Il partito preso delle parole .3

3. Il tatuaggio della saggezza

Sei in ritardo, non è che stanotte ti sei data alla pazza gioia? – le chiede Paola con quel sorrisetto malizioso di una che sa bene come si sta al mondo. Gioia non proprio, diciamo che non è andata malissimo – le risponde Angela, il viso struccato e pallido.
Lavorano insieme da anni e, si sa, lavorare gomito a gomito, inspirare lo stesso vapore, sopportare il peso del ferro da stiro professionale, sudare insieme facilita la confidenza e si diventa un poco amiche.
Le donne poi non ci mettono molto a sbottonarsi, a raccontare tutti i fatti loro. Sembra che non vedano l’ora di vuotare il sacco, come se a nominarle, le cose si facessero più lievi. Anzi a volte le ammorbidiscono loro intenzionalmente, ci mettono quel dolce che fa romantico e che nei fatti, nudi e crudi, non c’era proprio.
Dimmi che questa volta non è uno dei soliti sfigati, ti prego. Dimmi che è un ragioniere, un commesso, almeno un benzinaio – chiede Paola, che da anni spera in cuor suo che Angela si dia una mossa, che esca da quel pantano di tristezza, di svogliatezza in cui è sprofondata. Se la vede sfiorire davanti lentamente, senza piangere, senza lamentarsi, senza mettersi contro una vita che va storta da tempo, incapace di sintonizzarsi sulla frequenza dell’ottimismo.
E lei a spingerla, a tenerla su, a ripeterle che ha chance da vendere, che solo non sa vederle, come se non volesse darsi un futuro. Ma le parole, quando una è a quel punto, sono vento che corre senza lasciare traccia. Magari a forza di ribadirle, almeno un’eco nella testa di Angela sarebbe rimasta    si ripeteva Paola che non riusciva a smettere di provarci.
Un tempo era diversa, era una ostinata, una da bicchiere mezzo pieno. Di legnate ne aveva prese parecchie, ma aveva sempre rialzato la testa, orientando il corso dei suoi pensieri verso il meglio. Poi, a un certo punto, s’era afflosciata come un budino tremulo, le fibre del suo cuore s’erano fatte fragili, come se nella sua vita interiore si fosse esaurita la speranza. Aveva cominciato ad accompagnarsi solo con sbandati, con gente che bivaccava ai margini dell’esistenza. Cattivi no, solo pieni di guai, di garbugli che lei s’ostinava a provare a dipanare. Come se i suoi guai non fossero sufficienti!

Un intellettuale non è di certo, neanche un impiegato, mai visti impiegati così mal ridotti.
E rieccoci con un altro perdente, chi te lo fa fare di metterti sempre con uomini sconfitti dalla vita? Mica li devi salvare proprio tutti tu – ribatte Paola cui si srotola davanti un film già visto, destinato a un finale da schifo.
Non è che Angela li scegliesse apposta gli uomini tormentati, è che ne era attirata come un’ape da un fiore, è che le sembravano gli unici con un po’ di fascino.
Che cosa se ne sarebbe fatta di uno sbruffone, di un vincente sicuro di sé, di quelli che ti pagano la cena in un bel ristorante e ti fanno fare la bella vita? Che poi uno così, mica avrebbe perso tempo con una come lei, che di lavoro stirava, che non poteva neanche farsi crescere le unghie perché le si spezzavano maneggiando i panni, che aveva i capelli sempre crespi per via di tutto quel vapore.
In realtà uno buono ce lo aveva pure nel suo curriculum, uno per bene, intelligente, ma senza il becco di un quattrino. Allora si era offerta lei di lavorare per due, di prendersi anche i turni di notte all’hotel di suo cognato che venivano pagati bene, e un poco riusciva anche a dormire.
Così stirava di giorno e lavorava alla reception di notte, intanto che lui si impegnava a finire l’università. Era una buona causa, e poi lui era così bello, così dolce, e la trattava come una regina. Era durata quasi quattro anni la faccenda del doppio lavoro e lei non l’aveva fatta pesare mai, perché lui gli esami li passava, studiava e non si perdeva in chiacchiere.
Si trattava di tenere duro solo qualche anno, poi lui si sarebbe laureato, avrebbe trovato un posto come ingegnere con uno stipendio dignitoso, e lei si sarebbe riposata. Magari avrebbero anche messo su famiglia, casa con giardino e pure un paio di figli o tre, che a lei i bambini piacevano un mondo.
Era andata diversamente, ovviamente. Non perché lui dopo la laurea l’avesse mollata, non si era montato la testa e la gratitudine non gli era mancata. Era stata lei ad andarsene, come se si sentisse fuori posto al fianco di un laureato che indossa camicia e cravatta.
A decidere era stata quella storia della gravidanza che aveva rotto l’incantesimo. Lei il figlio l’avrebbe tenuto, non le sembrava vero, mettere al mondo un altro essere umano, fare qualcosa di buono, di indiscutibilmente buono. Che cosa c’è di meglio, di più di una vita?
Era lui che non si sentiva pronto, diceva che era presto, che ora lui avrebbe dovuto pensare al lavoro e alla carriera, che lei avrebbe dovuto avere pazienza. Ma lei la scorta della pazienza l’aveva esaurita da tempo e quel figlio lo voleva. Certo non l’aveva cercato, ma se era arrivato voleva dire che andava bene così, che era ora. E lei si sentiva pronta, pronta e felice.

Alla fine era andato tutto storto. La sua versione dei fatti era che il bambino, anzi quel grumo di cellule che sarebbe potuto diventare un bambino, si fosse sentito mal accolto, che avesse capito che era solo lei a volerlo, mentre lui, il figlio, li voleva tutti e due, un padre e una madre. Allora s’era sciolto in un flusso di sangue e in una decina di contrazioni dolorose.
Non era riuscita a perdonarlo, non aveva avuto la pazienza di aspettare, di riflettere, perché lei dentro lo sapeva che era stato lui a mandare via il bambino, che se ci avesse provato solo un poco, magari il piccolo si sarebbe lasciato convincere a venire al mondo. E poi ci avrebbe pensato lei, non avrebbe chiesto niente, gli avrebbe lasciato tutto il tempo per il suo lavoro e la sua carriera. Che in fondo c’era da capirlo, tanto studio per poi non farne niente, non c’era neanche da pensarlo.
E’ che sotto l’ingegnere non c’era più il ragazzo che lei aveva amato, quello che un figlio l’avrebbe tenuto caro. Ora s’era fatto serio, sempre concentrato su qualcosa. Niente sorrisi, di ridere poi non se ne parlava. Forse gli uomini, quelli responsabili, sono fatti così. Forse per lei andavano bene solo i ragazzini o gli spiantati. Perché a lei ridere piaceva proprio, soprattutto la sera quando era sopraffatta dalla stanchezza, aveva voglia di aprire un’ultima parentesi d’allegria nello sfinimento quotidiano.
Una mattina, dopo che lui era uscito per il lavoro, lei aveva raccolto i suoi quattro stracci e se n’era andata, così, senza parlarne, senza provare a ricucire, senza lasciare due righe.
Da lì in poi, o era rimasta sola o s’era accoppiata solo con perdenti, gente senza speranza, da tenere a galla. E lei era un portento nel dare aiuto, e non solo agli uomini.
C’era sua madre che invecchiava e aveva sempre più bisogno che qualcuno le facesse la spesa, le pulisse la casa e la stesse a sentire.
Quando la guardava attraverso la pellicola gelatinosa che le velava le iridi, Angela non aveva scampo, si rimboccava le maniche e ci dava dentro con scopa e straccio.
Poi c’era il figlio di sua sorella, quello piccolo, che aveva qualche problema, non era ben chiaro quale, ma non imparava né a leggere né a scrivere. Era Angela che passava le serate a farlo scrivere e riscrivere, a leggergli fiabe, perché sua sorella ne aveva altri due di bambini, e questo quasi non lo voleva vedere, così tonto.
Era la fatica a dar forma alle sue giornate, un mattoncino sopra l’altro, fino a tirare sera.
Quest’uomo, quello della sera precedente, con capelli e barba rossicci, non si smarcava dal prototipo in uso. Era uno con la sconfitta alle calcagna.
Abbigliamento assemblato a casaccio, occhi reticenti, graffiati dalla delusione, fra l’impaurito e il malinconico e quegli scatti di repentina impazienza, come fosse stato scoperto, come se qualcuno avesse squarciato la cortina dei suoi pensieri. Poi subito una conchiglia chiusa, serrata nella morsa di uno sguardo duro, dell’istinto atavico di difesa del territorio.
Ma quegli occhi celesti lasciavano trasparire un bagliore particolare, qualcosa che lei aveva intravvisto solo per un istante. Poi, lui aveva distolto lo sguardo nervoso, come spegnendo una luce in fretta e furia.
Certo aveva capelli e barba rossi, e il rosso si sa, non porta niente di buono.
E la casa, che desolazione: un materasso, una sedia, un’asse su due cavalletti come tavolo, niente armadio, vestiti accatastati ovunque, puliti e sporchi insieme. Non un quadro, nemmeno un poster alle pareti, i vetri dell’unica finestra resi opachi dalla pioggia e dalla polvere di anni.
C’era di buono il cane, lurido pure lui, ma bello, educato, con l’aria sveglia di uno che capisce. Gli occhi un poco obliqui lo facevano sembrare triste, o forse era solo intelligente, più intelligente del rosso silenzioso. Cenciosi erano cenciosi tutti e due, magari a stare insieme si finisce per assomigliarsi.
Alla fine è stato gentile – raccontò a Paola, come per salvarlo dentro di sé.
Non fece parola della dolcezza, di quell’infanzia che gli si leggeva sotto pelle, di quello sguardo in cui pareva di annegare, di quelle lacrime spremute dal suo abbraccio che lui continuava a chiamare sudore, del suo accarezzarla senza fretta, senza pretese, come fosse l’unica cosa che gli importasse fare. Era un uomo che parlava con gli occhi e con i gesti, non con le labbra che non sapevano scollarsi per articolare parole. Rifuggiva le parole come la peste, come se le parole avessero preso partito contro di lui, come se gli corressero incontro imbracciando un moschetto per stanarlo, come fossero state loro, le parole, a mandargli a gambe all’aria l’esistenza. Sembrava avesse la testa ricolma dei cocci delle parole, di sillabe pensate e mai proferite.
Eppure un centro doveva averlo pure lui in quell’arcipelago di frasi smozzicate, di sentimenti sbandati, in quell’odore di selvatico, in quel dormire agitato come vela sbattuta dal vento.
Gliele avrebbe insegnate lei le parole, lei che, con quello giusto, poteva parlare per due, lei che sapeva scovare nel cesto del vocabolario quelle che colpiscono nel segno, che affondano il coltello, e poi quelle che addolciscono, che consolano, che aprono spazi.
E poi non si parla solo con le parole, ci sono messaggi, dichiarazioni, pensieri profondi che si mutano in sguardi, carezze silenziose, gesti imprevisti.
Angela non aveva dubbi, aveva ricevuto il segno, quello che non mente: quando l’aveva visto, le spalle curve, una faccia che promette solo guai, la birra che gli galleggiava nel sangue, lei aveva sentito le farfalle nello stomaco.

Solleva quella manica, tira su la maglia e fammi vedere quel tatuaggio le chiese con voce imperiosa Paola. Che cosa mi avevi detto che significava questa roba cinese o giapponese? Saggezza, mi sembra. E dov’è questa saggezza nella tua vita se continui a cadere dallo stesso gradino, se ripercorri lo stesso tratto sempre con lo stesso passo da vittima? Perché mi viene il dubbio che tu stia bene nella parte della vittima, che ti piaccia sanguinare.
Angela non rispose, non sapeva cosa dire.
Forse Paola aveva ragione, forse lei si ostinava a soffiare su tizzoni spenti?
Ma come uscire da se stesse? Non è che quando sai che sei fatta male, ti puoi rifare da capo. Sei così e basta. E non ti difendi da te stessa, magari ti lecchi le ferite, ti dai dell’idiota da sola, ma poi ricominci le tue giornate male, come sei capace. Tiri la carretta al lavoro, pulisci la casa di tua madre, cerchi di volere bene al tuo nipote svergolo e ti innamori dell’uomo sbagliato, ammuffito dentro, e ti condanni all’infelicità.
Eppure, nel profondo, lei in quel rosso ci vedeva qualcosa, ci sentiva un humus fertile, una possibilità. Probabilmente era sempre così all’inizio di una storia, lei ci immaginava quello che non c’era affatto, ce lo metteva. Perché era dell’amore che lei era innamorata, anche se un uomo che valesse la pena di amare davvero ancora non l’aveva incontrato, perché forse gli esseri umani non possono essere all’altezza dei sogni. E lei non smetteva di sognare come un’adolescente, sognava un amore magari non perfetto, ma quasi perfetto, uno di quelli in cui non devi fare la piega, in cui c’è molto del tutto che vorresti.
Non ci sarebbe ritornata quella sera al bar del quartiere. Non c’era da dargli troppa biada al rosso. Doveva starsene da solo, con il suo cane, aspettarla, girare il capo ogni volta che s’apriva la porta, nella speranza di vederla entrare e poi deglutire amaro. Doveva berci sopra alla sua assenza, assaporare il desiderio e la mancanza.
Gli avrebbe dato due sere libere, poi sarebbe ricomparsa. Si sarebbe truccata come si deve, avrebbe indossato gli orecchini e i bracciali della fortuna, quelli che allargano i campi di forza del destino, si sarebbe seduta al tavolino in fondo, avrebbe ordinato un caffè macchiato e l’avrebbe aspettato.
Lui non avrebbe mollato, i suoi occhi sfuggenti non l’avrebbero omaggiata con uno sguardo, lo sapeva, troppo coraggio ci voleva per ingarbugliarsi l’animo. E lui il coraggio l’aveva smarrito. Magari l’avrebbe raggiunta il cane e lui, con la scusa di riprenderselo, si sarebbe avvicinato come un sughero che galleggia in acque agitate, il volto infarinato dall’imbarazzo.
Eccoci qui –   beh sì –   già. Le parole erano troppo grandi per lui, gli andavano larghe, forse perché aveva solo silenzio nelle vene.
Allora sarebbe toccato a lei invitarlo a sedersi, gli avrebbe offerto una birra e gli avrebbe raccontato la sua giornata, così, per rompere il ghiaccio. Che se fosse stato per lui il silenzio sarebbe durato in eterno. Poi, come per sbaglio, gli avrebbe sfiorato un polso, forse una carezza di sfuggita. Magari lui ce l’avrebbe fatta a prenderle la mano.

Il partito preso delle parole .2

2. (Solo + sola)

Il solito sgabello nel solito bar. Era un locale senza pretese, niente happy hour, niente musica, niente macchinette mangiasoldi. Un bar di quartiere mai rinnovato, tavoli di legno segnati dalle bruciature di sigaretta, a testimoniare che per anni nei bar ci si era potuto fumare, e dalle cicatrici a cerchiettini lasciate dai calici. Sembrava pulito, anche se era tenuto un poco in penombra, forse per lasciare indefiniti i pensieri consumati, i ricordi rosicchiati dal tempo degli avventori, quasi tutti anziani, che di passato da dimenticare non mancavano.
Lui si sedeva al bancone, in uno solo non occupi un tavolo. Sceglieva l’ultimo posto, quello dove il banco aveva già fatto la curva e ci si poteva appoggiare al muro. Non aveva bisogno di ordinare: Beppe il barista, lo conosceva, anche se in verità parlati non s’erano parlati mai. Sapeva che lui beveva birra, birra da poco, per poterne ingurgitare di più.
Dick era tollerato, il barista lo lasciava accovacciarsi sotto il suo sgabello, perché sapeva che era un cane ben educato, uno di quelli che non attacca briga, che non abbaia, uno che gli basta stare con il padrone, andare dove va lui, sedersi dove lui si siede e fare silenzio quando si deve. Quel cane non lo abbandonava mai e non pretendeva gran che. Certo c’era da portarlo fuori almeno due volte al giorno, ma se proprio Franco non era in grado, Dick si arrangiava da solo. Aveva imparato ad afferrare con le zampe anteriori la maniglia della porta d’ingresso e ad appendercisi di peso fino ad aprirla per poi scendere le scale e fare i suoi bisogni nel cortile condominiale. Tanto lì erano tutti poveracci, per lo più immigrati, e alla pulizia mica ci badava nessuno.
A Franco non piaceva quella storia del cane che sgusciava da solo in cortile, hai visto mai che i cinesi del quarto piano se lo cucinavano per cena. Non hanno proprio religione quelli, per loro un cane è come un pollo. Ma certe sere non ce la faceva proprio ad uscire, era come insabbiato in una tristezza dolciastra, di quelle che ti si attaccano come la colla e ti imbrattano di grigio dentro. Altre era troppo sbronzo per reggersi in piedi e neanche riusciva a raggiungere il letto. Succedeva che si svegliasse il mattino rannicchiato sotto il tavolo della cucina, la faccia in una pozza di grappa da poco, colata dal collo della bottiglia.
Aveva cominciato a esagerare con l’alcool, poco per volta. Non che avesse deciso di imboccare quella strada, era la strada che gli si era distesa sotto i piedi da sola, prima che lui potesse realizzare, scegliere. E di bicchiere in bicchiere il tasso alcolico lievitava e ogni sera di bicchieri ce ne voleva uno di più.
La birra aveva il pregio d’invogliare al rutto, e il rutto, si sa, manda giù. E lui da mandare giù ne aveva parecchio.
Aveva deciso che non era una buona cosa bere da solo, per via di quella parola solo che gli prudeva sulla pelle. Non sarebbe diventato un vecchio ubriacone, di quelli che trovano stecchiti in casa magari dieci giorni dopo la morte, già decomposti. Allora aveva preso l’abitudine di andare verso sera al bar di fronte, lui e Dick, a bere sbirciando la strada polverosa di fuori. No, Dick non beveva di certo, anche se una volta l’aveva sorpreso a leccare del rosso che lui aveva rovesciato sul tavolo. Beppe, gli dava sempre un pezzo di pane vecchio e il cane gli faceva festa, gli leccava le mani, raddrizzava le orecchie come a ringraziare.
Era una bella compagnia un cane, l’unica di cui un uomo si potesse fidare. Un cane non pretende, al massimo butta fuori due versi a fauci spalancate per farti capire che una corsetta non gli andrebbe storta, o che un poco di cibo a riempirgli la pancia sarebbe gradito. Soprattutto un cane non parla, non ti racconta i fatti suoi e non ti chiede i tuoi, non ti dà il tormento, non ci da sotto con la rava e la fava, non ti vuole diverso da ciò che sei. Con un cane si può stare in silenzio come se si fosse soli.
Franco aveva capito molte cose sullo stare soli. Da solo s’era allenato a sopravvivere quando la nostalgia gli toglieva la forza, a blandire la collera quando gli deflagrava dentro. La sua vita si torceva giorno dopo giorno come il tronco d’un ulivo, dentro di lui il buio s’insediava e Dick stava lì, presente, silenzioso a vederlo sgonfiarsi poco a poco come una gomma bucata, senza recriminare, senza consigliare, senza pretendere.
Forse era per quello che tutti i punkabbestia avevano un cane, rognoso come loro, sporco lurido, ma accoccolato vicino, all’apparenza felice di quel poco. E loro, i punkabbestia, camminavano con il cane a fianco, mai legato per via di quell’illusione della libertà, la barba lunga, i vestiti che non si potevano guardare e dormivano per strada, cane e punk abbracciati, che quasi si assomigliavano rannicchiati nel vano di un portone. Chissà se erano felici? Chissà se spogliarsi di tutto, se ridurre la vita all’osso, a mera sopravvivenza, era meglio? Forse loro avevano capito quello che conta davvero.

Lei glielo aveva lasciato Dick, in uno slancio di generosità imprevisto che lo aveva stupito. Quella donna era così, ti buttava fuori casa e poi ti regalava il cane.  Due giorni dopo quella sera dell’appostamento sotto casa con la carabina carica, si era presentata alla porta delle sue due stanze fetide, bella, luminosa, ma con un’onda di tristezza nello sguardo che lui volle interpretare come rimpianto, o forse malinconia. Forse lui cominciava a mancarle?
All’inizio gli era balenato il dubbio, la speranza che lei lo rivolesse con sé, ma era stata la frazione di un secondo. Non era da lei tornare sui suoi passi, lei era una calma, non irosa come lui, lei non s’infiammava, lei ponderava, analizzava e poi alla fine decideva. E allora era finita, quando lei si metteva in testa una cosa non gliela levava più neanche il Padreterno.
Non l’aveva invitata a entrare, non voleva esibire il suo squallore, la sua disperazione e tutta quella solitudine arrampicata sulle pareti, distesa sul pavimento sporco. Aveva con sé il cane e glielo stava consegnando. Il loro cane, quello che avevano scelto insieme al canile perché il bambino s’era fissato con il desiderio di un animale. E neanche a farlo apposta, quel bambino anemico aveva scelto il cane più pulcioso, svergolo e sgangherato di tutti quelli disponibili. Forse era la pena che lo muoveva, forse il bambino si specchiava nel cane, o forse lei l’aveva infettato con quella storia di aiutare deboli e indifesi, di non tirarsi indietro, di stare dalla parte degli ultimi. Figlio sfigato e cane sfigato, bella accoppiata.
Ma lui con lei non riusciva a farsi intendere, provava a comandare, a dire la sua, ma lei, che con le parole ci sapeva fare, lo metteva nel sacco alla svelta, squadernando delle buone ragioni che lui neanche aveva considerato. Allora lui alzava la voce, metteva in fila due frasi stitiche e le urlava fuori con impeto astioso, come se il volume potesse compensare tutto quello che non riusciva a dire.
A ben vedere, Dick era un gran cane e con lui s’era inteso subito, subito l’aveva individuato come capo branco. Almeno il cane capiva qualcosa, almeno per il cane Franco contava qualcosa. O forse era perché toccava a lui portarlo fuori la sera e la mattina presto. Era così, moglie e figlio sceglievano e lui si pascolava le grane.
Erano impagabili le passeggiate col cane, soprattutto il mattino presto. Dick cominciava a leccargli le mani già prima delle sei, e se lui fingeva di non sentire, passava ai piccoli morsi, solo un accenno, forse un avviso che se non si fosse alzato avrebbe addentato di più. Franco s’infilava una tuta, si tirava in testa il cappuccio e fuori, Dick davanti a correre, poi ad annusare tutti gli angoli e i portoni per decidere se quello era il posto giusto per farci pipì. Che non la faceva tutta insieme come fanno i cristiani, ne buttava lì un goccetto e poi ricominciava a correre. Dopo qualche minuto, eccolo pronto per il secondo goccio, e poi per il terzo. E in mezzo, fra una pipì e l’altra, aveva un gran da fare a zampettare e saltare. E gli toccava accelerare anche a lui per stargli dietro, anche se Dick aveva ben altro fiato e filava come un razzo avanti e poi indietro per vedere se Franco non si fosse perso, e gli addentava la tuta perché lui si desse una mossa, perché la città addormentata era un sogno da godersi tutto, senza rallentare, senza perdersi nei pensieri.

Lei glielo stava affidando e quel dono lo sorprendeva. Avrebbe dovuto essere imbestialita con lui per la cazzata del fucile. Invece, eccola con cane al guinzaglio, ciotola e cibo. Che avesse annusato la sua disperazione? Che lui le avesse fatto pena? E allora perché non se lo riprendeva? Perché non veniva a proporgli di riprovarci invece di liquidarlo con un cane, come se anche lui non fosse che una bestia?
Non glielo chiese, l’orgoglio impediva la domanda. E poi non avrebbe saputo come, che parole usare per farsi capire, per proporre senza implorare. Che un maschio deve conservarla la dignità. E poi c’era il brizzolato della bmw, quello con la faccia malinconica. Meglio tacere.
Senza neppure un grazie, aveva preso il guinzaglio e le aveva chiuso la porta in faccia. Che andassero al diavolo lei, quello della bmw e la compassione che le aveva letto negli occhi. Lo metteva a posto con un cane, come se una bestia bastasse a riempire il vuoto d’amore.
Neanche l’aveva guardato Dick quella sera, perché gli sembrava troppo poco, una miseria, un cane al posto di una famiglia, che faccia tosta.
E invece Dick era ben più di una bestia, lui capiva un sacco di cose senza bisogno di dirgliele, lui sapeva quando era ora di mettersi tranquillo, di dormire o di fare finta di dormire. Il cane lo teneva d’occhio a modo suo, senza rompergli l’anima, senza dirgli che cosa dovesse fare.
Una notte in cui Franco era svenuto e giaceva incosciente sul pavimento, un tasso alcolico poco compatibile con la sopravvivenza, Dick s’era attaccato alla maniglia della porta d’ingresso con tutto il suo peso, era uscito e aveva cominciato ad abbaiare e a grattare alla porta dei negri del Camerun per chiedere aiuto. E i negri, incredibile a dirsi, avevano chiamato un’ambulanza. Forse questi giargia, non tutti, questi del Camerun, non erano poi così male.
Bella bestia quel cane, bel cervellino, bella prontezza di spirito e, soprattutto, a lui ci teneva, altrimenti chi glielo avrebbe fatto fare di sobbarcarsi tutto quell’abbaiare, e grattare, e saltare per salvarlo.
E senza neanche sfasciargli le scatole perché smettesse di bere. Dick se lo teneva così, non proprio lindo, la barba rossiccia sfatta, lo sguardo annacquato e quel leggero tremore nelle mani. Non ne faceva una questione, perché quando si vuole bene non si rompono le palle.

Entrano nel bar come ogni sera, senza salutare nessuno. Non é lì per fare amicizia e poi sono quasi tutti vecchi che giocavano a briscola.
Franco solleva le sopracciglia in direzione del barista, Beppe solleva un calice a mo’ di benvenuto e prepara il pane per Dick che salta per azzannare il boccone al volo e poi gli sorride. Succede che qualche cane lo faccia mostrando denti e gengive, ma in realtà è con gli occhi che un cane sorride, sorride e ringrazia. Poi si accuccia sotto lo sgabello e comincia a dormire, mentre Franco dà l’attacco alla prima birra.
La prima è per togliere le sete, la seconda per ammorbidire la prima, ma è la terza quella magica, quella che scioglie i muscoli del viso, pulisce il cervello come una spugna, poi con la quarta non c’è più niente che non sia il bar, gli aneddoti dei vecchi ripetuti cento volte, la polvere sulla strada, l’ultimo raggio di sole che colpisce di sbieco il cartello stradale.
Ce n’è sempre una quinta, una sesta e, nelle sere buone, anche una settima. La birra ha questo di bello, ti sbronza lentamente, poco per volta, non ti dà la botta secca dei superalcolici. E poi non costa cara.

Che cosa vuole quella secondo te Dick? –chiede accarezzandogli la testa. Guarda me o te quella bionda? Vuoi vedere che ci tocca condividere anche le femmine oltre che il letto! Facciamo un patto: quelle a quattro zampe sono tue, quelle a due sono mie – gli dice mentre gli viene quasi da ridere. Dick apre un occhio come a sigillare l’accordo e poi riprende a sonnecchiare, mentre lui ordina la settima birra, questa sera ci vuole.
La bionda non molla l’osso e ora lo guarda dritto negli occhi, come se volesse risucchiargli il fiato.
Da non credere, che cazzo vuole quella biondina slavata? Si guarda alle spalle nel dubbio che sia un altro quello cui è diretto lo sguardo, ma c’è solo il muro. Beppe sorride di sbieco, Dick ronfa della grossa.
Non l’aveva notata prima, non è che di donne in questo bar ce ne vengano molte. Non era una cui di solito avrebbe concesso una seconda occhiata. Se ne sta seduta a un tavolo in fondo, sola, con davanti una tazzina di caffè. Un caffè in questo bar lui non ce l’ha mai bevuto, pensa, e sorride un’altra volta. E’ allora che lei si alza e si avvicina. Magari ha pensato che Franco sorridesse a lei e s’è illusa, ha creduto di piacergli. Ma sbronzo com’è, sorriderebbe pure a una scimmia.
E’ lei che parla per prima. Sono sempre loro, le femmine che decidono, ai maschi lasciano l’illusione di gestire il timone, ma in verità i maschi non contano mai un cazzo pensa fra sé.
Non è che capisca bene quello che lei dice, è troppo intento a contarle con lo sguardo gli orecchini e poi tutti quei bracciali che pare una ferramenta. Lei intanto parla. Fanno così le donne, blaterano e ti rimbambiscono, e finisce che credi che hanno ragione loro, e fai quello che vogliono.
Le parole di lei gli rimbalzano nella testa come palline da tennis, le sente ma non ne capisce il significato, o forse teme che le sue domande possano strappargli i vestiti di dosso fino a lasciarlo nudo e indifeso. La sente parlare come in lontananza e aspetta in silenzio che tutte quelle parole gli si organizzino nel cervello come soldati in parata, per poter cominciare a capire. Ma tutto quel vociare gli rimbomba dentro e lo stordisce.
Eppure sente forza in quelle parole e sotto ci vede germogliare dolore. Gli parlano dritto al cuore, come allacciando il sogno alla realtà. A tratti ha l’impressione di poter affondare in quella coltre di parole calde, di potersi affidare, come se avessero il potere di fare avverare le cose.
Lui si stropiccia la faccia e appoggia una mano sotto il mento come a sostenere meglio la testa assediata dai discorsi che gli vengono incontro troppo veloci, che sembrano tramortirlo.
Dick si è svegliato e le fa le feste. Cane bastardo, che gioco fai?
Gli viene il dubbio che il cane si stia confondendo, che abbia scambiato la bionda per sua moglie, per la sua ex moglie. No bello mio, lei ci ha mollati tutti e due, sono cinque anni che ti ha scaricato sulla porta di casa mia. Lei non ci vuole più, prima te lo metti in quel cranio duro meglio è.
O forse Dick aveva nostalgia del bambino e questa bionda, così magrolina, glielo aveva fatto ritornare in mente.
Alza una mano per ordinare l’ottava birra, non che ne abbia voglia, ma così, per togliersi d’impaccio, perché non riesce proprio a seguirla questa donna che gli chiacchiera in faccia come se lo conoscesse. Lui resta muto, diffidente e non prende parte alla faccenda.
Beppe finge di non sentire la sua ordinazione, forse non vuole vederlo piombare a terra nel suo bar, non vuole dover raccogliere il suo vomito. Non che fosse mai successo, era sempre riuscito a fermarsi prima, o al massimo a vomitare per strada, ma il pavimento del bar non l’aveva inzaccherato mai. L’aveva calpestato a tentoni, quello sì, perché si sentiva balengo e perché quel pavimento, a una certa ora, diventava obliquo, pendente e se non ci stavi attento ti faceva perdere l’equilibrio.
A casa invece vomitava spesso, e ci si svegliava dentro nel suo vomito, i pantaloni umidi di piscio.
Ora erano per strada, il cielo screziato dalle nubi. Non ricordava come fosse successo, come fosse uscito dal bar, se il pavimento fosse dritto o storto quella sera, se avesse pagato le birre. Camminavano fianco a fianco, lui, Dick e la bionda che gli si era incollata addosso sa Dio perché. In fondo l’odore di una donna non lo sentiva da anni, perché no

Il sole entrava obliquo dalle persiane e le colpiva il volto. Aveva una donna nel letto e il cane, quel traditore, dormiva accoccolato vicino a lei. Restò immobile, gli occhi spalancati come ad interrogare il giorno, per capire che intenzione avesse, che cosa avesse previsto per lui.  Sentiva una tremenda pressione dentro che lo faceva ritrarre nel suo guscio di lumaca.
Provò a rimettere insieme i frammenti della serata. Sicuramente aveva bevuto, beveva tutte le sere. Si ricordava i suoi occhi insistenti, lo sguardo aguzzo indagatore e quelle parole che gli erano franate addosso e che non aveva capito. E ora che cosa le avrebbe detto? Perché qualcosa doveva pur dire, una donna se le aspetta sempre le parole.
Tentò di alzarsi in silenzio con l’idea di sgattaiolare via, uscire di casa e non farsi trovare. Ma Dick era balzato in piedi e l’aveva svegliata. Lei aveva allungato le gambe, si era sgranchita come un gatto e aveva aperto gli occhi. Sembrava non riconoscere né lui né la stanza, poi le sue labbra si erano distese in un sorriso.
Beh, ora te ne puoi anche andare aveva sibilato lui prima che potesse frenare le parole. Ora che hai avuto quello che volevi, lasciami in pace.
Lui era capace di parlare solo così, con furore, con parole fuori misura, parole nervose che sapevano solo mordere. Le cercava le altre parole, ma loro lo disertavano. Nei giorni buoni riusciva a sentirle in fondo a non si sa cosa, ma erano come schiacciate, trattenute da una mano invisibile e non c’era pinza che le stanasse. Allora si metteva in salvo negli abituali insulti e nel rumore che sollevavano superando ciò che voleva dire. Nel cuore, il silenzio di una cattedrale deserta.
Il viso di lei si era accartocciato in una smorfia e d’istinto aveva allungato una mano verso il lenzuolo per coprirsi, come volesse rimangiarsi quello che avevano fatto, come per pudore. Sul viso le si era sparso un forte rossore, la bocca tesa in una linea secca, offesa. Per un attimo sembrò che la vista le si annebbiasse, mentre nella stanza entrava un forte senso di disagio. Poi un fiume di rabbia le aveva attraversato lo sguardo, due minuscole rughe le erano comparse fra le sopracciglia e, arrotolata nel lenzuolo grigiastro, si era messa in ginocchio sul letto, gli occhi in fiamme pronti allo scatto. Niente ho avuto, se proprio lo vuoi sapere, non è successo niente.
Com’era possibile che avesse fatto cilecca, con tutta la fame che aveva?
Lei gli lesse il dubbio nel volto e gli chiarì che non aveva fatto fiasco, che proprio neanche ci aveva provato; che, dopo un rutto da far tremare i vetri, si era schiantato sul letto e era caduto nel mondo dei sogni.
Beh, se ti devo pagare dimmelo e poi vattene buttò fuori come un veleno la sua bocca.
Lei si alzò di scatto, lasciò scivolare a terra il lenzuolo e rimase nuda, diritta davanti a lui guardandolo con disgusto. Poi cominciò a strillare, come se strappasse a morsi le parole, che lei non era una bagascia, che lavorava in una stireria, che non le servivano certo i suoi soldi sporchi, che s’era solo sentita sola, che l’aveva visto solo e aveva pensato che soli in due era meglio. Perché non è che solo più sola faceva due solo, e neanche un solo al quadrato, per lei faceva meno soli, magari fra due parentesi tonde come abbracci.
Lui sedeva afflosciato sul bordo del letto, a un palmo dal suo livore, le braccia penzoloni fra le cosce, un mozzicone di sigaretta spenta che gli pencolava da un angolo della bocca.
C’era qualcosa di disarmante in quell’uomo, si aveva l’impressione che respirasse ai bordi esterni di ciò che accadeva, come riuscisse a starne fuori.
D’improvviso, lei lo guardò dritto in volto come a trafiggerlo e lo colpì con due colpi secchi, due schiaffi di quelli ben assestati. Bel colpo per ‘sta magrolina – pensò lui mentre le afferrava i polsi con le sue mani grandi. E più lui stringeva e più lei urlava e si dibatteva, scuotendo i capelli a destra e a sinistra.
Aveva paura la ragazza, la mostrava scritta in quegli occhi febbrili che sembravano sopraffare tutta la faccia e nella bocca tirata. In fondo di lui non sapeva proprio niente, magari era un violento, magari aveva un’arma. Certo che ce l’aveva, una carabina di lusso. Ma dopo l’ultima cazzata l’aveva data in deposito a suo padre, perché non si fidava più di sé stesso, perché sentiva che il passo dalle parole ai fatti non era poi così lungo. Anche per questo beveva, per tenere a bada tutta quella rabbia, oltre che la tristezza.
Era carina senza trucco e senza la ferraglia, forse un po’ troppo magra per i suoi gusti, ma ben fatta. E tutta quella foga, quegli strilli la facevano quasi bella.
Franco la guardò, pareva una corda tesa e lui sentiva la sua presenza come una pressione sulla pelle, come qualcosa che lo toccava dentro. Quella donna camminava dal lato buono della vita.
Franco le sorrise e, delicatamente, la avvicinò a sé e la baciò con tenerezza. Lei cercò di divincolarsi, c’era troppa notte in quell’uomo, ma poi a poco a poco si sciolse, dimenticò di essere arrabbiata e annacquò la sua solitudine in quella di lui.
Dick si tenne decorosamente in disparte, un cane come si deve sa quando è ora di togliersi di torno.

Il partito preso delle parole .1

1. 00174-XX7, P.S.F., E.L.


Non entrava in quella casa da mesi, eppure nulla era cambiato: gli stessi mobili da quattro soldi, vecchi e consunti, congelati nella disposizione di sempre. Era sua madre che era fissata con i rinnovamenti. Certe mattine la trovava già sveglia all’alba a spostare poltrone, a ficcare stracci sotto i piedini della credenza per farla scivolare sul pavimento e posizionarla nella parete di fronte, così da fare sembrare la stanza diversa, visto che soldi per comprare mobili nuovi non ce n’erano mai.
Da quando lei era mancata, in quella casa non si muoveva foglia e, ovviamente, neppure mobili.
Di convivere con una badante suo padre non ne voleva sapere, aveva accettato solo l’aiuto di una vicina che, per quattro soldi, s’era offerta di pulire una volta ogni tanto. Non faceva un buon lavoro, una polvere vecchia di anni ricopriva i mille soprammobili che probabilmente lei neanche spostava e un odore di cibo stantio ristagnava nell’aria. Non si poteva pretendere, per quel poco che la pagava.
Suo padre era seduto in cucina, come sempre. Il divano e la poltrona non aveva l’abitudine di usarli, li teneva buoni per chissà quale occasione, in salotto, coperti da un involucro di plastica che ormai aveva quarant’anni ma che non s’era sbrecciato mai, perché nessuno mai s’era seduto su quel divano.
Parenti ne avevano pochi e abitavano lontano, di amici non se ne parlava proprio. Magari qualche vicino, gente di casa per cui una sedia in cucina e la tazzina del caffè di tutti i giorni erano perfette.
Era vecchio e trasandato, le sopracciglia lunghe e arricciate, gli occhi cisposi incapsulati in palpebre rugose che l’acqua non sfiorava da tempo. La fronte sembrava un campo arato di fresco e le guance flosce e cascanti con quelle due parentesi ai lati della bocca gli disegnavano un’espressione vacua, lontana da tutto, perfino dalla disperazione, assente.
Come te la cavi pa’? gli chiese accendendo la luce e appoggiandogli una mano sulla spalla per scuoterlo dal torpore, mentre sentiva che non riusciva proprio ad amarlo quel vecchio perso in non si sa quale altrove.
La bocca del padre si contorse come se non riuscisse a rispondere, come fosse imprigionato in un’eco interiore. Forse era diventato ancora più sordo, forse la sua testa vagava in un altro mondo, un mondo in cui sua moglie ancora si occupava di lui e lui era un operaio che timbrava il cartellino, non un vecchio scalcagnato, prostrato dalla rassegnazione e da quell’agonia diluita.
Faticava a vederlo così e forse per questo non si curava di lui. Meno lo vedeva e meno ci pensava, a lui e a quella storia balorda di invecchiare e poi morire. Che tanto ognuno ha il suo destino e le sue grane. E a Franco le grane non mancavano di certo.
Anche la sua stanza da ragazzo era rimasta immutata, tale e quale: mobili al risparmio, ACDC e Metallica alle pareti, i libri di scuola. Del suo fucile nessuna traccia.
L’ho messo insieme ai miei nell’armadio chiuso a chiave, con tutti i negri e i disgraziati che girano…
Suo padre di fucili ne aveva ben tre, tutti comprati con lo sconto alla fabbrica Beretta dove aveva lavorato, come la maggior parte degli uomini della valle che non volevano più fare i pastori o i contadini. E lui di fucili se ne intendeva.
Quando Franco era un ragazzino gliene aveva regalato uno leggero, con il calcio inciso a mano. In Val Trompia c’erano donne che praticavano ancora l’arte della bulinatura scolpendo scene di caccia sui calci delle armi.  Il suo fucile d’infanzia era impreziosito dall’immagine di una piccola lepre in fuga.
Come sparare a un leprotto?  –  s’era chiesto lui undicenne quando, fucile in spalla, era uscito con suo padre per la prima battuta di caccia. Per cacciare bisogna essere pronti ad uccidere, non solo a sparare– gli aveva detto papà. Uccidere è l’istinto dell’uomo e delle bestie. E’ così, è la natura. Se vuoi diventare uomo devi uccidere. Uccellini certo, non cristiani, che se no ti si aprono le porte della galera. Anche se a certi cristiani una pallottola in fronte gli starebbe proprio bene, che qui se non ci si difende da soli, a noi non ci pensa mica nessuno. Prima te lo ficchi in testa e meglio è. Pensa per te e per la tua famiglia, pensaci tu, non stare a sperare in quelli della politica. Comandano i rossi o comandano i neri, i poveri diavoli restano poveri diavoli, credimi.
Gli piaceva uscire con suo padre, non tanto per la caccia ma per stare ad ascoltarlo, per camminare con lui nel verde, per l’attenzione ai rumori, perché ogni fruscio poteva essere un passero.
Il capanno non ce l’avevano, suo padre aveva le sue idee, preferiva vagare calpestando l’erba, gli archetti li odiava, erano una roba da figli di puttana. Per non dire degli uccelli di richiamo, una vera bastardata. E’ nel tiro a volo che sta la bravura di un vero cacciatore gli diceva sempre.
Bella forza uccidere un uccellino indifeso, avrebbe detto a Franco sua moglie, vent’anni dopo. Che gusto ci provavi a interrompere una vita che non ti aveva offeso, che si faceva il suo volo senza pretendere nulla? Non mi vorrai far credere che la caccia è uno sport? Uccidere per sport?
Ma le donne, si sa, di caccia e di sport non ci hanno mai capito un accidente.
E poi in valle gli uomini erano tutti cacciatori, era tradizione. Lavoravano alla fabbrica Beretta e cacciavano, uccelli consentiti e specie protette, perché chi ce l’ha il diritto di stabilire questo sì e quello no?  Dov’è finita la libertà? E che cos’era quella storia di proteggere gli animali, c’erano la selezione naturale e subito dopo la caccia: chi ce la fa bene, e gli altri a pascolare nei cieli di Dio. Perché per un cristiano è forse diverso?
Franco non aveva mai beccato un granché, non aveva una buona mira e poi a volte chiudeva gli occhi all’ultimo minuto, come per non volerne sapere niente, per non essere lui quello che premeva il grilletto. Che premere il grilletto non è una cosa da poco.  E poi ci si deve subito preparare al rinculo.
Suo padre gli aveva raccomandato di tenere il calcio inchiodato stretto alla spalla per sentire meno dolore nel contraccolpo, di impugnare l’arma con fermezza ma delicatamente, di allineare l’occhio al mirino e poi, superata la soglia della paura, sparare sicuro.
In realtà, quello che gli piaceva era la corsa che veniva dopo, con i cani davanti, in mezzo all’erba, il sangue a pulsargli nelle tempie. I cani abbaiavano e lui urlava come un pazzo, preda di una frenesia, del piacere di averlo premuto quel grilletto, di essere un uomo a tutti gli effetti, non un moccioso.
Il suo fucile c’era ancora, ma a tenerlo in mano sembrava leggero, le canne troppo corte, il calcio stretto per la sua spalla di uomo. Suo padre gliene propose uno dei suoi, non uno qualunque, il più bello.
Tienila bene, mi raccomando, trattala come se fosse sempre caria. Questa sì che è un’arma, un’arma da uomo.
Franco provò a mettersi in posizione, la guancia appoggiata all’arma, il peso sul piede sinistro spostato in avanti, il calcagno del piede destro di poco sollevato, proprio come gli aveva insegnato suo padre che non sbagliava un colpo, puntava il bersaglio con una faccia inespressiva e, come se avesse un computer in testa, colpiva il fagiano che si afflosciava in volo e cadeva a testa in giù.
Era perfetta, una gran bella carabina, completa di cannocchiale. Portava cesellato sul calcio un cervo con uno splendido palco di corna, pronto al balzo.
E’ una carabina da caccia grossa, calibro 308, ci puoi uccidere un cervo o un cinghiale. Se miri con il cannocchiale da puntamento la preda te la vedi lì, come se fosse a due passi. E poi guarda bene sul fusto e sulla canna, osserva la matricola, il catalogo e soprattutto il punzone del banco.
00174-XX7, P.S.F., E.L. mostravano le incisioni. Il primo è il numero di matricola, cioè la targa del fucile e il numero progressivo di produzione, XX7 è il certificato di nascita, vuol dire che è stato costruito nel 1971 e P.S.F. indica le prove di sparo fatte dal banco.  E.L. sta per extra lusso, mica un fucile basico – chiariva il padre gonfio di orgoglio, gli occhi rianimati forse dal ricordo del volo di una quaglia o del ritmo della catena di montaggio della fabbrica Beretta, o del bicchiere di bianco con l’oliva del fine turno, seduti all’osteria, le gambe accavallate, a tirare il fiato parlando di calcio, donne e politica.
Ricordati di pulirla come si deve prima e dopo l’uso, ben oliata, come ti ho insegnato. Un’arma come quella è un gioiello. E poi sono contento che vai a caccia, è un po’ come se ci andassi ancora anch’io che adesso ci vedo poco. Dovrei decidermi per quell’intervento delle cataratte. Ma poi che cosa mi importa, non è che ho gran che da vedere. Anzi alla mia età, meno si vede e meglio è.

Franco teneva la carabina sotto il sedile dell’auto: un’arma a portata di mano ti dà sicurezza, pensava. L’aveva pulita per bene, godendosi in mano il freddo delle canne, accarezzandolo come fosse un bambino. Se ne sentiva la responsabilità, era una “signora carabina”. Non che avesse deciso che farsene, ma stava meglio a sentirla vicino, gli faceva compagnia, gli apriva possibilità nuove.
Da quando il giudice lo aveva cacciato di casa con un decreto di allontanamento, lui viveva in due stanze ammobiliate in un quartiere popolare degradato, pieno di neri e magrebini. Ma non si poteva permettere altro, perché c’era da pagare il mutuo di casa, anzi dell’ex casa, gli alimenti per il figlio ancora piccino, l’affitto di due stanze fetide e poi doveva vivere lui. Niente sfarzi, con il suo stipendio ci stava dentro al pelo. Niente cene fuori.E poi con chi? Di amici non gliene erano rimasti, si erano schierati tutti con lei, cioè contro di lui. Dicevano che era un violento, ma non era vero. Lui non aveva mai spaccato la faccia a nessuno. E certo le occasioni non gli erano mancate Aveva un brutto carattere, si accendeva con niente, sputava fuori parole roventi, si alterava, la minacciava,ma solo con la voce.
Magari l’aveva spintonata, qualche volta un ceffone. Sì, anche davanti al bambino, non è che lo scegli quando dare fuori di matto, non è che l’ira la puoi rimandare, quando arriva arriva e chi c’è c’è.
E di ira in quelle due stanze anonime, che continuava a considerare provvisorie, ne masticava parecchia.
Si sforzava di non guastarsi l’animo rimpiangendo i tempi andati, di andare avanti, di farsi riprendere dalle fesserie della speranza, dal filo appiccicoso della vita, ma vivere insieme alla feccia, ai pakistani con i loro capelli unti, ai negri che ballano e mangiano a tutte le ore, ai nordafricani con il coltello facile non era mica uno scherzo.


Le liti nel suo stabile erano all’ordine del giorno e della notte. Lui cercava di starne fuori, di non mischiarsi a quella gentaglia che, se fosse stato per lui, avrebbe rispedito a casa loro.
Ma, come sempre, lui non contava un cazzo.
A volte la mattina si svegliava agitato, come se avesse dormito in casa d’altri, arrotolato in lenzuola sudate e stropicciate, comprate a buon mercato, e sentiva i mugugni di quelli di sopra, o di quelli delle stanze accanto, in una lingua che non si poteva capire e pensava che una casa vera ce l’aveva e che la stava ancora pagando. Una villetta a schiera nella parte sud della città. Niente di lussuoso, ma lui, che con le mani se la cavava e sapeva fare un po’ di tutto, l’aveva sistemata bene. Aveva immaschiato le assi del parquet di rovere nella zona giorno e incollato la moquette nelle camere. La tappezzeria se l’era risparmiata, grazie a Dio non era più di moda, altrimenti lei, che era grande nella testa, avrebbe preteso pure quella.
In realtà si era divertito a fare quei lavori, ne era orgoglioso.
Ora però gli prudevano le mani all’idea che quella casa non fosse più sua, che non potesse più ciabattarci la sera, bersi una birra con i piedi sul tavolo a fine turno, insegnare a stare al mondo a suo figlio. E sa Dio quanto quel bambino ne avesse bisogno, che più lo si lasciava in mano a lei più si faceva pauroso, da sembrare malato, quasi una checca.
Lui si era impegnato per quel che poteva a raddrizzarlo, a cementargli la spina dorsale. Ma il calcio non gli interessava, la box non parliamone, non la reggeva neanche in tv. La caccia non poteva neanche nominarla senza farlo impallidire. Era un bambino fragile, piccolo e magro per la sua età, gli occhi perennemente cerchiati di nero. A scuola se la cavava bene, anche se le maestre dicevano che soffriva d’ansia, che non reggeva lo stress delle interrogazioni, che aveva attacchi di panico.
Certo a trattarlo come una femminuccia come faceva lei, che cosa volevi che ne saltasse fuori? Se glielo avesse lasciato in mano, che so per un annetto, lui lo avrebbe aiutato a farsi uomo, a tirar fuori le palle, perché era figlio suo e le palle ce le aveva di certo da qualche parte.
Quella sera non c’era verso di stare tranquilli a cena. Si era comprato un pranzo precotto al supermercato, non cucinava mai, non si cucina per uno solo, si mangia freddo o al massimo si riscalda al microonde. E poi quei vassoietti costavano poco.
I giargia del piano di sopra facevano un fracasso d’inferno, parlavano in tanti, tutti insieme, forse litigavano con i loro vocioni spessi. E mica c’era da incazzarsi con quei bestioni, che magari ti portavi a casa un sacco di mazzate.
Aveva acceso la macchina e aveva cominciato a girare nella città buia, incazzato con quei negri, con quella vita grama che gli era toccata, con i soldi che non c’erano, con le speranze andate in fumo, con lei che l’aveva cacciato, con suo figlio che cresceva storto e anche per quello sembrava fosse colpa sua.
La macchina come d’incanto aveva imboccato la strada di casa, della sua ex casa. Aveva parcheggiato sul marciapiede di fronte, i fari spenti, così senza motivo e se ne stava lì senza sapere che fare, il cuore vuoto.
Le luci da basso erano accese, le tende tirate, non si vedeva niente di dentro, però si poteva immaginare. A quell’ora lei aveva finito di cucinare e stavano mangiando. Televisore spento, lei diceva che faceva male mentre si mangia. Inspirò a fondo, forse per annusare i profumi e scoprire che cosa avevano nel piatto. Odore di casa. Che idiota, da questa distanza, finestrini chiusi, che cosa vuoi sentire?
Gli sfuggì l’occhio verso il garage. Era chiuso, lei parcheggiava sempre dentro per paura dei vandali, anche se lì in quel quartiere non succedeva mai nulla. Avrebbe dovuto provare a vivere dove abitava lui adesso, in mezzo a quella feccia senza nulla da perdere, immerso in quel puzzo di curry, di aglio e di olio fritto.
Fuori dal garage, in fondo al vialetto, proprio davanti alla basculante, era parcheggiata un’auto grigia metallizzata sconosciuta, una bmw.
Suo suocero non guidava più, e poi una bmw non se l’era mai neanche sognata, sua suocera non aveva mai guidato, amiche con l’auto di quella tinta e di quella cilindrata non se ne ricordava.
E se fosse di un uomo? E se lei avesse un uomo?
Quella possibilità non l’aveva mai sfiorato, lei diceva sempre che con gli uomini non voleva più avere nulla a che fare, che gliene era bastato uno. Ma magari aveva cambiato idea. Magari ne aveva incontrato uno di quelli tutte moine, fiori, cioccolatini e compagnia cantando, un uomo che ci sa fare con le donne.
Quel pensiero gli imperlò la fronte di sudore e la mano, inconsapevolmente, scivolò sotto il sedile, ad accarezzare la carabina Beretta, la testa come imprigionata in una bolla.
No, non era geloso, è che lui era un uomo, uno di quelli che sa difendere il suo, che non si fa soffiare moglie e figlio da un damerino con auto grigia metallizzata che certo non abita in due stanze puzzolenti ammobiliate, fianco a fianco agli immigrati.
Decise di aspettare, di calmarsi, di riflettere. Forse fantasticava e stava costruendo castelli in aria, forse ci ricamava sopra e poi quell’auto magari era di una collega di sua moglie.
Ma quella era un’auto da uomo, ne era certo. Non che ci sia una regola: a destra le auto da uomo, a sinistra quelle da donna. E’ che le donne le berline non le amano, così lunghe poi, non le sceglierebbero mai. Poi come le parcheggiano? Loro, le femmine, comprano auto compatte, meglio se piccole e poi rigano anche quelle.
Pensava e intanto accarezzava la carabina. Non era lì per caso quell’arma, nulla succede per caso.
E se quell’uomo fosse anche ricco? E se fosse istruito? Lei di fronte a una poesia avrebbe calato le difese e anche le mutande, ne era sicuro. Le donne sono tutte così, non capiscono un cazzo. Non lo sanno che con le parole non ti riempi lo stomaco. Uno suda in fabbrica una vita, incastra le assi del parquet, tinteggia le pareti, taglia l’erba e poi arriva un sapientino qualunque che, senza una goccia di fatica, con due parole messe in fila per bene riesce a imbambolarle.
Al solo pensiero sentiva la rabbia scorrergli a fiotti dagli occhi iniettati di sangue.
Era sangue quello che bramava, fiumi di sangue per lavare l’onta di essersi lasciato soffiare moglie, figlio e casa, di vivere in un quartiere di merda, di mangiare cibo di merda, di fare un lavoro di merda, di essere solo come una merda.
Era quello che gli bruciava di più, quella parola solo che gli apriva una voragine davanti. Sarebbe sempre stato solo. Sì, magari una sgallettata se la sarebbe portata a casa, giusto per il servizio notturno, ma solo sarebbe stato comunque. Perché non è che di famiglie ne metti in piedi cento, che immaschi migliaia d’assi di parquet, posi chilometri di moquette, tagli quintali d’erba. La cazzata la fai una volta e poi, per il resto della vita ci frigni sopra, bevi birra, rutti in santa pace e ti senti morire.
Si era aperta la porta d’ingresso e il respiro gli si era inchiodato. Alto, brizzolato, più vecchio di lui, ma ben più elegante, un principio di calvizie che lo fece gioire, sbarbato di fresco.
D’istinto si portò una mano alla guancia ruvida, la sua rasatura non era recente.
Se ne stava andando. Allora non dormiva da lei, non erano ancora a quel punto. Bisognava intervenire subito, prima che succedesse, perché poi quando si crea quell’intimità fra maschio e femmina è dura. Perché lei non era una facile, una da una botta e via. Lei se con uno ci andava a letto, poi ci parlava e lo seccava con i ricordi, con quella menata dell’infanzia, e poi con i progetti, poi i sogni e via discorrendo.
Suo malgrado, ricordò quanto gli piacesse il sesso con lei, come potesse essere stupendo anche per quel dopo, per quel perdersi in fantasticherie che lo aveva ammaliato, per quel fare tutto semplice che lo teneva attaccato al lato buono della vita.
La guardò intensamente, come per accarezzarle il viso con gli occhi.
Tirò su la carabina e se la pose sulle cosce, così era pronto. Non aveva ancora deciso per cosa, ma era pronto. Bisogna essere pronti nella vita, altrimenti ti scavalcano tutti, ti rubano i soldi, la macchina e perfino la moglie. E tu te ne resti lì come un coglione, con l’indecisione in mano.
Ancora parlavano, fuori dalla porta. Chissà cos’avevano da dirsi? Lei ce l’aveva questa fissa delle parole, diceva che lui non parlava abbastanza, che non raccontava mai niente di sé, che era come aver sposato un muro.
Io non sono capace di entrare nel tuo silenzio, gli aveva detto un giorno.
Ma lui delle parole diffidava. Hanno un’aria da niente le parole, ma poi d’improvviso scatenano emozioni forti e ti ci trovi attaccato via come a un cappio. E ti tocca tremare per il resto della vita per il terremoto che hanno innescato, che mai avresti detto fosse possibile smuovere solo con i sentimenti. Le parole hanno così tante facce che non c’è da dargli credito, certe sono capaci di rigirarti le cose da non capirci più niente.
Però, a giorni, gli sarebbe piaciuto avere qualcosa dentro da dirle, ma le sillabe gli si impastavano sulla lingua, le parole erano grevi come se dovessero farsi strada attraverso qualche sostanza densa, e lui restava lì esitante come un allocco ad ascoltare tutto il silenzio che si sentiva dentro.
E poi che cosa raccontare di giornate di lavoro in cui, a parte che lavorare, non succedeva niente. E che dire dell’infanzia, chi se la ricordava?
Certo, a ben vedere non le aveva mai raccontato del fucile e della caccia, della sua paura, del sangue che gli pulsava alle tempie, dell’angoscia che lo prendeva di notte quando sapeva che il padre l’avrebbe svegliato presto per portarlo a sparare, del sudore della mano che teneva gli uccellini morti per le zampe, della speranza inconfessabile di sbagliare mira, di fare cilecca. Mica voleva fare la figura dello sfigato.  Che poi la paura se l’era fatta passare e si era fatto uomo.
Non aveva più sparato da allora, ma non era una cosa difficile. Un conto è colpire un uccellino in volo, un altro un uomo fermo davanti a una porta, davanti alla porta di casa tua, che fa il cascamorto con tua moglie e che magari chiacchiera anche con tuo figlio.
Abbassò il finestrino e il suo fiatò si condensò nell’aria quasi gelida. Imbracciò la carabina Extra Lusso, la faccia chiusa in una smorfia e tolse la sicura sentendo un click. L’arma era fredda e lui le stava attaccato come l’edera al muro. L’avrebbe scaldato lui quel fucile, con un colpo secco, di quelli che mettono le cose al loro posto. Pesava, era una carabina da uomo. Girò l’anello della messa a fuoco e di colpo l’avversario comparve al centro del mirino, vicino. Il suo dito si tese sul grilletto, era pronto.
La sua bocca era asciutta, le labbra serrate, le narici tese, il cuore sembrava percuotergli il petto lento, sotto la luce fredda della luna, la testa vuota di pensieri.
Non era così vecchio come aveva creduto, i tratti del viso erano distesi, quasi dolci, il naso leggermente storto come di chi qualche grana l’ha incrociata.
Lui, l’altro, neanche si immaginava di comparire nitido al centro del mirino di una carabina Beretta di quelle buone. Magari un’arma non l’aveva mai impugnata e per quello aveva quell’aspetto inamidato, come di uno che ha le ossa fragili e non ha capito niente della vita. Magari l’avevano bastonato pure lui e, invece di farsi forte, s’era immalinconito.
Ma era tardi per rifletterci, per cominciare a costruirci sopra, che se t’infittisci la testa di pensieri poi non fai più niente. Non si sarebbe tirato indietro questa volta, non avrebbe chiuso gli occhi, avrebbe fatto ciò che andava fatto, avrebbe difeso la sua vita, quell’unico pezzo di vita per cui valeva la pena di battersi. Ora avrebbe contato fino a tre e poi bang.
Non sudava, non tremava, sedeva con il tronco in leggera torsione, fermo come una statua, risoluto, le mani di pietra, gli occhi aguzzi a punteruolo. L’angoscia era rimasta a presidiare le sue due stanze ammobiliate.
Un respiro e poi: uno, due…
Ma, fermi tutti, che cos’è quella roba che corre?

Dick, Dick sei tu? Urlò trasalendo.
Aprì la portiera d’istinto e fu investito dal suo cane, un meticcio, cioè un bastardo, giovane e bello come il sole.
Il cane era così felice di vederlo che saltava come un matto e sembrava rimbalzare come una palla. Lo abbracciò e se lo strinse al petto forte, mentre Dick gli leccava il viso uggiolando, si beveva le sue lacrime salate e lui lo accarezzava. Sbavava Dick la sua sorpresa, il muso imbrattato di gioia. E intanto spiccava balzi da non credere, come se anche le zampe volessero confermare alla terra tutta la sua irrefrenabile contentezza. Bava e lacrime, umori mescolati, lo stesso stupore, la stessa speranza.
Franco, con una folle ilarità negli occhi, si inginocchiò sul marciapiede e presero a rotolare, uomo e cane avvinghiati sull’asfalto, vicino ai bidoni dell’immondizia, a ridere, a dirsi dolcezze, a scambiarsi baci e leccate a non finire.
Dick gli voleva bene.
La carabina Beretta 00174-XX7 Extra Lusso, con il colpo ancora in canna, era scivolata a terra. Dal calcio di legno un cervo li osservava stupito in silenzio, piegava di poco il capo regale, palco di corna incluso e, con un balzo, scattava via.

Fino all’ultimo respiro

Distolse lo sguardo, chiuse la porta e, la testa incassata nelle spalle, si avviò lungo il corridoio. Percorse lentamente a occhi bassi, i metri che lo separavano dalle scale, desiderando di non incrociare volti, di non rispondere a saluti. Per strada, l’asfalto era estraneo ai suoi passi, tagliente. Gli pareva di camminare in equilibrio sul margine di un dirupo. Il freddo gli feriva la faccia. Si calcò il berretto sulla fronte e sollevò il bavero del giubbotto. Si soffiò sulla punta delle dita, ma il suo fiato era di ghiaccio, come scaturisse da un gelo che gli infuriava dentro. Si ficcò le mani in tasca fino in fondo, svuotato, vittima di una calma innaturale, quasi un torpore.
I pensieri stentavano a prendere forma, sembrava dovessero farsi strada a fatica attraverso un magma troppo denso. Eppure, sentiva di dover pensare per poi poter parlare. Parlare a nessuno di preciso, parlare a sé, nominare gli eventi per renderli reali, perché sono le parole che fanno la realtà. Forse, sarebbe stato più facile cominciare dalle parole per ottenere pensieri, frasi che rimorchiassero un senso da dare a quella notte di disperazione, di pioggia e di furore, all’irreversibilità del fatto.
Il buio cominciava a sbiadire al ritmo del suo cammino, brandelli di discorsi gli affollavano la mente: giustificazioni, buone ragioni che si sarebbero potute mutare in un’assoluzione. Frasi brevi si spintonavano nella sua bocca, pronte a rotolarne fuori liberandolo. Lentamente e coraggiosamente le labbra gli vennero in soccorso e si scostarono l’una dall’altra pronte ad emettere suoni. Ma la lingua restava inchiodata al palato, immobile.  Quella lingua di serpente che sapeva fare in quattro un capello, precisare puntigliosamente, accusare, correggere, analizzare, ora giaceva inerte, impantanata, pavida, come se qualcosa l’avesse sopraffatta.
Cercò di schiarirsi la mente, provò a contrarre i muscoli del viso nella speranza che il fiato facesse vibrare le corde vocali.  Cercò di gridare, ma le labbra si muovevano senza che ne uscisse alcun suono. Come quando si cerca di urlare in sogno e il silenzio sommerge la voce.
Il primo sole era tagliato in due dalla linea dell’orizzonte, mentre il suo viso, indurito dallo sforzo si faceva esangue, gli occhi parevano oscillare liquidi nelle orbite, alla ricerca di un appiglio cui ancorarsi.
Le parole battevano in testa e gli ingolfavano il cervello, sospinte da un vento impetuoso.
Ora, le frasi si erano agglutinate in ricordi, incursioni nel passato, pallide assunzioni di responsabilità, ma si fermavano sulla superficie della lingua, anzi dentro quel muscolo che le custodiva, forse per trattenere in sé l’evento, per riportare indietro il tempo di qualche ora, a prima del fatto.
Il cielo sembrava abbassarsi per schiacciarlo, per cementarlo al suo gesto e il fiato gli si faceva corto. Allungò il passo. Ora le parole gli scavavano buchi nel cranio per poter emergere in qualche modo, perché non ci stavano più dentro la lingua turgida. Provò ad ascoltarne l’eco profonda e le sentì sgocciolargli dentro fino a penetrargli nel sangue, come fossero pronte a raggiungere una meta. Protese le mani a coprire le orecchie per non udire, perché se le avesse ascoltate, le parole si sarebbero gonfiate dentro la sua bocca e ne sarebbero ruzzolate fuori, estranee, spaventose, esigendo il suo ascolto e il suo giudizio. Aveva bisogno di quelle parole, anche se lo facevano tremare in preda a un senso di raccapriccio.
Il marciapiede oscillò sotto i suoi passi e gli parve d’inciampare.
C’era come una presenza in quella strada, qualcuno che sapeva, un occhio immenso che aveva visto tutto e che, come un pugno di fuoco, gli frugava dentro per fargli sputare il rospo, per condannargli l’anima. E quell’occhio imperioso esigeva parole.
Ma la lingua restava muta. In alcuni momenti sembrava difenderlo dal macigno che gli gravava addosso trattenendolo dentro di sé, in altri sembrava percuoterlo come una scudisciata, squadernando ciò che aveva fatto, quel gesto orribile e pietoso che si allargava in una massa acquosa impronunciabile.
Le sopracciglia si contraevano ritmicamente in movimenti impercettibili d’angoscia. Ora, la sua bocca pareva trattenere a fatica un urlo, la lingua lentamente si staccava dal palato. Voleva parlare, parlare del fatto fino a scorticarsi la gola.

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Piccino

Se ne stavano seduti sotto un cedro assonnato, nella speranza che quell’ombra ampia attenuasse la calura, ma la loro pelle brillava di sudore misto a quella polverina bianca, sabbiosa e sottile che si solleva dalle strade sterrate anche se solo la si calpesta.
Hassan non mi piace questo posto che chiami città, fa troppo caldo, un caldo che si suda, non come da noi su in montagna.
Devi avere pazienza piccino – rispose il fratello – ancora poco, poi tutto andrà a posto.
Non gli piaceva quando lo chiamava piccino. Era vero Hassan era il maggiore, quasi un padre, ma lui Jaued aveva appena compiuto tredici anni ed era ingiusto continuare a chiamarlo piccino. A volte credeva che suo fratello diminuendolo lo tenesse lontano, gli attribuisse un posto basso nella gerarchia della famiglia, per restare lui sopra, a fare il capetto.  A giorni invece era portato a credere che fosse l’affetto a muovergli la lingua, un affetto muto e ruvido, ma vigoroso.
Erano gli sguardi di Hassan che parlavano per lui, sguardi che lo tenevano d’occhio, che lo accudivano a modo loro, attento a che non si mescolasse con brutta gente. Era lui che gli aveva insegnato a lanciare sassi per difendersi dalle bande dei ragazzini tagiki che non vedevano l’ora di insultare e di deridere. Lo affiancavano quando usciva da scuola, sempre in gruppo. Bel coraggio, sei contro uno. Ma a lui veniva richiesto di dimostrarlo il coraggio, e lui, anche grattando nelle tasche, ne trovava pochino. Era la paura che abbondava, che fluiva a fiotti, come il sangue che colava dal naso al primo impatto con il bastone brandito dai cuccioli della tribù ostile.
Perché era fatto così il suo paese: poveri, straccioni e tutti divisi a farsi la guerra. Che forse la maggior parte di loro s’era pure scordata la ragione dell’odio, era un litigare che aveva messo radici nelle ossa, uccidersi per puntiglio, più che per quel pezzo di deserto che non dava frutti. Perché quando comincia un conflitto, poi è dura fermarlo, va avanti di generazione in generazione, di offesa in offesa, si incancrenisce e avvelena la vita di chi perde e di chi vince.
Era Hassan che gli aveva insegnato ad incassare, a proteggere la pancia, che se colpivano quella si poteva morire, così come la testa.  Meglio che si ostinassero sul naso, che non era mai stato gran che diritto. Ma fuggire no, ne andava dell’onore della famiglia, della tribù, dell’Afghanistan tutto. Perché loro erano pashtun e bisognava andarne orgogliosi.
Jaued era un ragazzino sottile, i capelli neri incollati alla fronte, occhi vivaci puntati come spilli mentre osservava il mondo sempre a bocca aperta. Curioso ma fragile, da sembrare a momenti un pulcino sperduto. Era Hassan che aveva il potere di farlo sentire tranquillo.
Jaued scavava con le scarpe nella sabbia e, giusto per farlo arrabbiare, la ammonticchiava sui piedi del fratello che continuava a vederlo piccolo. E lui allora faceva il piccino dispettoso.
Hassan lo guardò storto, arricciando un poco il suo naso adunco che sembrava gocciolargli in bocca e, sotto il cielo lattiginoso, la sua faccia si fece seria lasciando affiorare la preoccupazione, o forse proprio la paura.
Hassan anche tu a volte hai paura? gli chiese a bruciapelo, parlando a precipizio, un po’ per mortificarlo, un po’ per sentirsi meno solo nel fiume della sua paura.
Hassan guardava la terra, e stringendosi nelle spalle rispose Sì, quando cala il coprifuoco e tu e gli altri fratelli continuate a giocare in cortile, ho paura perché tocca a me proteggervi, tenervi in vita finché tornerà nostro padre. Sono io l’uomo in sua assenza.
Mamma mia quante arie che si dava, pensò Jaued, solo perché aveva qualche anno di più faceva il gradasso. Ma lo sguardo del fratello non aveva nulla del pavone, aveva più del coniglio braccato, al massimo della lepre. Sì la lepre andava bene per lui che amava correre come un pazzo, che sgattaiolava il mattino presto fuori casa per allenarsi e migliorare i tempi, come diceva lui sognando le olimpiadi. Che poi tornava fradicio con le braghe lunghe sdrucite, perché da tempo neanche i maschi potevano indossare i pantaloni corti. Femmine a capo e viso coperto e chiuse in casa, e maschi barbuti con maniche e pantaloni lunghi.

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Uomini e donne! A proposito di geni

XY genotipo maschile che, nella maggior parte dei casi si esprime in un fenotipo maschile, cioè dotato di caratteri sessuali secondari da maschio: testicoli, prostata, pene e distribuzione pilifera specifica.
XX genotipo femminile che, nella maggior parte dei casi si esprime in un fenotipo femminile, cioè dotato di caratteri sessuali secondari da femmina: ovaie, utero, vagina, vulva, mammelle e distribuzione pilifera specifica.
La genetica è scienza diversa dall’antropologia, eppure entrambe si sono chieste se il secondo cromosoma sessuale maschile, cioè la Y, potesse essere il segno del comando, se in quella letterina, in quel simbolo si concentrassero tutta l’aggressività, la virilità, il potere, il dominio, la volontà di controllo, in una parola il patriarcato.
Biologismo versus culturalismo! Arriviamo sempre lì.
Bisogna anche dire che le genetiste femministe hanno sostenuto, nel secolo scorso, che quella Y fosse in realtà una X mancante, frutto di una delezione cromosomica che aveva amputato una gambetta dell’identità sessuale, mettendo al mondo una femmina dotata di protesi, eppure monca.
Ma a ben vedere, chi una Y la possiede, possiede pure una gambetta in più rispetto a noi XX. O, se proprio dobbiamo dirla tutta, alcuni una gambetta, altri una gambina,  altri ancora una gamba, o al più una signora gamba e, quelli che credono che la sessualità sia tutta lì, un gambone della madonna.
Dunque, la genetica non può dire con esattezza come stiano le cose. Se sia nata prima la X e poi la Y, come il simbolo scritto farebbe pensare, o se siano venute al mondo in contemporanea, perché l’una senza l’altra non si reggevano, non si bastavano proprio. E allora i protozoi si sono fatti pluricellulari, le cellule mesenchimali si sono differenziate e il corredo genetico si è stabilizzato in ben due generi: XX e XY.
Questo fino a quando i geni delle nuove teorie non hanno cominciato a ipotizzare che il genere non esista, che siamo tutti maschi e femmine in potenza. Come se l’utero fosse un fenomeno culturale! Che forse hanno paura del corpo che abitano, o peggio ancora preferiscono vivere nell’indeterminatezza, nel neutro.
Chissà che ne direbbe il professor Freud, che forse di bestialità ne ha già dette abbastanza, nelle sue geniali pensate?  Perché, proprio per dirla ancora tutta, l’invidia del pene è proprio una grande cazzata, per stare in tema. Che io, quel coso lì in mezzo alle gambe non glielo invidio proprio. Chissà che scomodità quell’appendice pendula, quella spugna rivestita da muscoli a volte ipotonica, a volte ipertonica e comunque sempre da tenere d’occhio perché altrimenti piscia sull’asse del bagno.
Lo dico sempre ai miei colleghi maschi: tenete a bada il cobra quando fate pipì, o se proprio non riuscite a centrare il water, almeno pulite.
Che loro si credono di avere chissà che cosa in quei cunicoli vascolari, tutta la genialità della scienza, il coraggio del soldato, l’astuzia del politico, la precisione e la decisione del chirurgo e potrei continuare per ore.
Sarà per questo che i poeti vengono considerati un po’ checche. Come se sentimenti, emozioni, tonalità dell’animo fossero solo femminili.
Mi viene il dubbio che ne abbiano paura, che siano costretti ad averne paura, vittime di un maschile imposto che mette la sordina a tutto ciò che non è testosterone purissimo.
Prova ne è il fatto che, chi di noi XX abbia mai provato a raschiare un po’ la crosta, è anche riuscita a trovare tesori di sensibilità sotto. Ma sotto sotto, perché loro li celano molto più profondi di noi, sempre per via di quella paura di non si sa cosa, che chiamano coraggio.
E se la vedano poi loro, che noi i nostri guai ce li siamo arati e vangati da sole, quelli che attenevano a ovaie e utero nostri, e anche quelli che avevano a che fare con  l’organo loro. Perché, che si ricordino bene, di caverne sostenute da muscoli si tratta, non di osso, anche se a tratti, nei momenti di gloria, qualche dubbio potrebbe sorgere.
Ma non si montino la testa perché l’aspetto dell’osso dura per quel tanto, e poi rieccolo quell’organulo floscio, quella pelle sovrabbondante, rugosa come la faccia d’un vecchio.
Certo, a ben vedere quelle X e quelle Y si incastrano proprio bene e l’anatomia dà accesso a fantastiche combinazioni. E’ che essere diversi non è poi male. Si può discutere, litigare, alzare la voce, avere ragione e torto, provare a guardare con lo sguardo dell’altro senza riuscirci, fare la pace, capirsi senza parlare, pensare alla stessa cosa nello stesso momento, grattarsi le croste, tenersi su a vicenda quando si inciampa, condividere il tempo e a volte anche lo spazio senza esagerare, sciogliere paure, sperimentare il coraggio, insegnare a guardarsi dentro imparando a tollerare il fuori.
Si può perdere la testa, impazzire d’amore, vivere nel desiderio dell’incontro di quell’Y del cazzo, appunto, che ti offusca il self control e ti scombina i piani. Si può averne nostalgia. Si può continuare ad amarsi per anni e anni, per decenni e ventenni, perché come dice bene la Gualtieri

Tu sei del mondo la più cara forma
Tu sei il mio essere a casa
Sei casa, letto dove
questo mio corpo inquieto riposa.
E senza di te io sono lontana
non so dire da cosa ma
lontana, scomoda un poco
perduta, come malata,

…allora tu sei la mia lezione più grande
l’insegnamento supremo.
Esiste solo l’uno, solo l’uno esiste
l’uno solamente, senza il due.

E che i neutri vadano al diavolo.

Una bella bionda

G. era una bella bionda, di quelle che fanno girare gli uomini per strada: alta, sottile, ma con tutto quel ci voleva al posto giusto. Non saranno state proprio novanta-sessanta-novanta le sue misure, ma credetemi, non le mancava proprio nulla. Magari, a ben guardare, proprio per voler essere critici a tutti i costi, forse abbondava un po’ sui fianchi, ma pochi centimetri, impercettibili, che solo lei riusciva a misurarsi addosso in quel suo continuo specchiarsi e rispecchiarsi, mettersi creme e pettinarsi.
Curava ogni particolare: mani con unghie perfettamente convesse, costantemente dipinte di rosso. E i piedi, da non credere, due piedini piccoli in relazione all’altezza, da far dubitare che glieli avessero fasciati nell’infanzia secondo l’antica tradizione della Cina Imperiale. Piedini morbidi, senza la minima callosità, un poco paffuti forse, ma anch’essi curati. Lei ne era orgogliosa e non perdeva occasione di mostrarli, indossando sandali con tacchi a spillo o decolté ardite che lasciassero intravvedere il più possibile di quelle appendici preziose, che incredibilmente la reggevano.
Così issata coraggiosamente su dodici centimetri di tacchi, se ne stava in piedi per otto ore di seguito nel grande magazzino in cui lavorava, correndo da un reparto all’altro, sorridendo alle clienti, chinandosi per sfilare scarpe, o sollevandosi sulle punte per afferrare calze dall’ultimo ripiano. Senza mai cadere, senza distorcersi neppure una caviglia. Un equilibrio strabiliante, così come la pazienza che metteva in campo con tutte le donne incontentabili che affollavano il negozio.
Alcune la mettevano veramente a dura prova: prima indossavano un capo e poi un altro, poi tornavano al primo, per essere di colpo attirate da un terzo di fattura completamente diversa dai primi due, per poi scivolare verso un quarto. E non mancavano quelle che la maltrattavano, con una sorta di maleducazione crudele a svelare l’invidia per non essere altrettanto belle, o altrettanto alte. Lei non ci badava, neanche faceva cenno di avere udito: meglio passare da stupida che portarsi a casa il rimprovero del capo reparto.
Che tanto lei, stupida non era proprio. Perché non è vero che le belle sono cretine, questa diceria la mettono in giro le brutte. Lei era intelligente, sapeva osservare, non le scappava nulla dell’animo umano, dal tono di voce presagiva un conflitto, intuiva tresche in semplici sguardi. Forse per questo le colleghe le confidavano le loro pene, perché lei sapeva ascoltare, capire senza l’ombra di un giudizio. Anzi lei assolveva sempre, scovando attenuanti, buone ragioni, anche per quella che non perdeva il vizio di andare a letto con tutti.
Di uomini ne aveva avuti ovviamente, tutti la trovavano attraente e divertente. Ma nulla che fosse durato. Non per colpa degli uomini, anzi alcuni l’avrebbero voluta sposare, era lei che non si persuadeva al passo, come se l’amore non fosse mai abbastanza. Di fronte alla richiesta lei batteva in ritirata, sognando un prossimo amore sicuramente più appassionato, che l’avrebbe finalmente coinvolta facendole perdere la testa.
Di amore in amore era arrivata a sfiorare i trentacinque, e ora che anche la madre se n’era andata, non aveva scuse, anzi si rendeva conto di doversi sbrigare per via di quella storia dell’orologio biologico che andava per la maggiore su tutte le riviste femminili. Perché lei un figlio lo voleva, anzi almeno due.
Fu sull’onda di quel desiderio, o forse di quel timore, che accettò il suo invito a cena. Era un bell’uomo, brizzolato, capelli un poco lunghi sulla nuca ma non troppo, elegante. Riforniva il grande magazzino di biancheria intima femminile e con le donne ci sapeva fare. Venne a prenderla con una macchina blu scuro, niente di eccessivo, non una Porche da arricchito, né una Ferrari da pappone, una Mercedes di classe, di quelle che ti danno la misura del savoir faire. Cena in un buon ristorante, chiacchiere fluide come fossero vecchi amici: un uomo che capisce le donne. Con il suo sguardo misterioso e caldo sapeva farla vibrare.
Il mattino dopo un mazzo di fiori sul posto di lavoro, da fare impazzire d’invidia le colleghe. Poi silenzio per tre giorni per tenerla sulle spine, e quando ormai era cotta a puntino, ancora un invito a cena. Niente da dire: quell’uomo ci sapeva proprio fare.

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Un sorriso incongruo

Fatica a dire di lui, ma da giorni le formicola dentro anche l’urgenza di farlo, da quell’incontro serale a fine turno. Ha tentato la strada dell’archiviazione, ma il suo volto pallido torna a sorriderle anche in sogno. E’un ronzio costante nei suoi pensieri, radicato oltre il pensiero, in quel sentire sottile che è la sostanza trasparente su cui poggia il vivere quotidiano. Qualcosa di meno pesante di una stoffa, ma non lieve come una nuvola, forse simile alla corrente che resta attiva nell’impianto elettrico anche a luci spente. In quel flusso galleggiano i suoi occhi chiari spalancati, di un candore sorridente. E’ un sorriso incongruo quello che gli si dipinge in viso mentre il fiato non sale, mentre il debito d’ossigeno costringe i suoi bronchi all’estremo fischio d’aiuto. Allora, quando la saturazione d’ossigeno precipita, tutti i pazienti sbarrano gli occhi, il terrore si dipinge sul loro volto, le mani si stringono a serrare le lenzuola e tutto, proprio tutto il corpo è un unico intollerabile sibilo acuto.
Lui invece sorride. L’aria gli stride nei bronchi, i polmoni non si espandono, la cassa toracica si distende in cerca di un grammo d’ossigeno che gli alveoli agognano e il suo volto, da sempre pallido, si fa bluastro, le occhiaie si demarcano, la cute del torace si marezza di chiazze scure e irregolari che dilagano negli arti.
Glielo avevano spinto in ambulatorio di corsa: codice rosso, non respira più nemmeno con le branchie, dichiarava l’infermiera di triage mentre velocemente dirigeva la barella nello slalom fra un paziente e l’altro, sorpassandoli tutti perché lui, il codice rosso, stava morendo in asfissia. Aveva già in carico il codice rosso di un anziano settico più morto che vivo, e l’idea di giocare su due tavoli, entrambi scivolosi, non l’attirava. Ma non è che si potesse scegliere, ci si doveva attrezzare ad affrontare ciò che capitava, che fossero uno, due o tre. Si fa quel che si deve e niente lagne, semplicemente si corre un poco di più e si spera che la sorte conceda una tregua, prima o poi.
Si erano riconosciuti subito e subito sorrisi. Che fortuna trovare te! Era riuscito a dire fra un sibilo e l’altro. Stai zitto Umberto, non dire nulla, devi concentrarti sul respiro che adesso ti faccio ritrovare, rispose lei mentre appoggiava il fonendoscopio su quel torace scarno e scavato, registrando rantoli in alto e silenzio totale dal campo polmonare medio in giù.
Quel torace annegava nel liquido che accartocciava i polmoni riducendoli a pugni contratti. Armeggiava su quel corpo in affanno bucando, ventilando, somministrando farmaci fino ad allungargli il respiro di quel tanto utile per tenerlo in vita. Riagguantare tutto quel fiato non era pensabile. Intanto lui non aveva smesso un attimo di sorriderle e di parlarle con gli occhi. E più il respiro gli veniva concesso più i suoi lineamenti si distendevano e lui cercava di dire, nonostante indossasse la mascherina dell’ossigeno. Ci parlava dentro. Era un’impellenza che lei non avrebbe fermato, perché lui era colmo di parole che lo chiamavano impellenti, come sapesse di non avere abbastanza tempo per tutto ciò che aveva da dire.
Gli tolse imprudentemente la mascherina e lo lasciò raccontare. Parlava a precipizio, mentre lei lo ascoltava e gli contava i respiri: la sua libreria, l’ulisse, con la u minuscola come lui amava precisare, chiusa da anni, la sua nuova passione per il vino vivo, l’eterno amore per i libri che non l’aveva lasciato mai.

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Il tempo raggiunto

Mariagrazia Fontana, Il tempo raggiunto, secondorizzonte/Liberedizioni (pp. 280, euro 16) 

Misurarsi con il proprio corpo, i segni che ne giungono, le paure e i desideri che indistintamente esprime, nell’esperienza della malattia come nella pratica della corsa.

Soccorrere quello ferito e sofferente – tanto più da interpretare nel suo muto linguaggio  se chi ricorre alle cure è straniero – nell’esercizio del proprio lavoro, un lavoro – l’autrice è chirurga, presso l’Ospedale Civile – che non si lascia mai ridurre al protocollo né alla semplice procedura tecnica dell’intervento; confrontarsi con il corpo  che attraversa le età della vita, nella relazione, densa di ricordi e significati sedimentati, con la madre che invecchia, così come in quella sempre in via di nuova definizione e anche per questo rigenerante con le figlie che, da bambine che erano, sono già donne.
Sono queste le coordinate principali entro cui si delinea il corso di un’esistenza che per dirsi non ricorre al romanzo autobiografico ma a una sequenza di racconti che rimandano  uno all’altro in una medesima trama, entro l’orizzonte aperto di un tempo che solo la scrittura sa raggiungere. Una scrittura che sa aspettare in solitudine le parole che, sfuggendo all’inflazione e al brusio assordante delle molte che si pronunciano, sanno conservare traccia dei giorni, e far uscire dallo spazio del silenzio la voce che può tenere in vita la vita, nella sua unità profonda.
Come la pratica della corsa è seguita alla malattia, nascendo dalla “pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci”, così la scrittura trova radice nel corpo: “Corsa e scrittura emergono dallo stesso magma profondo, alle volte oscuro, torbido, alle volte limpido e lieve. (…) Certi giorni la scrittura viene fluida, la penna corre da sola sulle righe e le parole corrispondono perfettamente a ciò che sento necessario dire. Altri giorni ricado nella scrittura analitica, indagatrice, anatomica. (…) Quando finisco in questo vortice sento la fatica, e ora ho imparato che devo lasciare, deporre la penna e infilare le scarpette. Nei giorni fortunati la corsa fa pulizia, opera una spoliazione, mi libera dalla verbosità. So che, quando spreco troppe parole, non ho chiaro ciò che va detto o obbedisco ad un vizio antico che mi allontana dalla verità.
Quando la corsa fa il suo lavoro, ricevo il grande dono dell’intuizione. Mentre sudo in salita, mi si spalanca davanti quella verità che mi aveva messa davanti al quaderno e dalla quale mi ero lasciata sviare. Limpida, pura, perfettamente ripulita dalle parole in eccesso, dalle parole viziate.”

Il testo che segue è tratto dal primo racconto, La traccia della corsa:

E’ necessaria la disposizione dell’animo al silenzio, al vuoto, all’ascolto di quello che la corsa porta.
Non so bene descrivere cosa c’è da ascoltare. Si comincia con il cinguettio degli uccelli, il frusciare delle foglie sui rami, l’improvviso sgambettare di uno scoiattolo. Poi si ascolta il rumore delle suole sull’asfalto, sul terreno del sentiero, ripetitivo, sempre uguale eppure diverso. Ritmo veloce, muscoli contratti nello sforzo, che gradualmente si sciolgono.
Ma per sciogliersi devono attraversare la fatica e il sudore, evolvere dallo stadio di contrattura serrata a quello di abbandono che regala movimento gratuito, fluido, passivo, liberato dal controllo cerebrale. (…) Motore principale silente, semplice ripetizione ossessiva, danza di dervisci, taranta, soppressione del controllo della coscienza.

(…)

La corsa induce all’ascolto del corpo, alla confidenza con i muscoli e dunque con il cuore, ma non con il cuore dei sentimenti, con il cuore pompa formidabile, magico motore silenzioso, scrigno segreto.

(…)

La chemioterapia aveva cancellato anche l’equilibrio fisico, mi accorgevo di sbandare per strada, di pencolare sotto la doccia come un giunco, vittima di una lieve vertigine che non mi ha più abbandonata del tutto. Attraverso lo yoga ho ripreso una parte del vecchio equilibrio (…)
Per qualche anno lo yoga ha funzionato (…)
Finché l’ambiente della palestra yoga ha cominciato a guastarsi. Le pretese atletiche crescevano e con loro cominciava a fare capolino la competizione e il gusto per la perfezione del corpo che mi disturbava.

(…)

Ho abbandonato la palestra yoga, ma a quel punto il corpo aveva le sue esigenze e reclamava spazio. Non potevo chiuderlo in cantina un’altra volta.
La corsa nasce qui, da questa pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci. Un richiamo forte, ineludibile. Il bisogno di riprovare ad immaginare una sopravvivenza, di rigiocarsi.

(…)

Corsa e scrittura emergono dallo stesso magma profondo, alle volte oscuro, torbido, alle volte limpido e lieve.
Quando mi siedo alla scrivania, per lo più non so cosa voglio scrivere, obbedisco a un bisogno interiore, al richiamo di parole che chiedono di essere messe in fila su un foglio, di essere tirate fuori dal silenzio, direbbe Maria Zambrano.
Certi giorni la scrittura viene fluida, la penna corre da sola sulle righe e le parole corrispondono perfettamente a ciò che sento necessario dire. Altri giorni ricado nella scrittura analitica, indagatrice, anatomica. Quella scrittura che spolpa la carne, che asserisce, spiega, fa ordine. Scrittura rigida, metallica, non diversa dalla scrittura scientifica e neppure da quella intimistica che vuole svelare il sé in successione logica.
Quando finisco in questo vortice sento la fatica, e ora ho imparato che devo lasciare, deporre la penna e infilare le scarpette. Nei giorni fortunati la corsa fa pulizia, opera una spoliazione, mi libera dalla verbosità. So che, quando spreco troppe parole, non ho chiaro ciò che va detto o obbedisco ad un vizio antico che mi allontana dalla verità.
Quando la corsa fa il suo lavoro, ricevo il grande dono dell’intuizione. Mentre sudo in salita, mi si spalanca davanti quella verità che mi aveva messa davanti al quaderno e dalla quale mi ero lasciata sviare. Limpida, pura, perfettamente ripulita dalle parole in eccesso, dalle parole viziate. Allora so che quando avrò finito di correre, dopo la doccia, la scrittura sarà essenziale, scarna, adesa al vero. Devo appuntare subito le parole che sono venute correndo, urgenti, ancora prima di lavarmi, per non lasciarle scomparire. Come faccio nelle mattine in cui mi sveglio ancora preda di un sogno: scrivo subito poche parole, per tenerle prigioniere, per accalappiare quel sogno prima che la veglia lo disintegri nell’ordine logico. I sogni sono soffi parlanti, ma leggeri come l’aria.
Le parole in cui più mi riconosco, quelle che mi calzano addosso come un vestito cucito su misura, sono quelle che sono comparse nella corsa, trasparenti, semplici, che sgomberano il campo, che vanno dritte alle viscere, alla sorgente della parola.


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Trailer di vecchiezza

Gracile, incurvata, ripiegata su di sé. La guardo e di lei mi colpiscono soprattutto le mani, dove il tempo ha seminato chiazze di vecchiezza, dove la cute si scolla e si ripiega sovrabbondante, come stoffa in eccesso. Abbiamo sempre avuto mia madre e io, delle mani asciutte, dita affusolate, lunghe, non interrotte da nodosità. Anno dopo anno le sue mani sono andate assumendo l’aspetto di rami rinsecchiti, artigli spesso preda di tremori incontrollabili. La vista di quelle mani mi scatena fiumi di pena, mista a risentimento per lei che si permette di invecchiare, non mantenendo le promesse: una madre è per sempre.
Entrambe osserviamo quei tremori di sfuggita, come ladre, l’una colpevole di vecchiezza, l’altra di scarsa compassione. In realtà il suo tremore non é venuto con l’età, c’é sempre stato in quelle mani, quando l’emozione eccede il recipiente del cuore. Lei la chiama emotività, quella stessa da cui sono fuggita infilandomi in una professione dove per l’emotività non c’è spazio, concedendo all’emozione altre rappresentazioni.
La guardo, le mani in grembo, l’una sull’altra serrate a pugno per nascondere il tremore, tradita dal labbro superiore che si increspa appena appena. Guardo quella donna innegabilmente vecchia che é mia madre, che regge ormai a fatica il bagaglio dei giorni, abdicando spesso anche alla dignità minima del tenere per sé ciò che andrebbe celato.
Ha sempre avuto un’innata abilità nello svuotare il suo zaino addosso a me bambina, a me ragazza, a me a mia volta madre e ora donna più che adulta. Da sempre mi presto a essere il setaccio delle sue ansie, della sua angoscia, del suo terrore di invecchiare e di morire, fino ad abitare le sue paure, a svegliarmici dentro il mattino.
Mi lascio trapassare dalle sue parole lamentose, ne filtro la paura e gliene restituisco di chiare, trasparenti, piene di speranza. Ho ingoiato i bocconi amari delle sue rughe, delle sue rare patologie, della sua solitudine. Trascinata fuori da me, mi sono allenata alla vecchiaia e alla decadenza di corpo e mente, in un trailer ripetuto all’infinito. Per interposta persona, ho già sperimentato il collare di rughe sul collo, le chiazze di pigmentazione cutanea, i dolori articolari al punto di stupirmi quando lei mi butta lì l’impietosa previsione mista a minaccia e a vendetta di quel “Vedrai come è difficile invecchiare!”, senza vedere che sono già vecchia per osmosi, per il principio dei vasi comunicanti, parte degli anni e degli acciacchi materni mi appartengono, li sento nel corpo.

Eppure questa è la madre che mi sommergeva di fotografie fin dalla nascita, documentando ogni mio impercettibile cambiamento nel mirino della macchina fotografica, intercettando le mie prime, smorfie. E’ questa la madre che non sapevo lasciare sulla porta della scuola materna, che attendevo per ore sola, senza giocare, senza mescolarmi con gli altri bambini, seduta sulla panchina rossa nel cortile della scuola. E’ questa la madre che mi mancava fino a togliermi il respiro in colonia in montagna, quando tutte, proprio tutte le sere piangevo e mi struggevo nella nostalgia… E’ questa la madre che se ne stava seduta facendo la maglia mentre ripetevo gesticolando per casa il nome di ossa e muscoli prima dell’esame di anatomia, che mi ascoltava o fingeva di farlo, presente, silenziosa, pronta a caricare la caffettiera al primo intoppo.
A volte mi drappeggio intorno agli occhi una raggiera di rughe, così per prenderci ancora più confidenza, per portarmi avanti. Quelli sono i giorni in cui riesco a provare pietà per me stessa, a intravvedere la fatica inutile, dietro i pensieri che si snodano nel cervello di una brava figlia.
La guardo mentre preda di un’ansia nuova, rifiuta di governare la paura e si abbandona al flusso di emozioni infantili che snocciola come i grani di un rosario, sicura che parlandomene se ne libererà. E’ così che funziona fra di noi fin dalla mia infanzia: lei apre il pozzo delle sue angosce, le sue parole si gonfiano come vele e fluiscono nel fiume dei miei giorni, da tempo immemore. E io, che ho anticipato il tempo, che ho superato in corsa la mia vecchiaia con la sua, non posso che diventare sempre più abile a portare pesi, inarcando un po’ la schiena, sempre più curva sotto una gerla altrui eppure mia.

La ricordo seduta sul bordo del mio letto quando un amore adolescente svaniva, pronta all’ascolto, sempre attenta, mentre mi pronostica una vita meravigliosa e si butta a cucinare un budino che divoriamo. Le sue parole sapevano attenuare dolori, aprire varchi in terreni aridi, pur nell’incapacità di gesti, nella negazione di abbracci o di baci. La fisicità le è sempre stata preclusa, il suo campo da gioco erano le parole.
La sento cantare canzoni d’amore in macchina o mentre camminiamo in montagna o accennare qualche aria della Carmen o della Traviata nei rari momenti in cui il dover essere si assopiva.

Ma anche allora, quando la vicinanza pareva intimità, sapeva brandire con arte l’arma invisibile del ricatto. Con fine intuito sapeva portarmi lì dove lei credeva dovessi stare, al punto da annebbiarmi completamente la vista, da trafugare il mio sentiero di soppiatto, aprendo il sipario su una strada asfaltata a doppia corsia di suo gradimento.
A volte la sento affannarsi a frugarmi nell’anima con il chiaro intento di rubare, non so bene cosa, forse quello che lei crede essere la mia riserva di vita cui potrebbe attingere senza riserve, se questo fosse decoroso. Detesto la sua rapacità celata in quell’aspetto inoffensivo che trattiene gli artigli, nella finta debolezza di una donna che non si è mai piegata e neppure flessa per un istante, ben concentrata su una bussola costantemente orientata verso di sé.

Le telefono da Maidstone, al primo anno di università, spaventata dalla mia disavventura britannica, nella speranza che mi richiami, che mi riaccolga a casa. E invece lei fa leva sul mio desiderio e mi spinge nelle fauci di Londra, dove sogno di andare da anni. Infonde fiducia nelle mie vene, mi garantisce che ce la posso fare, che devo solo allungare una mano e aprire le dita. E’ lei, più di mio padre, a farmi udire il richiamo del mondo, a sostenere la mia fuga, a dare voce alla mia inquietudine. Londra la devo a lei. A lei devo dunque anche l’uscita da casa, pur nel suo confuso tirare e mollare l’elastico della mia adolescenza.

Derubata, quando la guardo, istintivamente tendo a rannicchiarmi ancora di più in me stessa, immergendomi sempre più a fondo per non essere catturata dalle sue dita lunghe.
E’ in quei momenti che percepisco la sua volontà di trascinarmi con sé fino alla morte, oltre la morte, non per amore ma per non essere sola, per attenuare il suo terrore, per conservarmi come devoto balsamo filiale. Saprò sottrarmi quando sarà il momento o mi lascerò scivolare, ancora incapace di frapporre qualche centimetro fra di noi?

Con stravagante ingenuità provo a mettermi contro il suo tempo, contro il tempo, con i talloni puntati. Provo a lasciare emergere il buono che so esserci stato. La rivedo che mi fa compagnia ad ogni ciclo di chemioterapia, quando i farmaci inondavano di gelo le mie vene e cominciavo a battere i denti. Eccola che si alza, si procura un’altra coperta e mi asciuga il sudore freddo dalla fronte, senza una lacrima, lei che piange per nulla. Durante la mia malattia non ha mai ceduto in mia presenza, si è presa cura di me senza battere ciglio, come fosse stata certa delle mie chances, come se la mia sopravvivenza non fosse mai stata in dubbio. Lei, terrorizzata dalla sua morte, sedeva accanto alla mia con dignità, con fiducia, come un soldato al fronte, certo della vittoria.

Mi impegno a scrollarmi di dosso il risentimento e le antiche pendenze. E’ vecchia e a una vecchia non si fa la guerra. Semplicemente la si digerisce così, la si accudisce, la si sopporta clementi.
Ma la clemenza mi fa difetto e inciampo, riluttante, nelle mie stesse acrobazie scomposte. Sento il frastuono dei suoi ferri da calza che incrociano la falce della Grande Signora. So che si sta allenando al grande passo, ma il rovescio delle sue paure ha un sapore troppo amaro. Come un’attrice prima del debutto si sforza di contenere l’angoscia, nella vana ricerca di un appiglio, di un senso, di una seppur minima speranza. Interroga tutto e tutti: Dio, la scienza, il delirio ed ovviamente me che imbastisco balbettii compassionevoli che sopravvivono giusto una sera.
Nel suo inespugnabile tormento, vive nel terrore di quella prova suprema, di quel torrente che la porterà via e che percepisce vicino almeno da trent’anni, senza neppure il buon gusto di vedere che gli unici piedi che lì si sono immersi sono stati i miei.

Forse questo non lo può guardare, forse per una madre la morte di una figlia risulta così intollerabile da non poterla neppure sfiorare con il pensiero. E il suo amore materno non lo posso mettere in dubbio. Ma l’amore materno ha mietuto non poche vittime.

O forse è ancora lei al centro del suo mondo e del mondo intero. Forse invecchiando il mondo si restringe fino al cerchio che le proprie braccia possono disegnare intorno al corpo e quello diventa l’unico mondo visibile, la patria.
Il rancore si tende dentro di me come la corda di un arco, pronto a scoccare una freccia che non partirà, che non saprà ferirla, che non potrà difendermi. Le sue narici fremono nella sua quotidiana questua e lei annaspa in attesa che io spalanchi il mio cuore pavido e alleggerisca la sua ansia di oggi. Ma un muro sottile e trasparente si erige fra di noi, la mia volontà recalcitrante temporeggia, sta a guardare e la mano resta in tasca.
Il suo collo si inclina, sinuoso come un rettile, in quella postura sofferente che chiede la pietà che oggi stento a concederle, finché mi accascio esausta e offro i padiglioni auricolari che non riesco a scollegare dall’anima, alle sue lagnanze di oggi. Mi sforzo di ascoltare senza sentire, di anestetizzarmi saggiamente, come non ho mai saputo fare. Intercedo per me stessa e cerco di essere un vaso bucato sul fondo, da cui transitano le sue parole senza lasciare impronte, senza ferire, senza incidere ricordi. Fingo che non si tratti di mia madre ma del racconto di una paziente senza nome, cui non devo nulla se non un’empatica accoglienza. Provo a mettere distanza fra di noi a escogitare la giusta postura.

Sono in piedi sul tavolo della cucina mentre lei appunta gli spilli all’abito rosso che indosserò per la mia prima festa. Come tante altre volte, lei maestra, si cimenta con ago e filo e ne tira fuori capi graziosi che io indosso dall’infanzia all’adolescenza e anche oltre. La vedo china con gli spilli incautamente fra le labbra, che osserva prima l’orlo e poi l’insieme del vestito, visibilmente soddisfatta di sé. Così come quando finisce un maglione da sci stile jacquard, con le renne e i pini colorati che mi terrà caldo sulle piste.

La guardo con sconforto mentre, dimentica di me, incurante delle ferite che si producono sul mio corpo, versa i suoi fluidi, incontinente. Sento la sua fame di vita, della mia vita. La vedo mentre scavalca la montagna della sua paura attraverso il mio ascolto, grazie al mio orecchio, al mio timpano a brandelli. La osservo mentre si accarezza l’anima ormai rassicurata, riorientata nel suo tramonto.

Ora mi corregge i compiti e con la testardaggine della maestra mi convince a riscrivere tutto da capo, in bella calligrafia, ad essere brava, sempre più brava. Lei che la scuola ha dovuto implorarla con le lacrime, vuole che io studi, che ottenga ottimi risultati, che realizzi sogni…. io che posso.
Asciutta, scattante, angolosa, con quel che di arrogante sul fondo, quello sprezzo simil nobiliare che segna come un marchio le donne della sua stirpe confligge con l’immagine di madre accogliente, magari un po’ grassottella, rassicurante, avvolgente, silenziosa, serena che un tempo, nella furia di guadagnarmi un posto nel mondo, avrei liquidato come remissiva e scialba.

Ogni giorno mi presidio e mi propongo di non concedere nulla al suo crepuscolare lagnarsi e ogni giorno le consento di infilarsi nel mio spazio intimo, suo luogo d’elezione, melliflua, spargendo germi che non so arginare. Allora divento ostile, carica di una rabbia impotente che si spegne in tristezza.
Ed ecco che lei, eludendo il mio sguardo, fa la sua mezza giravolta e, come se avesse parlato di cucina, con il suo sguardo sicuro, intavola una chiacchera sull’opportunistico nulla quotidiano.
Sopporto il mio castigo consolandomi al pensiero che di lei conosco anche il non detto mentre lei di me sa poco e nulla. Ma non basta per continuare a fare da materasso delle botte.
Cerco di guardarmi come potrebbe vedermi un altro, di pensare ciò che un estraneo penserebbe di una donna attempata ancora ostaggio di sua madre. Ma ho troppa intimità con me stessa per potermi guardare a distanza. Un accenno di sorriso sghembo si fa strada al pensiero che lo faccio per lei, nel disonesto tentativo di spacciare per amore filiale l’incapacità di difendermi, di mantenere una distanza di sicurezza.
Ma nelle sue mani legnose affondano le mie radici, in quella terra scura in cui ha germogliato l’algida donna che è stata sua madre e l’austera vecchia che è stata sua nonna. Una genealogia femminile così poco femminile, orfana di dolcezza, incapace di carezze, maestra di regole, di sobrietà e di decoro. Quanto di quelle donne arcigne scorre nelle mie vene? Quali angoli mi è stato consentito smussare e quante le timidezze e le ritrosie che ho potuto solo sopportare?
I miei rami si allungano verso l’azzurro dove le mie figlie germogliano, stupende nella loro sfaccettata trasparenza. Quanto so di loro? Quanto sanno di me? Quanti baci ho saputo concedere e quanti negare?
Quanto ingombrano nei loro giorni le mie radici, quelle di mia madre, di mia nonna e di sua nonna? So per certo che di queste radici hanno consapevolezza e questo per ora mi basta.

Cerco di mettere la sordina ai ricordi ma lei compare sugli sci con il suo pullover azzurro cielo, o mentre cammina sui pendii di montagna o distesa al sole come una lucertola, o impegnata nel vano tentativo di imparare a nuotare. Eccola che sfodera la tovaglietta a quadretti bianca e rossa sul tavolino da picnic issato sulla neve. Ecco noi bianchi e rossi dalla fatica che ci godiamo le tagliatelle al ragù al sole d’inverno. E poi ancora neve, ancora sci e freddo secco sul viso e sole e tutto il bello e il buono dell’esser bambini.

Cerco le mie tracce mentre mi appoggio con i gomiti alla mia immagine sbiadita, tiepida e priva di coraggio, smentendo la mia propensione al taglio. Nel mio corpo si fa strada un’eco che non so decifrare ma che si sente sul fondo mentre increspa le onde, lì dove i sospiri si fanno supplica. Vado a caccia di vento e osservo il mio inutile insabbiarmi nell’autobiografia, in un’epoca del mio vivere che dista millenni dall’infanzia e che non mi dà titolo di appellarmi ad un’allora paleolitico.
Provo ad archiviare ciò che è stato, a interrompere quell’insensato ricordare, interrogare, attribuire responsabilità e meriti che non mi porterà da nessuna parte. Non ci sono matasse da sbrogliare, bisogna lasciare tutto lì dov’è, prendere quel denso magma che chiamiamo passato e metterselo in tasca, tenerlo lì senza continuare a stuzzicarlo a tormentarlo. Tenerlo lì con le sue grinze, con le sue spine e i suoi arcobaleni, a contatto con il corpo da cui non può separarsi.
Con mansuetudine, il mio cuore invertebrato e polveroso arrotola le mie scintille di irritazione, il mio impotente nervosismo che si distende come ragnatela sulle sue parole e sulla mia fiacca rinuncia a tenermi presente a me stessa. Liquido sommariamente le mie perplessità in un ennesimo avvitamento, amputando le mie possibilità di oggi e forse anche quelle di domani, nell’estremo tentativo di uscirne viva.
Cerco in me il perdono, per lei e per me. Cerco un po’ di tregua, provo a raschiare via gli strati di rancore dall’anima, a lasciare andare, prestando ascolto ad altro, nella ricerca di quel grembo che ho abitato, di quel confine incerto fra il nascere e il morire, in quel tempo irrecuperabile alla memoria in cui il suo desiderio mi ha messa al mondo.
Ma i nodi non si sciolgono nel mondo visibile e, nel mio confuso annaspare, cerco un ormeggio in quel miscuglio di bene e di male, di tentativi e di rinunce, arrendevole come l’acqua. Ascolto il risuonare del silenzio, guardo il disordine del mio presente, il mio quotidiano scacco totale. Lascio emergere la mia opacità impermeabile che per ora posso solo osservare.
Cerco in qualche mio doppio fondo un po’ di compassione per lei, per me, mentre sento la sua vita gocciolare via, e con la sua la mia.

Preferirei di no

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Una pellicola che si riavvolgeva, un film visto a ritroso: la strada per l’ospedale, osservata dal finestrino posteriore di un’ambulanza; seduta alla testa del paziente, lo sguardo incautamente rivolto all’indietro: sembrava un percorso rivisto dal traguardo, una storia letta dall’epilogo, una vita dall’odore di violetta e naftalina.
In emergenza, anche quando il mezzo sfrecciava contromano, su e giù per marciapiedi a velocità proibitive, lo stomaco non faceva una piega, ed era pur sempre lo stesso stomaco che al minimo ondeggiare abitualmente si rivoltava su se stesso. Sarà che nell’urgenza non c’è tempo per pensare ai propri organi traditori e il cervello è arrampicato su altri dirupi. Certo è che, assisa su un seggiolino instabile, abbarbicata ad un monitor, poteva permettersi di guardare indietro, veder sfrecciare sull’asfalto la linea bianca interrotta, come più volte la traccia dei suoi anni e poi ripresa con un balzo e ancora tenuta fra indice e pollice come filo sottile.
La pressione arteriosa reggeva, poteva stare tranquilla e continuare a sbirciare la sua vita srotolata dall’ultima pagina che si palesava dal finestrino.
L’emicrania bussava alle tempie, un ritmo pulsante, un dolore che sopportava da decenni, ma che negli ultimi anni scardinava quasi tutti i giorni, insensibile ormai ai farmaci per bocca, la obbligava sempre più spesso a ricorrere alle vene, senza trascurare il cortisone.
Non era sano, ancora una volta la sua vita aveva preso una piega nociva e sulfurea. Serviva un colpo di reni, un atto di coraggio per mollare la presa.
La saturazione dell’ossigeno superava il novantacinque per cento e la sua adrenalina sonnecchiava nell’angolo, pronta a ringhiare alla minima deflessione del valore percentuale. Lo sguardo scattava dal monitor al viso del paziente. Ora sfiorava i caschetti appesi al portellone da utilizzare in caso di pericolo, lo zaino intubazione, la borsa farmaci. Tutto era al suo posto, a tiro di braccia. Tutto quello che riempiva l’angusto spazio di un vano ambulanza, raggrumava la sua esistenza degli ultimi anni, tutta la sua storia recente, condensata in oggetti di soccorso, barelle, bombole d’ossigeno. Questo era ciò che doveva risolversi a lasciare, dopo l’addio urticante al bisturi, l’età lo imponeva ormai e la cefalea era lì pronta a scrivere il grafico di un corpo stanco, prostrato, che aveva fatto il suo tempo e che chiedeva respiro.
Era tempo di sciogliere le vele.
Bisognava assecondarla almeno questa volta, la vecchia carcassa, smettere di farla gemere, coricarla al bordo della carreggiata e lasciarla rallentare. Anche le resistenze della volontà si stavano sfilacciando, fiaccate da un dolore opprimente, onnipresente, che smembrava i giorni e ne faceva spazzatura. Tirava il vento della sottomissione e della resa.
Desiderava girare pagina, non solo rallentare la danza, ma ballare proprio un’altra danza. Non capiva ancora quale, certo non più questa. La fatica non stava tanto nell’emergenza, che pure non era una passeggiata, ma nella burocrazia che si mangiava la clinica, nel monitor di un computer che si frapponeva fra medico e paziente e nel tempo per l’ascolto che era divorato dai dati. Era bastata l’adozione di un nuovo programma informatico in pronto soccorso per appesantire vertiginosamente il lavoro e per scatenarle bordate di cefalea incontrollabili.
Aveva sempre visitato scrivendo poco, ascoltando e parlando tanto, mettendo le mani addosso ai pazienti per sentire cose che ora erano delegate solo a sonde ecografiche, gettando alle ortiche il sapere delle mani. Moncherini ai polsi e abuso di indagini diagnostiche.
E più si accertava, più si doveva accertare e documentare di averlo fatto, annotando il perché e il per come e, ovviamente l’ora e il minuto in cui si era deciso di farlo, l’ora e il minuto in cui si era materialmente fatto, l’ora e il minuto in cui si era ottenuto un referto. In questo delirio le parole dei pazienti si riducevano a monologhi consegnati a medici-automi ossessionati dal prendere nota pigiando compulsivamente sulla tastiera. Con gli occhi incollati al monitor, si agognavano pazienti disartrici o addirittura afasici per avere il tempo di sedare la voracità del computer.

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Il risveglio della parola. Leggendo Maria Zambrano

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In questi mesi qualcosa o qualcuno si è messo di traverso fra me e la scrittura. E in sé non sarebbe un problema vitale, nel senso che il cuore continua a pompare sangue e i polmoni inspirano ed espirano, sia che scriva, sia che non riesca a scrivere. Il problema è l’inquietudine di fondo, una sorta di tremore, di prurito della mano destra che vorrebbe impugnare una penna mentre la sinistra tiene fisso il foglio.

Si può vivere senza scrittura, almeno per un po’. E’ che lo stesso ostacolo che si frappone fra me e la scrittura si mette di mezzo per ogni altra attività creativa che resta preclusa. Bisognerebbe avere pazienza con se stessi perché, come dicono a Napoli, “ha da passà ’a nuttata”, ma negli anni la pazienza viene meno.

Ho cercato chiarezza nelle pagine di Maria Zambrano che, come sempre, riesce a trovare le parole che a me mancano. O che a volte, come in questo caso, proprio la sua lettura mi porta a scrivere.

***

Il risveglio della parola.

Indecisa, appena articolata, si sveglia la parola. Non sembra che riesca a orientarsi mai nello spazio umano, che va prendendo possesso dell’essere che si sveglia lentamente o istantaneamente. Poiché se il risveglio si compie in un istante lo spazio lo assale come se lo avesse aspettato lì per definirlo, per fargli sapere che è un essere umano e basta. Mentre il fluire temporale, in ritardo sempre, rimane aderente all’essere che si desta avvolto nel suo tempo, in un tempo suo che custodisce ancora senza cederlo, il tempo nel quale è stato deposto fiduciosamente. E la parola si desta a sua volta dentro questa fiducia radicale, che si annida nel cuore dell’uomo e senza la quale egli non parlerebbe mai. E si direbbe persino che la fiducia radicale e la radice della parola si confondano tra loro o si diano in un’unione che permette alla condizione umana di emergere.
E’ di indole docile la parola, lo mostra nel suo destarsi quando comincia a sgorgare indecisa come un sussurro in parole slegate, in balbettii, appena udibili, come un uccello ignaro che non sa dove andare ma si dispone ad alzare il suo debole volo.
Viene ad essere sostituita, questa parola nascente, indecisa, dalla parola che l’intelligenza già sveglia proferisce come un ordine, come se statuisse anch’essa una presa di possesso dinanzi allo spazio che implacabilmente di presenta e davanti al giorno che suggerisce un’azione immediata da compiere, che tutte le comprende. Parole cariche di intenzione. E la parola originaria, ritiratasi in sé, torna al suo silenzioso e nascente vagare, lasciando l’impronta impercettibile della sua diafanità. Non si perde però. Come un balbettio, come un sussurro della fiducia inestinguibile, attraverserà la serie delle parole dettate dall’intenzione, liberandole per qualche attimo dalle loro catene. E in questa breve aurora si avverte il germinare lento della parola nel silenzio. Nel debole bagliore della resurrezione la parola finalmente si stacca lasciando intatto il suo germe, annunciato dal pallido albeggiare della libertà un attimo prima che la realtà irrompesse. E così la realtà rimane sorretta dalla libertà e con la parola avviata a dirsi, a prendere corpo. La parola e la libertà precedono la realtà estranea, che irrompe dinanzi all’essere non ancora compiutamente destatosi nell’umano.

Maria Zambrano, Chiari del bosco

***

Sussurro sottile, sottile, quasi trasparente, limpido come cristallo, soffio di sogno notturno di incerta materia, sospetto. A palpebre serrate pareva luminoso, del colore dell’aurora, splendente. Al sollevarsi delle ciglia si fa indecifrabile, quasi ombra, apparenza, indefinita esistenza.

Si cerca di acchiapparlo, legarselo al polso della memoria, circostanziarlo. Ma proprio l’intenzione di trattenere lo dissolve, come acqua che non può farsi fiume.

Quel balbettio luminoso è perso, ha voltato le spalle deciso. E ci si perde a chiedersi che cosa lo abbia così urtato, addirittura offeso, quale sia la nostra responsabilità in quell’assenza. Perché dentro si sa che di responsabilità si tratta. Non dico di colpa, ma responsabilità.

Disporre l’animo a destra invece che a manca fa una bella differenza, così come lasciare correre imperterrite ombre nei giorni, ostinarsi ad ignorare impronte, segnali sospetti .

Non è di indole docile la parola, ha enormi pretese la parola nascente, sa essere permalosa oltremodo e sdegnosamente abbandona il campo e si ritira in sé, quando l’animo non è sgombro.

Che poi non si perda è tutto da dimostrare. Cacciata a calci una volta, poi due, poi cento, ha tutto il diritto di estinguere la sua innata fiducia nel mondo in un’udibile pernacchia, di alzarsi in volo senza voltarsi indietro.

Resta il fare, fitto susseguirsi di gesti che riempiono spazio e tempo, instupidiscono coscienze, sotterrano fiducia, declamano necessità inderogabili, con parole stantie anche se ben definite ed avverse al silenzio.

Ma è di quel silenzio che non si riesce a non avere nostalgia.

La porta del bagno

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Scrivere è sicuramente esporsi, ma anche la lettura non è un’operazione passiva e gratuita, ha le sue implicazioni. Aprendo un libro ci si dichiara disponibili all’intimità non solo con la parola scritta, ma anche con chi l’ha scritta. Si corre il rischio di un’eccessiva prossimità, di venire a sapere troppo di lui.
Nel contempo si entra in una sfera di complicità che può far perdere l’orientamento, fin a farti dubitare della paternità delle parole distese sulla pagina: le si sta leggendo o le si è scritte in un’altra vita?
Non che possa venire il dubbio di aver scritto in prima persona quella storia nel suo insieme, ma quella frase o forse solo quelle due parole in quella successione perfetta, proprio quella, sarebbero potute uscire dalla penna del lettore stesso. O forse questo è quello che nell’intimo si sta desiderando: avere messo al mondo quell’equilibrio.
A volte, certi passaggi, non per forza nei nodi cruciali della storia, anche solo alla periferia del racconto o in parole che per altri potrebbero risultare marginali, istituiscono per quel lettore una magica aderenza a quello scrittore. Inspiegabile ma perfetta. E il lettore e lo scrittore, da quel momento in poi, non sono più gli stessi, singolarmente e insieme. Soprattutto insieme. Non si sta più insieme allo stesso modo dopo certi libri. Magari alla superficie la metamorfosi non è evidente e il ritmo delle onde appare immutato. Ma i due, il lettore e lo scrittore, lo sanno. Non si guardano più allo stesso modo, non si percepiscono più come prima, pur nell’incompleto conoscersi. Qualcosa è cambiato ed è qualcosa che conta anche se non si vede. Come è noto, non tutto ciò che conta risulta visibile, anzi.
A volte si è traditi dalla semplice inflessione della voce, altre da uno sguardo più sfuggente, come intimoriti dall’aver così tanto condiviso. Forse è il pudore che induce a ritrarsi. Un anglosassone passo indietro per non urtare sensibilità, per non sembrare invadenti, come a garantire di aver solo buttato uno sguardo nell’animo dell’altro, non di più.
Come se per errore si fosse entrati in bagno mentre l’autore faceva pipì, ci si ritrae fingendo di non aver visto nulla. Ma, paradossalmente, non è il segreto dello scrittore che crea l’impasse, è quello del lettore che lo scrittore ha messo a nudo. Non è chi legge che varca la soglia del bagno altrui, è lo scrittore che, incautamente, entra nel bagno di chi legge. E l’imbarazzo sta proprio nel sentirsi scoperti, nel veder squadernata la propria intimità, quando si credeva che di sé fosse visibile giusto il naso.
Forse è che i segreti si assomigliano, così come la vita di tutti. E’ che le angosce non sono poi così originali e ci si può autenticamente chiedere se siamo noi che osserviamo o se in realtà, in alcune pagine, siamo stati osservati. Qualcuno impunemente ha frugato nell’animo nostro.
Certo è che leggendo certi libri, dopo ma anche durante, si comincia a vederci meglio. E non si vedono bene tanto i segreti, ma tutto l’insieme, pur in quella confusione del guardare e dell’essere guardati che forse è ciò che ti consente di vedere. Anzi è proprio quando si cammina incerti, incespicando, quando non si rifugge l’ambiguo confondersi e si accarezzano gli indefinibili confini della nebbia, che si generano meraviglie.
Si legge e si scrive senza soluzione di continuità. Non si riesce a scrivere se non si impara a leggere. Non si può leggere se non si accetta il rischio che la scrittura propone, se non ci si apre alla parola.
Si scrive e si legge non sempre in successione. A volte si scrive mentre si leggono le parole significative di altri, come raccogliendo una gugliata di filo per terra e srotolando una matassa di lana. A volte si leggono nelle parole di altri i propri pensieri, altre volte si scrivono le emozioni di altri, percepite sulla pelle quasi per caso, assorbite in conversazioni o in semplici sguardi.
E in questo gioco di nascondimenti e di svelamenti, si aprono la porta del bagno di chi legge e di chi scrive e si continua a leggere e a scrivere per restare in vita.

La traccia della corsa

Non la linearità di una via, neppure il segno evidente di un sentiero ma la labilità di una traccia, appena accennata, sconnessa, difficile da tenere.

Suggerimenti poco ortodossi e scarsamente atletici per la pratica del correre.

 

Che cosa è necessario?

E resta il nulla e il vuoto che il chiaro del bosco dà in risposta a quello che si cerca. Mentre se non si cerca nulla l’offerta sarà imprevedibile, illimitata. Giacché sembra che il nulla e il vuoto – o il nulla o il vuoto – debbano essere presenti o latenti di continuo nella vita umana. E che per non essere divorato dal nulla o dal vuoto uno debba farli in se stesso, debba almeno trattenersi, rimanere in sospeso, nel negativo dell’estasi. Sospendere la domanda che crediamo costitutiva dell’umano.
(Maria Zambrano,
Chiari del bosco)

Strumentazione pressoché nulla. Un buon paio di scarpette con suola per terreno misto, ammortizzate, anti urto. Le scarpe sono l’unico attrezzo fondamentale, le ali ai piedi, e si trovano ovunque senza svenarsi con cifre astronomiche. Ci sono poi negozi specializzati che analizzano il tipo di appoggio plantare durante la corsa e che sanno suggerire calzature adeguate. E’ sempre consigliabile optare per scarpe a pianta larga, evitando contenzioni eccessive. Le scarpe vanno cambiate spesso, perché se si corre costantemente la suola si consuma rapidamente e correre con le suole lise danneggia la colonna vertebrale. Per altro, sono i tendini di Achille che ci informano della necessità di cambiare le scarpe, quando cominciano a irrigidirsi e a dolere.
Per noi donne, oltre alle scarpe, è indispensabile un reggiseno da atletica, di quelli rinforzati e incrociati dietro, che incollano le ghiandole mammarie alla parete toracica, evitando dolori, sanguinamenti dal capezzolo, smagliature e altri fastidi.
Fra gli optional metterei: calzini con punta e tallone rinforzati per prevenire le vesciche, pantaloni aderenti o pantaloncini. All’inizio ho faticato non poco ad infilarmi quei pantaloni stile seconda pelle che evidenziano ogni difetto, ogni grammo di cellulite. Poi ho stretto alleanza con la mia immagine, mi sono affezionata alle imperfezioni che lo specchio rivela impietoso, e mi ci sono adagiata dentro.
Gli optional, come dice la parola, non sono affatto indispensabili. Trent’anni fa, durante una campestre in Val di Genova, mentre pioveva a fiumi, mi ha affiancata una donna nativa di Carisolo, ben più vecchia di me, bagnata fradicia, che correva in gonna e mocassini: era un fulmine.
E’ necessaria la disposizione dell’animo al silenzio, al vuoto, all’ascolto di quello che la corsa porta.
Non so bene descrivere cosa c’è da ascoltare. Si comincia con il cinguettio degli uccelli, il frusciare delle foglie sui rami, l’improvviso sgambettare di uno scoiattolo. Poi si ascolta il rumore delle suole sull’asfalto, sul terreno del sentiero, ripetitivo, sempre uguale eppure diverso. Ritmo veloce, muscoli contratti nello sforzo, che gradualmente si sciolgono.
Ma per sciogliersi devono attraversare la fatica e il sudore, evolvere dallo stadio di contrattura serrata a quello di abbandono che regala movimento gratuito, fluido, passivo, liberato dal controllo cerebrale. E’ come se venissero recise le connessioni fra centro e periferia, assoni lasciati liberi, penzolanti, sinapsi disattivate, zero acetilcolina. Motore principale silente, semplice ripetizione ossessiva, danza di dervisci, taranta, soppressione del controllo della coscienza.
Nei primi anni questa corsa-danza, questa attenzione acuta senza domande, veniva solo dopo i primi dieci chilometri, quando la fatica aveva sfiancato la volontà e nessun guardiano restava sveglio. La fatica era la chiave di volta, la strada obbligata. Tanta fatica, tanto sudore.
Il sudore è un problema quando si corre, perché irrita pelle e congiuntive: si deve adottare una fascia frontale che assorbe. Molto sudore riesce comunque a colare sul viso. Le aree che si irritano di più sono gli zigomi e le palpebre inferiori. Ho sperimentato mille protezioni, quella che funziona meglio è il burro di karité che le mie amiche mi portano dal Burkina.
Non ha una buona fragranza, ma è così denso da stratificarsi come un film protettivo sulla pelle e ridurre al minimo l’insulto dell’acidità del sudore.
La corsa induce all’ascolto del corpo, alla confidenza con i muscoli e dunque con il cuore, ma non con il cuore dei sentimenti, con il cuore pompa formidabile, magico motore silenzioso, scrigno segreto.

 

Come è cominciata?

Con la mia mano bruciata scrivo della natura del fuoco
(Ingeborg Bachmann)

Venivo da cinque anni di yoga declinato all’occidentale, yoga tutto fisicità e muscoli, che ho intrapreso verso la fine della chemioterapia. Non riuscivo a reggere la mia immagine allo specchio, lo sguardo la sfiorava di sfuggita e poi doveva distogliersi: quarantasei chili di ossa, muscoli ipotrofici, pelle cadente, sparuti peli radi in testa. Spiumata, mi definiva mio marito.
Sotto casa avevano aperto una nuova palestra yoga, gestita da donne che vedevo arrivare in tuta rossa. Ambiente silenzioso, niente musica, poche pretese, grande preparazione atletica delle maestre, tutte dotate di fisico agile e scattante. Il silenzio del luogo e la calma delle insegnanti mi hanno conquistata. Ho ricominciato gradualmente ad estendere e a flettere i muscoli, ad oliare le articolazioni legnose. Sensazione di chemioterapici che si sciolgono nel sudore, fluorouracile e oxaliplatino che a ondate abbandonano le vene e, tramite la cute, evaporano, si portano via la nausea, il sapore dolciastro che patina la lingua e inibisce il gusto, l’astenia invincibile. Questo é stato il maggiore ostacolo, scendere a patti con l’astenia, abituarsi a non avere risorse, a doversi concentrare a lungo per trovare l’energia per alzarsi da una poltrona. Estenuante esercizio di umiltà per chi ha sempre avuto forza a profusione, sopportazione della fatica senza limiti. Come se tutto il corpo fosse un unico muscolo calpestato dentro, scrive José Saramago.
Dure anche le parestesie alle mani, ai piedi e alla lingua. L’oncologo mi aveva avvertito di non bere bevande fredde, ma il primo ciclo di terapia era andato via liscio, per cui me ne ero dimenticata fino al momento il cui ho bevuto di colpo un bicchiere di acqua fredda. Era una mattina di luglio, ero sola a casa e la gola ha cominciato a serrarsi, l’ugola si è gonfiata a dismisura e lo spazio respiratorio si é ridotto a un filo. Impossibile inspirare, debito di ossigeno, vertigine e terrore. Poi il flash, il ricordo del farmaco: era il platino che faceva ostacolo, ingombrava i nervi periferici, ispessiva le mucose. Sforzo di autocontrollo, pazienza, calma. Sarebbe passato presto. Così é stato: ho ricominciato ad inspirare nello spazio di pochi minuti dilatati a secoli quando li misuri nella paura.
Sempre l’oxaliplatino paralizzava le dita delle mani e dei piedi; impossibile allacciarsi un bottone, reggere un libro. Mani esperte ridotte ad appendici di gesso, dolenti. Duplici guanti, massaggi, formicolio e poi dolore, urente, terebrante alle ultime falangi ghiacciate, bluastre, insensibili. Mi era stata assicurata la transitorietà del sintomo, ma come fidarsi quando le mani sono completamente inservibili e di lavoro fai il chirurgo? Non avrei varcato più le soglie della sala operatoria? Se fossi sopravvissuta al male, sarei sopravvissuta alla nostalgia del bisturi?
Quando il platino mi veniva iniettato nel catetere venoso centrale, direttamente nella vena succlavia e di lì in atrio destro, la sensazione era di gelo, come se il ghiaccio cementasse tutto ciò che il farmaco attraversava, progressivamente ma inesorabilmente. Il nulla che avanza di Neverending Story. La temperatura corporea si abbassava e le funzioni vitali rallentavano; sentivo il cuore divenire bradicardico e percepivo la pressione in discesa libera. Non avevo mai fino ad allora avuto attenzione al corpo, semplice strumento, ora d’improvviso tutto. Amplificavo ogni fruscio, la percezione dettagliava ogni minimo mutamento, distintamente, nulla passava sotto silenzio, quasi potessi contare i linfociti in rottamazione. Il corpo occupava imperiosamente tutto lo spazio.
E proprio ora che avevo conquistato questo sapere, questa confidenza con la mia corporeità, la sensazione che il farmaco mi rimandava attraverso il corpo era di morte. Freddo, brividi scuotenti, pallore, cute verdognola e poi sentirsi morire. Credo che l’esperienza del platino in vena sia la più simile alla morte che si possa immaginare, almeno per chi, come me, non ha un passato di abusi di altre droghe. Progressivo raffreddamento del corpo fino all’affievolirsi di ogni funzione, di ogni segno vitale. Già al secondo ciclo di chemioterapia ho imparato che questa sensazione di morte imminente sarebbe durata solo alcune ore. Le ore possono calamitare secoli in certi frangenti, i minuti sfuggono alle misurazioni convenzionali e fanno lo sgambetto al tuo self control.

Attraverso lo yoga cercavo di fare pace con un corpo che mi aveva tradita, aveva lasciato crescere un cancro, lo aveva nutrito sottraendo energia alla vita. Come avevo potuto non sentirlo crescere? Sette centimetri é una dimensione ragguardevole, avrei dovuto accorgermene. E non era una neoplasia qualunque, ma quella che operavo, che studiavo, che inducevo nelle cavie in chirurgia sperimentale. La malattia che meglio conoscevo, con cui avevo più confidenza, di cui avrei potuto disegnare le vie di metastatizzazione aveva colonizzato il mio presente.

Com’era possibile che il mio sistema immunitario avesse fatto cilecca e non lo avesse riconosciuto come un corpo estraneo, come altro da sé? Si affacciava alla mente la possibilità che la malattia non fosse altro da me, che non si trattasse di un ospite invasivo, di un saprofita, di un nemico. Che si trattasse di me. Cellule vive che crescono, si moltiplicano, seppur aberranti sono vita. Vita che erode la vita, che stronca la sopravvivenza. Fare i conti con il mio desiderio di morte, con ciò che mi ha portato lì, sul quel crinale fra l’essere e il non essere, con la fascinazione dello scomparire, con quel canto di sirene cui é difficile resistere.

Aveva voluto morire, ma non come si vuole quando si é lontani dalla morte, bensì andandole incontro. Non l’aveva invocata ma, più semplicemente, si era messa in marcia, scegliendo il cammino che conduce a essa, o forse si era confusa; forse si trattò solo di un inganno o di un’illusione; un errore. (Maria Zambrano, Delirio e destino)

L’ata yoga, con lo sforzo atletico che comporta, mi ha traghettata fuori dalla chemioterapia, ha riattivato le mie fibre muscolari e ridato parvenza di equilibrio al mio sistema nervoso centrale. Un puntello per reggermi in piedi.
Fare i conti con la malattia sarebbe stata tutt’altra faccenda, e, per quello, lo yoga così inteso, era un’arma spuntata. Ma non era ancora tempo, troppa era l’energia necessaria per sopravvivere.
Presi la mia mente, tutto il mio essere, una cosa ormai così scoraggiata, quasi esanime, e li sbattei tra quei resti, pagliuzze, rametti, detestabili rottami di un naufragio, relitti galleggianti, robaccia buttata a mare. (Virginia Woolf, Le onde).

Cinque anni di addominali, flessioni, piegamenti, fino a riuscire a sostenere posture antigravitazionali per le quali era assolutamente necessaria, oltre che la forza fisica, la concentrazione. Per questo dovevo ricostruire l’equilibrio. Quello non era mai stato un problema, almeno quello fisico. A scuola l’asse di equilibrio mi veniva facile e scendevo dal quadrato svedese a testa in giù come un’anguilla. Lo stesso per la pertica, quasi le gambe mi proiettassero verso l’alto gratuitamente.
La chemioterapia aveva invece cancellato anche l’equilibrio fisico, mi accorgevo di sbandare per strada, di pencolare sotto la doccia come un giunco, vittima di una lieve vertigine che non mi ha più abbandonata del tutto. Attraverso lo yoga ho ripreso una parte del vecchio equilibrio anche se ancora oggi, a distanza di dieci anni, mi capita di pendere da un lato, di camminare storta, di scivolare se non sono concentrata. Ora l’equilibrio richiede impegno di testa, mentre prima era gratis, era sapere inconsapevole del corpo.
Per qualche anno lo yoga ha funzionato: la fatica, i muscoli pesti, il sudore, mi consentivano di riabitare il mio corpo e di camminare nel mondo. La strada della fatica e del sudore mi é sempre stata conforme. Se fossi nata uomo sarei stata un bravo ciclista o un buon soldato; se fossi nata animale sarei stata uno di quegli asini legati alla stanga di una macina che triturano gli anni girando in tondo.
Fatica inscritta nella carne, oltre che nei geni. Decodificarne le origini non risolve, non cuce un nuovo abito addosso.
Finché l’ambiente della palestra yoga ha cominciato a guastarsi. Le pretese atletiche crescevano e con loro cominciava a fare capolino la competizione e il gusto per la perfezione del corpo che mi disturbava. Nuove insegnanti venivano inserite, più giovani, rampanti, magrissime, ben truccate. Poi è comparso un guru nostrano, con scimmiottamenti buddisti e sguardo ieratico veramente comico. L’ambiente si è fatto esclusivo, i costi sono lievitati e la clientela è divenuta ricercata. Aria troppo pesante per me. In realtà quell’attività aveva il merito di sfruttare le posture e la tecnica del respiro dello yoga, quello che strideva era il misticismo posticcio.
Ho abbandonato la palestra yoga, ma a quel punto il corpo aveva le sue esigenze e reclamava spazio. Non potevo chiuderlo in cantina un’altra volta.
La corsa nasce qui, da questa pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci. Un richiamo forte, ineludibile. Il bisogno di riprovare ad immaginare una sopravvivenza, di rigiocarsi.

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