
Paolo Cognetti, La felicità del lupo, Einaudi 2021 (p. 146, euro 18)
A quarant’anni Fausto lascia la città e torna alle montagne sotto il Monte Rosa, che conosce fin da ragazzino (starne lontano è probabilmente la causa dei “problemi con la donna che era diventata sua moglie”). E là incontra la titolare del ristorante del posto – “arrivata anche lei dalla città”, trentacinque anni prima –, che non tradisce il nome evocativo e promettente che si è scelta, Babette, e sa infatti “cercare soluzioni pratiche a problemi esistenziali”. Ne è assunto come aiutante in cucina, facendosi così, anche lui, una comparsa nel “travestimento collettivo” cui si prestano pastori e boscaioli diventando per tre mesi all’anno, durante la stagione sciistica, “macchinisti di seggiovia, addetti all’innevamento, gattisti e soccorritori”. Che cosa manca a questa favola alpina? Lei, la bella, ed eccola dunque: la ragazza che serve ai tavoli, “giovane, allegra, aria da giramondo”: “un segno dei tempi pure lei come le fioritura fuori stagione, o i lupi che si diceva fossero tornati nei boschi”.
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