa e non più ai miti o alle interpretazioni religiose del passato, ma ritengono ancora di avere il brevetto esclusivo di interpretare il senso comune, di determinare l’interesse generale, la cui garanzia, invece, corrisponde all’insieme sociale, alla società nel suo complesso, consapevole e cosciente di diritti e doveri, in una sintesi della volontà di tutti, in cui converge una pluralità di maggioranza e minoranza come salvaguardia dello Stato di diritto.

Ci si nasconde dietro la “razionalità” di certe scelte (risuona come un eco del “non ci sono alternative”!) per riaffermare il proprio potere decisionale e difendere interessi politici, elettorali, economici… Così una minoranza finisce per dominare la maggioranza e deciderne i destini; nel proporre l’uguaglianza garantita sull’interesse generale, di fatto, si crea – diritto alla mano – sempre più disuguaglianza.

L’interesse generale non è una verità assoluta rivelata a pochi eletti, tanto meno quando è nelle mani di chi esercita il potere, è un lungo percorso di un processo di sintesi d’interessi collettivi al cui interno nessun interesse peculiare deve prevalere.

Anche oggi, nella democrazia rappresentativa, si continua a delegare ad “interpreti” la comprensione della volontà popolare e ad agire di conseguenza.

È indispensabile trovare meccanismi che rendano inutile (o per lo meno controllabile) la presenza di questi interpreti, poiché un interesse è veramente generale solo se espressione della volontà collettiva liberamente espressa.

Troppo spesso, da ormai troppo tempo, gran parte della gente, superficiale e indifferente, ha finito per mettere nelle mani dei politici un assegno in bianco per determinare il suo futuro nell’illusione che venga salvaguardato il proprio interesse personale, senza neppure chiedersi quale esso veramente sia.

I fatti degli ultimi mesi hanno evidenziato come tante percezioni fossero errate e come sia necessario, e urgente, comprendere che l’interesse individuale passa attraverso l’interesse della collettività perché tutti possano sviluppare ed esprimere il massimo delle proprie capacità e diritti.

Dietro il concetto d’interesse generale c’è la persona e la sua dignità, c’è l’obiettivo di realizzare condizioni di vita che permettano il pieno sviluppo di ogni individuo e della collettività perché in una società di uomini e donne pienamente “realizzati” tutti vivono meglio.

La dignità, in una concezione integrale della persona, deve essere messa al centro, come fondamento di ogni collettività; l’essere umano viene riconosciuto come cardine e principio dello Stato e della società, nel rispetto del suo particolare valore, unito nella garanzia dei diritti di ogni persona e gruppo.

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«Se non ora, quando?»

Impossibile
è la definizione di un avvenimento
fino al momento prima che succeda.
Erri de Luca

La storia ci ha offerto tante occasioni per rispondere a questo interrogativo e troppo spesso l’abbiamo ignorato o abbiamo dato risposte sbagliate, risposte che hanno contribuito a preparare la situazione di oggi.

Galileo disse: «Dietro ogni problema c’è un’opportunità»… e forse è questo il momento in cui un problema diffuso e doloroso può spingerci a cercare opportunità inedite.

E se questa società “sfilacciata”, alla quale nel tempo siamo arrivati, ritrovasse nel contesto attuale i motivi per ricompattarsi?

E se la condivisione di un’emergenza così inaspettata e invasiva, fin nei più elementari gangli della vita personale prima ancora che sociale, ci facesse riscoprire di esser parte di un “tutto” globale, di appartenere, ad ogni latitudine, alla stessa Terra, di essere un tutt’uno con l’intera umanità?

La natura, la Madre Terra, la Pachamama, non ce la fa più e ci “avvisa” per le conseguenze che il suo sfruttamento insensato e planetario potrà portare… non una ribellione, ma una richiesta d’aiuto con continui “avvertimenti” per evitare catastrofi peggiori. Forse è il suo modo per poter “respirare”, costringendo alla quarantena non tanto auto e aerei, ma abitudini consolidate, errati modelli di consumo e di sviluppo.

Il filosofo Rupert Read parla di una “meravigliosa coincidenza”:

«È una meravigliosa coincidenza che quasi tutto ciò che dovremmo fare per fronteggiare l’emergenza climatica ed ecologica coincida esattamente con ciò che dovremmo fare per migliorare le nostre vite e incrementare i nostri mezzi di sussistenza, per affrancarci dalla triste condizione in cui ci troviamo attualmente».

Oggi è emersa, senza ombra di dubbio, la stretta interdipendenza tra essere umani ed ecosistemi come “fattore naturale” e solo ora, forse, ci rendiamo conto che i nostri “destini” sono intrecciati, interconnessi.

Siamo una rete fisica, materiale: il momento attuale ci offre l’occasione di comprendere che abbiamo dato troppa attenzione all’“io” e ben poca al “noi” e ci accorgiamo ora che l’“altro” è fatto anche di “te”, che siamo parte di qualcosa che abbiamo ritenuta estranea a noi stessi.

«Siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia» (David Quammen). Questi virus sono l’inevitabile risposta della natura all’assalto dell’uomo agli ecosistemi e all’ambiente.

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