Ti conosco mascherina

▸ dai giorni del coronavirus

Durante il coronacene il lungo periodo viene denominato fase. Le fasi hanno una durata variabile stabilita da Decreti Legislativi emessi dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, recepiti dal governo delle singole regioni, i cui contenuti variano secondo il numero dei morti, dei contagiati, dei guariti.
A ciascuna fase, è assegnato un numero progressivo.
Fino ad oggi, quelli che sono rimasti in vita hanno sperimentato il totale isolamento della fase numero uno, e si apprestano ora a prendere confidenza con la fase due.
Possiamo uscire da casa, anche solo per fare una passeggiata non vincolata a un numero limitato di metri. E senza esagerare, è possibile anche andare a trovare i congiunti, ultimamente anche gli amici, se residenti su territorio regionale.
Naturalmente facendo attenzione a non toccarsi, e indossando la mascherina.
Qualcuno di noi, fra quelli che per ora sono rimasti in salute, ha provato un senso di liberazione. Altri vera e propria euforia. Molti hanno individuato alcune azioni che definivano la normalità prima dell’emergenza sanitaria e le hanno volute subito praticare, a testimonianza del cambiamento. Andrà tutto bene, è così vero che oggi ho preso un caffè al bar. No, non dentro il bar, e nemmeno seduta fuori. Che c’entra, bisogna seguire una procedura: si accede da una parte, non più di uno per volta, si paga e si esce dall’altra. Ma ovvio che devi avere la mascherina e disinfettarti le mani. Oppure tenere i guanti, va da sé. Dopo esser passato alla cassa, ti metti di nuovo in coda, a un metro di distanza da chi ti precede, che domanda, è normale, e quando arriva il tuo turno, una mano guantata ti passa, da uno sportello ricavato all’uopo, il tuo bicchierino di plastica con il caffè. Finalmente!
A quel punto ti allontani, non puoi fermarti vicino al bar, c’è il rischio di assembramento. Ma sì, cammini per qualche metro, abbassi un attimo la mascherina, bevi in santa pace il tuo caffè, e via. Non è bello così?

Questi giorni mi usurano e lasciano una tristezza che mi induce allo sconforto.
Durante la fase numerata uno, l’omogeneità dei comportamenti era determinata dalla percezione del pericolo. Quando è stato chiaro che il gioco si faceva duro, in palio la vita propria o altrui, ho creduto di assistere a una reazione compatta, generalizzata, uno stato d’allerta registrato come una chiamata. Ho creduto che ciascuno a suo modo, seguendo schemi di pensiero propri di ogni individualità, avessimo insieme spalancato gli occhi su una realtà pregna di domande che non era possibile ignorare. Continueremo ad accettare tagli alla spesa pubblica? E che il traffico automobilistico renda l’aria delle città irrespirabile? Continueremo ad accettare che enormi energie siano spese per il sistema militare? E così via.
Pensavo, donne e uomini di parti politiche opposte registrano un appello cui è doveroso dare risposte. Le richieste riguardano il presente, l’assoluta necessità di prevenire il contagio, ma anche il futuro e il passato.
E poi c’erano il silenzio dei quartieri, disturbato solo dalle grida disperate dei mezzi di soccorso, le strade vuote, il genere umano immobile. Una condizione mai sperimentata: un evento ingovernabile, cui eravamo impreparati, faceva da spartiacque fra il prima e il dopo e ci scuoteva, ci obbligava a risvegliarci.
Il mondo di prima, per quanto meraviglioso, forse mostrava qualche falla, e quello che stava accadendo – e che accade – per quanto insopportabile, avrebbe potuto offrirci spunti di riflessione e indurci a confrontarci con la possibilità di un cambiamento. Non era possibile che succedesse indarno.
Finché è durato l’isolamento questi pensieri hanno trovato spazio dentro di me, hanno nutrito la brace della speranza e sono diventati parole piccole e caute da condividere in una cerchia ristretta di affetti.
Oggi penso che fossero solo un astuto espediente escogitato dalla mente per aiutarmi a sostenere l’entità della sciagura. Non c’era bisogno di misurarla con il pallottoliere dei servizi speciali televisivi. La portavo sulla pelle, la sentivo nel dolore che attraversava gli amici che perdevano amici, madri, congiunti, alla velocità della luce e nello spazio di pochi giorni.
Eppure, a riempirmi di sconforto è stato l’inizio della fase due.

La possibilità di incontrarsi, sia pure secondo la normativa in vigore, produce un cambiamento nei comportamenti che determina una distanza, sia pur minima, da quel che finora è stato. Nella mia limitatissima specola, da quella piccola crepa sgorgano i primi racconti. Piano piano si rintracciano parole che scompongono la fase uno in piccole tracce di immediata memoria. Bambini, anziani, infermiere e infermieri, donne e uomini. A Brescia e a Firenze, le mie due città, bambini che hanno trascorso la fase uno in appartamenti grandi e ben arredati, ma privi di uno sbocco all’esterno, stentano a uscire da casa. I più grandi hanno detto di avere paura. E lo stesso vale per le persone di età più avanzata, anch’esse indebolite dalla paura. Le infermiere e gli infermieri che nei mesi di marzo e aprile hanno lavorato nei reparti ospedalieri destinati alla cura dei pazienti contagiati, adesso raccontano lo sgomento di vedere i malati morire senza poter fare nulla.
È solo l’inizio penso. L’entità della sciagura avrà bisogno di parole misurate per darci conto della concretezza, in carne e sangue, dell’esperienza che ci attraversa.

Nella fase due è possibile muoversi da casa con maggiore libertà, indossando un dispositivo che protegge bocca e naso. Questo semplice oggetto, per lo più in tessuto, ha il potere di farci assomigliare tutti, e quindi di renderci meno riconoscibili. Le intenzioni, gli stati d’animo, le espressioni sono affidate totalmente allo sguardo e alla gestualità del corpo, che dovremo imparare a osservare con maggiore attenzione. Nelle relazioni consolidate, negli scambi d’occasione, al lavoro, al mercato, all’ufficio postale e dal dottore dovremo considerare qualcosa che non c’era e che adesso si pone in mezzo.
Penso che la mascherina sia un simbolo molto efficace: potenzialmente siamo tutti malati, e da questa prospettiva ci adoperiamo per rintracciare segni di normalità.  
Ma se questo è vero, mi domando che fine abbiano fatto le previsioni in forma di domanda che da più parti venivano avanzate durante la fase uno, e dove posso rinvenirne tracce nel tentativo di ricondurre alla gestione ordinaria ante contagio il nostro daffare quotidiano, come se potessimo considerare quello che è accaduto – e che accade – un semplice incidente di percorso.
Dentro di me, somiglia più a uno stato, a una condizione di vita che genera crisi, e quindi, necessariamente, cambiamento.

Siamo su una soglia penso, nel pertugio di un passaggio fra la luce e il buio. O fra il buio e la luce. Perché questo cambiamento possa accadere, credo sia necessaria un’elaborazione collettiva.
Potrebbe forse essere la scrittura, l’energia che rende possibile attraversare la soglia.
Dal mio piccolo punto di osservazione mi capita sovente di imbattermi in poesie, pensieri, musica, una produzione letteraria che anima gli incontri virtuali, in rete, cui molti di noi ricorrono nel tentativo di mantenere una forma di socialità, utilizzando di internet la potenza di aggregazione solidale.
In maniera diversa, tante persone stanno registrando il loro tempo sulla soglia. Stanno tessendo l’ordito di un modo che può diventare riconoscibile oltre la soglia, alla ricerca di una forma armonica di mutazione.
Come un coro, penso. Una concatenazione di ritornelli: individuali, di piccolo gruppo, di folle, capaci di generare da capo il programma dell’attività sociale.
Accettare quello che c’è, mascherina e distanza di sicurezza compresi, è un modo per comprendere come poter rinnovare ciò che prima mi era noto, per iniziare a decifrare questa condizione ignota.
Devo farlo per proseguire la mia attività lavorativa, ma anche per colmare la distanza con la mia famiglia residente in un’altra regione, per trovare modi diversi di vicinanza con le persone. La presenza ravvicinata non basta, come posso pensare di sottrarre l’approccio fisico dai miei rapporti? Tocca inventare abitudini nuove. L’alternativa, precipitando nella lacerazione di senso provocata dalla crisi, piegarsi alla frustrazione di incespicare sovrapponendo gesti di ieri alla realtà dell’oggi.

Manerbio, 15 maggio 2020

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