Ogni cosa ha la sua fine, niente è per sempre

Kader Abdolah, Il faraone d’Olanda, Iperborea 2022 (pp. 288, euro 17,50)

La narrazione procede con il passo dei due anziani personaggi, un professore e un operaio. Il primo è un insigne egittologo olandese che dopo aver indagato per una vita sul lontano passato ha perso la memoria, ma non del tutto: non ricorda il proprio nome ma lo pseudonimo che aveva adottato; durante le sue quotidiane uscite non di rado si perde e dev’essere riportato a casa, ma non ha dimenticato nulla di ciò che riguarda la mummia che, non saprebbe dire come portata con sé dagli scavi in Egitto, conserva nella propria cantina; stenta a riconoscere anche le persone va lui vicine ma ha mantenuto l’ormai antica consuetudine con l’operaio – ecco il secondo personaggio, vero protagonista del romanzo – che gli aveva molti anni prima portato a casa una lavatrice, uno dei tanti gastarbeiter emigrato dalla terra delle piramidi in Olanda, il quale, rispolverando un’abilità acquisita nell’infanzia, ha negli anni dipinto i muri della cantina dello studioso facendone una perfetta imitazione d’una tomba faraonica.

La svagatezza smemorata del professore e la saggezza paziente del lavorante in pensione ci accompagnano in queste pagine e potrebbero far pensare a una rivisitazione di una ben più celebre copia di personaggi, non fosse che l’assennatezza del secondo, venata com’è di suggestioni poetiche e considerazioni esistenziali più che di terragna concretezza, risulta difficile da accostare al carattere di Sancio Panza. Abdolkarim sa per esempio vedere il paradossale vantaggio che l’infermità ha portato all’amico, che – ammette – “migliorare non può, nelle sue condizioni, ma sta certamente meglio di me. Chi non soffre per il passato, non soffre per il presente. Il che è di per sé un dono della vita”. Filosofo, a suo modo, ma non per questo staccato dal mondo: è lui a studiare il modo di realizzare quello che per il professore, e via via per lui stesso, costituisce il dovere irrinunciabile di riportare là da dove era venuto il prezioso reperto. È lui a spronare il cocciuto ma imbelle compagno: “Io conservo la memoria delle cose che tu hai dimenticato. Se muoio, quello che so va tutto perduto. E la tua mummia finisce nel bidone dell’immondizia. Capisco la tua esitazione, ma anche il tempo della tua tomba egizia è giunto al termine”. È questo forse il principio cui si rifà puntualmente il saper vivere di Abdolkarim: la consapevolezza, che si traduce quasi in un intercalare, che “ogni cosa ha la sua fine, niente è per sempre”, senza che un tale convinzione si traduca in inerzia. Perché occorre pensare, stando al monito venuto niente meno che dal dio Thoth, che “quello che sei è limitato da quello che pensi di essere”, e ricordarsi che, d’altra parte, “una piccola corda ci lega alla vita. Quando la vita tira dobbiamo cedere, ma quando la vita cede dobbiamo tirare”. Sulla base di queste regole di condotta, sarà sventato il rischio che il museo di Leida si appropri del sarcofago, così come dopo molte peripezie Abdolkarim, ormai privo dell’amichevole presenza del professore, riuscirà invece a consegnarlo alle autorità del Cairo e a concludere la propria esistenza nel luogo stesso in cui era iniziata.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *