Storie di vita al supermercato

Annie Ernaux, Guarda le luci, amore mio, L’orma 2022 (pp. 112, euro 13)

“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non luogo”, un luogo che non sa integrare in sé i luoghi così come li intendevamo, spesso classificati come “luoghi della memoria”. Marc Augé, coniando l’espressione e identificando il concetto ha anche indicato una tipologia: appaiono non luoghi gli aeroporti, le autostrade, le catene alberghiere, ma anche “i grandi spazi commerciali”. È facile riconoscere come non luoghi le immense hall degli aeroporti, le camere omologate e stranianti dei grandi alberghi identici in tutto il mondo e certamente spazi fatti per le auto e non per gli uomini (se non nella loro forma di passeggeri) come le autostrade; un po’ forzata ci appare invece la definizione se applicata a supermercati e centri commerciali. Perché? È avvenuta, o per lo meno è in corso, una loro evoluzione che li ha tolti dallo statuto, e dal vissuto, di non luoghi? (senza per questo farne “luoghi della memoria”, anche se vicende come quella del Freccia rossa a Brescia e di altre strutture del genere, candidate a una prossima archeologia commerciale, fanno pensare…). Oppure si sta assistendo a una metabolizzazione dei non luoghi che ci ha portato a farcene una ragione, ad abituarci ad aggirarci in essi come facevamo, e qualche volta facciamo ancora, nei mercati che (sempre meno stabilmente) occupano le piazze cittadine?

Ernaux parrebbe di questa opinione, partendo dalla constatazione che i supermercati “fanno parte del paesaggio dell’infanzia di chiunque abbia meno di cinquant’anni”, ma anche per quelli nati prima stanno cominciando “a figurare fra i luoghi degni di avere una loro rappresentazione”. Perché occorre riconoscerlo: supermercati e ipermercati, quale che sia la generazione cui si appartiene, ormai “non sono riducibili alla loro funzione domestica, alla corvée del ‘fare la spesa’. Suscitano pensieri, fissano ricordi sentimenti ed emozioni”. Soprattutto se si guarda in quel modo particolare in cui guarda chi scrive (“Vedere per scrivere è vedere altrimenti”): “Quante storie di vita si potrebbero scrivere anche solo attraversando da una parte all’altra uno dei centri commerciali che frequentiamo”. Basta vederli come luoghi di un “grande incontro collettivo, come spettacolo” della realtà sociale nella sua articolazione di “età, reddito, cultura, origine geografica ed etnica, stile di abbigliamento”. Entrarci può essere il modo di scoprire che anche tu sei uno dei tanti che “per distrarsi un po’ o combattere la solitudine, scelgono di andare a fare un salto al centro commerciale”. È quello che ha fatto la scrittrice, fedele all’identità in cui lei stessa ha dichiarato di riconoscersi, quella di “etnologa di sé stessa”: “è stato senza esitare dunque che per ‘raccontare la vita’, la nostra, oggi, ho scelto gli ipermercati”, non certo per “ripetere i discorsi abusati e spesso venati di avversione, che emergono quando si parla di questi cosiddetti non luoghi”. “Non si tratta di un’inchiesta, dunque, e nemmeno di un’esplorazione sistematica, bensì di un diario”, ma lo scopo va oltre l’esperienza individuale per “tentare di cogliere qualcosa della vita che vi si svolge”, un campione rappresentativo della vita collettiva del nostro tempo. Ecco allora, dalle descrizioni delle montagne di merci distribuite nei vari settori in cui lo spazio commerciale si organizza, emergere notazioni nelle quali subito ci riconosciamo: “All’interno di un ipermercato è possibile anche questo, isolarsi dal resto del mondo e portare avanti una conversazione in tutta tranquillità, come se si fosse in mezzo a un parco”; oppure: “Tra le popolazioni che frequentano questo Auchan, divenuto ogni anno più variegato dal punto di vista etnico, il senzatetto e l’uomo un po’ sbronzo sono invece scomparsi. Si è via via imposta una tipologia di ‘consumatore normale’, o per una più rigida selezione all’entrata, o per autoesclusione”. Ma anche fra i consumatori normali c’è differenza: nel settore discount, quello per chi deve fare più attenzione ai prezzi, “i prodotti di fascia bassa per le persone non hanno nulla di attraente, presentati in grossi ammassi su bancali di legno (…). Qui l’abituale linguaggio della seduzione, costituito da un’ipocrita benevolenza e da promesse di felicità, è sostituito da quello della minaccia, esposta senza mezzi termini (…) ‘Si avvisa la gentile clientela che il peso e l’etichettatura dei sacchetti saranno oggetto di controlli a campione alle casse’”. Del resto, “l’inizio della ricchezza, della sua leggerezza, si può misurare così: servirsi in un reparto di prodotti alimentari senza guardare il prezzo. L’umiliazione inflitta dalle merci. Costano troppo, quindi io non valgo niente”.

E in questo spazio enorme, nel quale si ha “la strana sensazione che il tempo non scorra, che ci sia solo un presente ripetuto miriadi di volte, che la Storia non esista” nonostante il frastuono che avvolge i tapis roulant sovrastati da ghirlande e luminarie, può capitare di cogliere una battuta al volo, come quella della giovane donna che si china sulla bimba che ha con sé, nel passeggino: “Guarda le luci, amore mio!”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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