La scrittura e la storia. Un percorso di lettura*

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Come scrive uno storico? i suoi procedimenti sono del tutto diversi da quelli del romanziere o ci sono punti di contatto?
Perché alcuni libri di storia, al di là delle notizie che contengono e del rigore del metodo in essi impiegato, coinvolgono il lettore e altri no?
Domande che nascono in chi legge saggi storici come in chi si è trovato a scriverne (non importa se a scala locale), e che sottendono questioni di fondo attinenti al significato stesso della ricostruzione storica e, in senso più generale, al nostro rapporto con il passato.
Domande che rimandano a una lunga e non conclusa discussione che ha visto impegnati filosofi e storici, e che ha portato alcuni studiosi a sostenere che la storia non è che un genere letterario, e dunque è necessario che anche gli storici che non l’hanno finora fatto tornino (dopo aver cercato di imbrigliare le loro ricostruzioni storiche nelle reticoli di teorie di diversa ispirazione) alla narrazione.
Ma più di questo dibattito – intrigante e intricato: una buona ricostruzione si trova in La teoria della storiografia oggi, di Paolo Rossi, pubblicato dal Saggiaore nel 1983 – se si vuol cercare di rispondere alle domande iniziali occorre chiedersi se la narrazione non sia tanto una scelta che lo storico fa o non fa quando, letti e analizzati i suoi documenti, prende in mano la penna, ma piuttosto non sia l’unico modo che ha a disposizione per costruire il suo discorso, o addirittura l’unica via per dargli consistenza; capacità conoscitiva rispetto al passato e persuasiva rispetto al lettore; coerenza e rigore, sia pure in un modo diverso da quello delle scienze esatte.
Sembra di questa idea Hannah Arendt (in Vita activa. La condizione umana): “Chi parla di ciò che è stato racconta sempre una storia”, dice, e non usa il termine history, la storia in quanto disciplina, studio del passato, ma story, che significa storia nel senso di racconto, trama, narrazione (e anche, come in italiano, fandonia, bugia).
D’altra parte – e reciprocamente, si potrebbe intendere – Paul Ricoeur, nella sua opera monumentale Tempo e racconto, sostiene che “raccontare una qualsiasi cosa vuol dire raccontarla come se fosse accaduta”.

Ma allora, sia lo storico che il romanziere praticano – che ne siano convinti o meno, consapevoli o meno – una scrittura narrativa? Domanda che può essere meglio formulata: la scrittura è un momento decisivo, molto più che un semplice mezzo, per tutt’e due?
Stando a Ricoeur si direbbe senz’altro di sì. Per lui infatti la scrittura “non è esteriore rispetto alla concezione e alla composizione della storia; essa non costituisce una operazione secondaria, dipendente soltanto dalla retorica della comunicazione e che potrebbe essere trascurata come fatto di natura puramente redazionale. Essa è costitutiva del modo storico di comprensione. La storia è intrinsecamente storio-grafia (…)”.
Non diversamente dal filosofo si esprime la storica. “i problemi di composizione del testo [storico] – sostiene Gianna Pomata nel suo contributo a Scienza narrazione e tempo, curato da Mariuccia Salvati e edito da Angeli nell’85 – non sono tematizzati come problemi conoscitivi (…). L’esigenza di consapevolezza e rigore metodologico si accentra per gli storici nel rapporto critico con le fonti, mentre la composizione del testo resta un momento opaco, sottratto all’autoriflessione, visto come esterno all’attività di ricerca, lasciato apparentemente al “gusto” (o arbitrio) individuale (…)”. E’ da questo modo di vedere le cose che discende “il luogo comune che contrappone la narrazione, come aspetto retorico-stilistico del testo storico, alla spiegazione, come suo aspetto conoscitivo.”

*Questo testo nasce dalla conversazione con uno storico, Gianfranco Porta, riportata in Come un romanzo. Una rilettura e una conversazione a partire da un saggio storico di Gianfranco Porta

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