Appartati, discreti maestri di vita

Paola Baratto, Malgrado il vento. Racconti, Manni 2021 (pp. 80, euro 12)

Sono tornati, gli appartati, discreti maestri di vita che popolano i racconti di Paola Baratto: dopo il romanzo (Lascio che l’ombra, segnalato in questi Appunti il primo settembre 2019), Malgrado il vento riprende le storie raccolte nel 2014 in Giardini d’inverno e due anni dopo in Tra nevi ingenue. Un dato di continuità da subito evidente è la brevità dei racconti, un tratto che ne è sostanza, non rispondendo tanto a una scelta stilistica, quanto a un impegno preciso, quello di mirare all’essenziale e di questo dire, senza farsi distrarre, senza distrarre il lettore. Il succo della storia è già lì, sin dalle prima righe, e così il suo protagonista. Non ci viene chiesto di arrivarci attraverso trame complicate che mettono in campo schiere di personaggi. Ciascuna delle storie che ci vengono proposte potrebbe costituire il nocciolo di un racconto lungo, se non addirittura di un romanzo – anche perché, sia pure in pochi tratti, spesso si dà conto del passato in cui è maturata la fisionomia del personaggio –, ma una scelta del genere tradirebbe il senso che l’autrice sembra assegnare alla scrittura: dire ciò che davvero conta, appunto, senza confonderlo in un intrico di fatti e discorsi come a imitare la vita. La buona scrittura, la scrittura vera, quella che giustifica il lavoro dello scrivere e assicura il piacere del leggere, quella che dà senso ad entrambe le attività, opera una distillazione della vita, non ne persegue la mimesi. Ha bisogno della vita, la letteratura, se ne alimenta, ma è altro. Lo leggiamo nelle prime pagine, in una premessa – Le stagioni degli altri – che rappresenta di fatto la dichiarazione di una poetica: “Non c’è letteratura nei racconti della gente”, quegli stessi racconti che pure vale la pena di ascoltare, di saper ascoltare – “un’inclinazione”, questa, che risulta essere ormai “una mercanzia rara”. Come il saper narrare, del resto.

L’autoreferenzialità, la chiusura entro l’orizzonte per forza di cose circoscritto del proprio Io, sono il prezzo che paga una letteratura che non sa prestare ascolto, ma esserne consapevoli non equivale a credere che siano letteratura “le storie che la gente racconta”: tutti credono che “momenti e incontri cruciali” che non han potuto dimenticare “li rendano unici” e che “la loro narrazione li consacri protagonisti di romanzi” (così come, potremmo aggiungere, molti credono che riferire ciò che hanno sentito da altri possa far di loro degli scrittori). “Ma non è così”, perché la memoria non è stimolata a conservare in ragione dell’eccezionalità, di fatti o persone indimenticabili, ma è più spesso attivata dell’orgoglio, dal rancore, o dal rimpianto.

E allora, perché ascoltare, perché prestare attenzione alle vite degli altri, a vite che non sono la tua? A risponderci è la voce senza nome che parla in queste prime pagine, alla quale potremo dare un volto solo più tardi: i “ritagli di vita” che la gente riporta conservano l’“odore” delle vicende ricordate, dei sentimenti che hanno impedito si disperdessero. “Percepire quell’odore” è letteratura, distinguere le ombre che chi racconta non immagina di svelare, ascoltare guardandolo per coglierne sospiri, pause, gesti inconsapevoli e lapsus reiterati, sorrisi che cercano di “svelenire la rabbia” che ancora fatti e parole lontane alimentano. Questo è l’essenziale. “Ascolto soprattutto quello che non dicono”, sintetizza la narratrice, avvertendo preliminarmente il lettore che dunque non sta in quel che racconta la gente, la letteratura, ma nelle sue “omissioni”.

Siamo pronti, a questo punto, a incontrare i personaggi di Malgrado il vento, ma conviene lo facciamo secondo il loro stesso stile: lentamente, sia perché non ci imbatteremo in parole scelte a caso o in passaggi che non siano limpidi e conseguenti, sia perché, se si può ammettere che i racconti siano distinguibili per un loro peso specifico, questi ne hanno a un grado tale da meritare d’essere assimilati con misura, non più di un paio alla volta direi, perché occorre fargli spazio, darsi il tempo di accoglierne le atmosfere, non perdersi gli improvvisi brillii che certe espressioni fanno balenare, apprezzare la grana dei ritratti, ognuno raffigurazione di un particolare modo di stare al mondo, di rapportarsi a sé e agli altri, di testimoniare la possibilità di dar vita a momenti di autenticità. Perché questo è in fondo il convincimento, che emergeva anche nei racconti precedenti: non è con i discorsi, non è con le parole, sia pure impeccabilmente organizzate in denunce e perorazioni, che si contrasta la peste dell’omologazione, dei luoghi e dei paesaggi, dei comportamenti e dei modi di comunicare; non è così che si contraddice davvero la prevalenza del come sul perché, della pura funzionalità sulla ricchezza dei significati e la chiarezza dei fini. È in quel che si fa, in come lo si fa, nella costanza silenziosa di un fare quotidiano e gratuito, non importa se difforme fino alla stravaganza, che si combatte la pretesa arrogante, o il riconoscimento rassegnato, che non c’è alternativa.

Il minimarket, il negozio di quartiere – al di là delle indagini di mercato che sembrano aver riscoperto la funzione del “commercio di prossimità” – sono di fatto quel che erano un tempo il lavatoio per le donne o l’osteria per gli uomini: un luogo in cui “attardarsi”, un’occasione di incontro per “gente che non (ha) fretta, ma case vuote”; un riferimento – per quanti fuggono, sia pure con lentezza, senza darlo troppo a vedere, dalla solitudine – che si rivela insostituibile quando il negozio passa di mano e dietro il banco (sempre che il negozio non sia sparito, magari per esser trasformato in un garage privato) compaiono ragazze cinesi, gentili ma incapaci di stabilire una relazione con i clienti, anche solo chiacchierando del tempo che farà. Non sembrerà esser cambiato poi molto, eppure nulla sarà più come prima: il suono della saracinesca che s’alzava al mattino e s’abbassava la sera non sarà più quel “rintocco” che dava la misura del tempo, diffondeva il senso della giornata che legittimamente finiva anche a chi l’aveva trascorsa senza far niente. Non è escluso infatti che la nuova conduzione prolunghi il servizio nelle ore notturne, senza far più distinzione fra il giorno e la notte. Non risparmia neanche il tempo, l’omologazione.

Eppure un luogo dove è piacevole stare, dove è possibile scambiare notizie e opinioni e perfino gustare sapori nuovi e ascoltare musiche inconsuete c’è, nel quartiere, e non è certo un caso che a metterlo in piedi siano state due straniere, portatrici di una cultura non ancora del tutto normalizzata. Due portoghesi, madre e figlia, che fanno servizio di pedicure e manicure ma offrono ai loro clienti ciò che altrove non trovano più. Anche i meno socievoli fra gli abitanti del quartiere, come Aldo, vedovo alteramente riservato, finiscono con il frequentare la casa di Fernanda e Clelia, luogo di non intenzionale ma efficace resistenza all’isolamento, all’atomizzazione sociale. L’unico a disertare è Eugenio, l’architetto che sta all’ultimo piano, lo stesso che tuttavia troviamo spesso a prestare ascolto ad Attilio, il quale campa vendendo – di contrabbando, come gli piace dire – bellezza, ossia ottenendo qualche soldo come compenso per aver indicato a chi passa “un affresco sbiadito”, dei “grappoli di glicine da poco fioriti”, “un nido di rondini sotto un cornicione” o semplicemente “un invitante profumo di pollo alla brace”. Quello che fa è riconoscere, e far ravvisare agli altri, la bellezza. E, si badi, non lo fa nel centro storico, dove è abbondante e ostentata, ma nel quartiere periferico dove non ci si aspetta di trovarne. La sua è un’altra forma di resistenza all’andazzo generale, propenso alla cancellazione del “senso della bellezza”.

A questo punto mi trovo a dover combattere la tentazione, volendo dire di questo libro, di non tralasciare nessuno dei personaggi, nessuna delle forme originali che hanno escogitato per trovare gusto nel vivere, per trovare, sommessamente, senza voler persuadere nessuno, un senso nei loro giorni. È dunque a malincuore che mi lascio alle spalle l’anziano ingegnere a cui piace sostare, soprattutto nei giorni di pioggia, su un ponticello dove prova la “sensazione di essere a metà di qualcosa”; o Giulio, che prendendo nota di “istanti perfetti”, di effimeri momenti di essere, aggiunge un tassello alla rassegna dei collezionisti incontrati in Giardini d’inverno; e Elio, che nel suo lavoro di sgombero di cantine filosofeggia sulle ragioni per cui si conservano o si scartano le cose, le si butta – si notava già in Tra nevi ingenue – per errore o si perdono per disattenzione, oppure le si conserva, magari nella seconda casa, in quanto “testimonianze d’esistenze che non si riesce a tradire”. E poi l’Eugenio già incontrato che, dopo aver per anni progettato architetture improntate alla modernità, si ritrova a prediligere “rovine modeste e senza gloria”, capaci però di rimandare, più che alle date della Storia, al passare e al perdurare del Tempo, in quel gioco di permanenza e impermanenza su cui la seconda raccolta di racconti si era magistralmente soffermata.

E Lilli, infine, illusa “d’essere una persona vocata alla socievolezza”, sempre in cerca di relazioni, “dolce predatrice” dell’attenzione altrui, persa in un autismo ciarliero che i più rifuggono e pochissimi cercano di decifrare. Tra questi lei, Marta, la giornalista da poco stabilitasi nel quartiere in cui ritroviamo le movenze di chi ci parlava all’inizio: ascolta, Marta. Ascolta senza giudicare, ascolta per figurarsi punti di vista altri, per interpretare stili di vita fuori norma. Solo lei poteva comprendere al volo che Tomas, il misterioso “scrittore” che sa in pochi minuti far “ritratti con le parole” e propone, dietro compenso, di restituire a quanti gliela chiedono niente di meno che la loro biografia, non è un genio originale e sensitivo ma “un furbo”, che difatti scomparirà da un giorno all’altro lasciando nell’avvilimento gli entusiasti quanto ingenui clienti illusi di poter “testimoniare la propria visione del mondo, rievocare torti sottaciuti”, diventare i “protagonisti” che sotto sotto avevano sempre creduto di essere riscattandosi dalla loro condizione di persone comuni. Quelli che restano sono solo “fogli fitti di chiacchiere”, invece, e il perché lo sappiamo: chi trascrive solo le confidenze che le persone gli raccontano – o peggio, ne asseconda illusioni a lungo covate o vanità inconfessate –, invece di badare ai loro silenzi, alle lacune che lasciano, non scrive davvero le loro storie. Tanto meno fa letteratura.

La vena autobiografica che aveva fatto capolino sin dalla prima raccolta qui sembra lasciarsi intravedere con più evidenza: è la voce di Marta a chiudere questa silloge di minima moralia – così continua ad apparirmi appropriato definire i racconti di Paola Baratto – rivolgendosi anche a chi trova nella scrittura la sua congeniale forma di critica, la sua personale manifestazione di resistenza. Una resistenza diversa da quella di Aris, il protagonista del romanzo scritto prima di questi racconti, generoso e intelligente oppositore di una società sempre meno disposta ad ascoltare voci dissonanti, sempre più propensa a chiedere agli esponenti di un pensiero critico di sparire. Ciò che appunto farà lui, ma non Marta, altrettanto estranea allo spirito dei tempi ma capace di prenderne le distanze non affrontandone di petto, e in solitudine, le storture, ma mettendole a fuoco osservando, ascoltando soprattutto, chi concretamente e coerentemente le contrasta, non facendo dichiarazioni ma mettendo in campo comportamenti pacificamente irregolari: comprendere loro significa comprendere sé stessa, fare chiarezza sulle ragioni della propria inassimilabilità ai valori dominanti o, si può anche dire, alla perdita di cittadinanza di ogni valore non quantificabile.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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