Segni dell’inciviltà di un paese

Tomaso Montanari, Chiese chiuse, Einaudi 2021 (pp. 144, euro 12)

La denuncia che nasce dalla considerazione documentata, l’appello che muove dalla denuncia per far sì che il discorso si traduca in atti concreti, la passione che si sostanzia di competenza, una competenza accumulata con passione: è di questo che si tratta (o si dovrebbe) quando si parla di intellettuali, di intellettuali portatori di un pensiero critico. Come Tomaso Montanari, studioso e cittadino attivo, polemista acuto e divulgatore efficace, in questo libro in particolare, dedicato a un oggetto a prima vista riservato a cerchie ristrette, di cultori del patrimonio storico artistico, o di credenti animati dalla fede. Senonché, il destino di molte chiese – chiuse, impraticabili, abbandonate, saccheggiate, contraffatte – è spia di una crisi culturale, e civile, che travalica le loro porte serrate e i loro muri cadenti. Perché si tratta di “Luoghi del silenzio: pause nella vita di ogni giorno, capaci di suggerire un diverso senso del tempo, un altro ritmo esistenziale”, per cui “bisognerebbe avere la lucidità di comprendere che, nella densità asfissiante e ansiogena della nostra vita quotidiana, entrare in una chiesa antica, sostarvi anche senza una precisa ragione, equivale a respirare. A poter pensare entrando in un mondo governato da altri ritmi, altri colori, altre luci, altre prospettive”: “In una società che si regge sulla teorizzazione della mancanza di alternative (esistenziali, culturali, politiche) le antiche chiese sono un mondo radicalmente alternativo al nostro: un mondo che si può conoscere semplicemente varcando una soglia”.

A monte, la consapevolezza che “le circa 85.000 chiese storiche italiane (…) sono un bene pubblico. Almeno da un punto di vista morale”, e tuttavia “in gran parte privatizzato nei fatti: cioè negato. Sono sempre più le chiese accessibili a pagamento, o destinate ad attività economiche redditizie”: se non alienate, stravolte nel loro assetto e nella loro fisionomia, prove concrete e lampanti di una crisi culturale “che fa ritenere noioso e poco spendibile sul piano della comunicazione il restauro di un monumento storico, mentre fa apparire eccitante e dissacratoria la sua (lucrosa) riscrittura moderna”, secondo il presupposto, implicito, che “quel che non rende può tranquillamente morire”.

Ma c’è ben altro, sembra subito di sentir dire, anche da dove non lo si sarebbe previsto: ben altri sono i problemi che ci affliggono… Ne è cosciente l’autore, ne era cosciente, già più di cinquant’anni fa, Leonardo Sciascia, al proposito opportunamente citato: “L’Italia è il paese dell’arte ma le opere d’arte che vadano in malora. Ancora una volta dobbiamo constatare che questo non è un paese civile, non lo è nelle baracche dei terremotati e dei migranti (…) e non lo è nella conservazione delle opere d’arte e delle testimonianze storiche. Sembra che non ci sia relazione fra un Caravaggio facilmente rubato a Palermo e una famiglia costretta a vivere in 6 mq di baracca: invece c’è, precisa, assoluta. Se il baraccato costituisse preoccupazione, uguale preoccupazione costituirebbe il Caravaggio (…). C’è una interdipendenza, un legame d’ordine: del solo e vero ordine che un paese civile deve tenere”. Questi i capisaldi del discorso, che avvalora con dati precisi ed esempi indiscutibili le sue tesi, per giungere a individuare una possibile unità d’intenti fra la Costituzione e il Vangelo, fra i riferimenti alla tutela del patrimonio culturale contenuti nella prima e l’ammonimento di Gesù a non fare della casa del Padre una “casa di mercato” e a vedere invece nelle pietre che la compongono “i corpi vivi, i soli che conferiscono a quelle pietre inanimate la loro bellezza”.

Una convergenza capace di dar corpo a iniziative concrete (perché non affidare chiese non più officiate ad altre comunità religiose, ad esempio?) e di delineare un orizzonte comune: “le antiche chiese italiane rappresentano un perentorio, struggente invito alla conversione collettiva: in senso laico, terreno. Umano, prima che religioso”, chiedendo “il cambiamento radicale dei nostri pensieri, delle nostre scale di valori, delle nostre sicurezze”; interrogando, “con la loro presenza ostinata”, “la nostra inquieta assenza”; smascherando, “con la loro viva compresenza”, “la dittatura del presente”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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