Scrivere, leggere / Daniele del Giudice

“Il mestiere di scrivere per me non è un mestiere; sostanzialmente io non ho mai preso la scrittura come un mestiere. Anche se poi, in realtà, i miei redditi vengono da quello. Non lo penso come un mestiere non perché ci sia – per l’amor di Dio – un’ispirazione o qualcos’altro di astratto, solo che per me scrivere è un modo di vivere prima ancora che un lavoro. È una passione: il leggere prima ancora dello scrivere. Quando avevo undici anni, mi sono fatto un mio mondo, che non immaginavo certo di usare come lavoro. Era un mondo parallelo, di immagini e di racconti. Prima di morire, mio padre mi fece due regali: uno era una macchina da scrivere, una enorme Underwood americana con la tastiera italiana; l’altro era una Bianchi 28, una bicicletta. Invece di andare a scuola, andavo con la bicicletta sulla statale Appia, e giravo i colli attorno a Roma.

Tornavo a casa, e di pomeriggio mi mettevo la custodia della Underwood sotto il culo, e scrivevo con due dita (come faccio tuttora). Non pensavo fosse una scrittura, per me era la macchina da scrivere che faceva le storie. Quando vedi un foglio stampato a macchina, già senti che c’è qualcosa.  (…) Certo potrei fare come Moravia, lavorare sempre e solo dalle otto del mattino a mezzogiorno, però io non riesco proprio a considerarlo un mestiere. Ripeto che sono lontano dall’idea dell’ispirazione. Secondo me l’ispirazione è quella dei polmoni. Ma ci sono dei momenti in cui non senti il bisogno, ci sono dei pantani, dei momenti di deserto. E anche il deserto è un elemento importante, dove tu non sei niente, non hai niente se non la solitudine e la sabbia. È una cosa molto frequente, soprattutto nei grandi scrittori. Il deserto procura una forza nuova. (…) Deve esserci una spinta, una scintilla. Tutti i miei libri sono fatti così. A farlo come mestiere si fa presto, c’è però da vedere quello che viene fuori”.